Giugno 2005

Lettere di oreste macrì

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Caro D’Andrea
a cura di aldo bello
 
 

 

 

Non si faccia
un dramma
della mancata pubblicazione. Tutti i nostri poeti meridionali,
che non stiano nelle maniche dei consulenti delle grandi case
editoriali, hanno subito la stessa sorte.

 

Firenze, 4 dic. 1972

Caro D’Andrea, di cuore La ringrazio delle due foto che ho riposto e classificato subito nella mia raccolta.
L’“Albero” a gennaio indica che Milella non ha mantenuto i suoi impegni, per cui questo prossimo sarà l’ultimo numero e anche questo tentativo sarà fallito. Molto cordialmente.Firenze, 20 agosto 1973
Caro D’Andrea, grazie, anzitutto, dei vari saluti e ricordi, singoli e collettivi.
Mi scusi ora se la disturbo per una faccenda che mi sta a cuore. Il pacco (kg. 5.600) degli estratti del mio studio-recensione sulla Chanson de Roland, speditomi da Valli il 7 luglio, tornò indietro a Lecce per un disguido postale. Mandai subito a Valli un espresso all’indirizzo di suo fratello a Tricase con preghiera di trattenere il pacco respinto e di spedirmi al Magistero n. 5 di tali estratti. Pregavo, anzitutto, Valli di avvertirmi sulla sorte dello sventuratissimo pacco. Nessuna risposta. Le sarei grato se, in un eccesso della sua inquietudine turistica, riuscisse ad avvicinare Donato e, quindi, mi informasse sull’esito della piccola pratica. M’importa, in particolare, che non sciolgano i piombi, se prima il pacco non si fa vivo.
Mi scusi della querimonia e mi affido a Lei. Cordialmente.

Firenze, 4 giugno 1974

Caro D’Andrea, si abbia il mio pensiero di amico in questo momento d’infermità di suo padre, al quale porgo i più calorosi auguri di pronta guarigione, anche da parte di mia moglie. Cordialmente.

Firenze, 9 ottobre 1975

Caro D’Andrea, di ritorno da Otranto, dove ho trascorso con mia moglie un meraviglioso settembre, ho trovato la Sua del 3 agosto, della quale La ringrazio.
Mi dispiace di Suo padre, al quale auguro pronta guarigione. Circa l’Almanacco di Mondadori non ho il minimo potere di segnalazione; nella pratica letteraria non conto nulla, di che mi esilaro. Che i poeti pubblichino o no, non m’interessa nulla; a mio parere, giova l’inedito. Il grande poeta colombiano Pombo non pubblicò neppure un libretto in vita.
La consiglio di pensare alla critica e, in particolare, alle recensioni per l’“Albero”, sì da coagulare le essenze delle sue voraci letture.
Gaetano aspetta sempre il suo libro dell’“Albero”; si è preso la copia di Panarese. Glielo mandi, La prego. Buon lavoro e cordialità.


Firenze, 4 dicembre 1975

Caro D’Andrea, con animo commosso partecipo al lutto per la perdita di suo padre. Sapevo, so, il significato profondo della Sua presenza in lei, alla frontiera tra vita e poesia, è un momento di strazio che ho passato anch’io, e il ricordo acerbo mi si ravviva nello specchio della nostra amicizia. Immagino il dolore di sua madre; le dica che le siamo vicini; e condoglianze a tutti i suoi familiari. La memoria del suo buon padre vi consoli tutti; continua egli ad assistervi dalla sua nuova presenza. L’abbraccio.

Firenze, 26 marzo 1976

Caro D’Andrea, ho saputo del malore che ha avuto qui a Firenze in un albergo, sì che non ha potuto neppure telefonarmi, essendo ripartito subito dopo. Ne sono desolato, e qui l’aspetto, l’aspettiamo al più presto, anche Panarese, e Chiappini, che Le ha dedicato un bell’articolo sulla Tribuna del Salento. Mi dica subito di Lei e del suo lavoro; in particolare mi piacerebbe pubblicare sull’“Albero” la sua intervista con Lisi; naturalmente, anche il saggio, o almeno un’introduzione alla stessa intervista.
So che la figura paterna le è ancora confitta nel cuore, ma Lei la faccia morire alla nostra misera terra, affinché rinasca nella sua memoria, che è l’unico luogo dell’eterno. Suo aff.mo.

Firenze, 14 maggio 1976

Classe I, Sezione E, della Scuola Media “A. De Ferraris” di Galatone
Carissimo Sebastiano e condiscepoli, di cuore vi ringrazio della vostra lettera, che mi ha rivelato una piccola comunità affiatata ed entusiasta di ragazzi dediti ai valori umani e poetici, ed è questo un motivo di grande consolazione e speranza in questi tempi di crisi scolastica. Sento nello spirito delle vostre parole la lezione e l’esempio del vostro professore D’Andrea, mio carissimo amico e giovane poeta tra i più seri e ispirati del nostro tempo, e quindi fine critico dall’interno della sua esperienza poetica. Con emozione mi rivedo quasi in lui, così come in voi risento i miei antichi alunni. Furono quelli gli anni più belli della mia vita, quasi 30 anni nella Scuola Media, giorno dopo giorno, con lo stesso vostro entusiasmo versato nella penetrazione degli stessi poeti che voi leggete e che allora non erano arrivati al grande pubblico. Io li andavo scoprendo insieme coi miei alunni.
Perché andai via dal Salento? Perché non esistevano le condizioni di vita letteraria e gli strumenti scientifici per rimanervi, e, in particolare, perché la generazione letterariamente attiva, cui appartenevo, aveva il suo centro a Firenze, cui cercai di avvicinarmi e ci arrivai solo nel 1953. Avevo compiuto gli studi universitari a Firenze nel 1934; ivi insegnai nel ginnasio inferiore fino al 1938; poi a Maglie fino al 1942; 10 anni a Parma e 1 ad Arezzo.
Ma al Salento sono rimasto sempre legato sentimentalmente e spiritualmente, contribuendo senza interruzioni alla sua cultura con partecipazione diretta a gruppi e riviste, di che vi potrà fornire informazioni il vostro professore, specialmente sull’“Albero” del nostro maggiore poeta, Girolamo Comi. Non è passato anno che non abbia trascorso uno o due mesi nella nostra impareggiabile terra. Verrò a trovarvi.
Vi mando in dono, come segno del mio animo grato e commosso, una copia della mia antologia spagnola del Novecento, dove troverete vari poeti, dei quali vi ha parlato il vostro professore. Il compiacimento e l’affettuoso augurio del vostro affezionatissimo Oreste Macrì.

Firenze, 18 ott. ‘76

Caro D’Andrea, mi compiaccio della poesia A mia madre nel “Tempo d’Oggi”, cui l’ha generosamente donata. E mi ricordi a sua madre con la quale mi scuso per non aver potuto accoglierla a Otranto (ultimi giorni e tante visite a parenti).
Cordialmente.

Firenze, 10 dicembre 1976

Caro D’Andrea, Luzi mi ha accennato che Forti non intende pubblicare le sue poesie nell’Almanacco. Ho scritto a Forti la mia protesta sincera e obbiettiva. Ormai le grandi centrali di consulenza editoriale sono incancrenite in un regime consumistico; si vede che il suo detersivo poetico è inferiore a quello dei vari neoavanguardisti, informalisti, postsurrealisti e affini. Sì che tale rifiuto si risolve in un dato positivo per il valore della sua poesia.
Ora mi faccia la cortesia di dare a Valli il nastro lisiano, e che mi sia mandata una copia del testo, sempre che lei non sia capace di trascriverlo senza stenografia. E il saggio su Lisi? Raccomando le recensioni per l’“Albero”. Qui l’aspettiamo. Cordialmente.

 

Firenze, 21-1-1977

Caro D’Andrea, La ringrazio della Sua notturna del 17 c. Mi compiaccio della raccolta intimità della sua vita-scrittura-familiari-amici, nucleo di quella “casa dell’universo” che lei intende accarezzare ed esprimere. Le 6 poesie sull’“Albero” vanno bene e son già troppe per 1 anno di vita; Foscolo Leopardi Ungaretti Montale ne scrissero statisticamente molto meno, dato che la poesia è un’eccezione e una grazia, non un sostituto e un compenso del demone dell’eros o dell’oro o del trono. Io esulto quando persone poetiche come lei mi discorrono della loro parte di vita non-poetica, letture, scuola, viaggi, ecc. Ad es., non mi ha risposto circa il Lisi. Mi piacerebbe che partecipasse di più all’“Albero” con saggi, recensioni e note, ad es., su De Libero, Sinisgalli… Non posso seguirla sul piano di pensieri funebri, nevrotici, ecc. La semplicità d’arte e di vita non ha nulla a che fare con i disastri familiari, che sono la condizione naturale dell’umanità. Lei non può immaginare – e dovrebbe vergognarsene (mi scusi) – i profondi dolori di cui sono costellate le povere vite di Betocchi e di Luzi, costretti a confortarla non si capisce bene di che cosa, se nella sua area domestica nulla è avvenuto di confrontabile ai loro mali oggettivi e soggettivi.
Certo, ognuno di noi è attore della propria vita, ma è necessaria una rigida misura nel simbolizzare casi e accidenti minori e minimi nel sacro recinto del proprio lare. Con ciò non diminuisce, anzi s’accresce la mia amicale partecipazione alle dolorose vicende anche della sua vita. Essenziale è non privilegiarsi, non autoinvestirsi. Queste parole sono l’unico conforto e medicina spirituale che posso dare, come ho fatto in 50 anni di miei rapporti con letterati e poeti, i più fragili su questa terra a causa del loro demone verbale; e non mi sono mai sbagliato, per fortuna. Cordialmente.

Firenze, 8 giugno 1977

Caro D’Andrea, macinato da infinite incombenze, trascuro gli amici, e Lei che mi ricorda spesso. Badiamo sempre più al peggio, all’inutile, dato che ciò che è necessario sembra esso inutile, voglio dire la poesia e i poeti. Mi ha telefonato Betocchi, sgomento della crisi che attraversa Pierri nella sua solitudine. Io per 4 anni non sono andato a trovarlo a Taranto. I poeti si fanno sempre più catacombali, e noi ci scordiamo che ci sono necessari, perché soffrono sempre di più. Anche il libro monumentale di Comi gocciola sangue e lacrime, ancora ignoto alla critica ufficiale, ma il mio conforto nel leggerlo diventa – per ciò stesso – più intimo.
C’è anche Gatti a Ceglie; e chi lo conosce? Eppure è un grande di tutta la poesia del 900.
Mi scusi questo sfogo; solo per dirle che La ricordo con immutata stima, con affetto. Così, gli amici di qui. Cordialmente.

Firenze, 31 gennaio 1978

Caro D’Andrea, mi rallegro per le 35 poesie e l’intenzione di Luzi, andrebbero bene da Scheiwiller, al quale potrei scrivere d’accordo con Luzi. Circa la sua nevrosi, se è al corrente della psicanalisi, Lei sa bene che tale malattia è contigua con la normalità, e che Lei – per la sua età e cultura “fissata” – è quasi fuori dal divanuccio (pericolosissimo) terapeutico e transfert, sì che si deve affidare solo alla sua volontà e capacità di introspezione. Le accennai altra volta che la Sua nevrosi Lei la deve relativizzare per non inorgoglirsene. Basterebbe un profondo atto di umiltà e tutto sparirebbe di colpo, compresa la segreta pulsione di fare del male ai suoi familiari attraverso se stesso; soprattutto la faccenda del poker, sul quale Lei polarizza l’antilarico contrastante col suo vero e autentico carattere umano. Il Poker (le carte da gioco sono stilizzazioni sataniche) è essenzialmente antitetico allo spazio larico, credo tanto più inutile e gratuito, quanto più non entra nell’ordigno della Sua poesia. Ci vuole molto poco per capire il dispositivo psicologico e smetterla per sempre. Io andai via da Maglie per paura di infognarmi a baccarà al Circolo del Littorio! Ed ero natura vincente, una mattina alle 7, dopo 12 ore di gioco rientrai a casa stordito e nevroticamente traumatizzato, e vidi me stesso, il mio sosia, che usciva dalla porta di cucina nel giardino.
Tutto, dunque, è lecito fuorché il poker, dato che, eliminato il poker, sparirebbero anche gli altri sintomi di somatizzazione del non realizzato poeticamente. L’ostacolo maggiore, naturalmente, è la censura del prof. Macrì, riuscendo sottile e dilettevole sensazione il sapere che il prof. Macrì (il PATER, in generale) lo sta censurando nel momento in cui pizzica le carte; giocatore è il Narciso dell’animula, essere ridicolo e stercorario della nostra natura divina.
Piuttosto venga a trovarci, e rifaremo la passeggiata dietro il Salviatino; non in divano-letto, magari in bicicletta. Cordialmente.
Mandi a Donato le recensioni di Landolfi, Penna, Sinisgalli, ecc. Non le faccio nessun complimento, dicendole che ha capacità critiche (di poeta) notevolissime; aiutando quei poveri (poeti) aiuta anche il povero (poeta) D’Andrea.
Più chiaro di così…

Firenze, 6 febbraio 1978

Caro D’Andrea, La ringrazio della Sua nuova lettera del 28 gennaio, incoraggiandola ancora a mandare all’“Albero” le sue note di lettura, che dovrebbero essere la norma della sua azione vitale-letteraria, rispetto alla quale si ponga qualche verso di quando in quando. Quanto alla sua nevrosi, Lei mi aveva già informato e già Le accennai che non se ne privilegiasse, essendo caduta da anni negli studi di psicologia analitica la frontiera con la normalità. Noto, infatti, che la sua lettera spira relativa tranquillità nel suo recinto, che, se non è proprio una botte di ferro tra parenti paese amici Betocchi Luzi Gaetano Macrì circolo lettere stufa treno sonno e insonnia Ramat vivi e morti ecc., è un riparo abbastanza sicuro e propizio al suo intimo lavoro. Anche le sue fobie credo che siano a livello coscienziale o quasi, dato che deve essere esperto di psicanalisi e dei relativi complessi, che son pochi e gli stessi, meccanica monotonia della nostra natura.
Lei sa bene che Baudelaire fu poeta nonostante l’assenzio e che Poe, lungi dall’essere soccorso, dovette lottare contro l’imago materna di Virginia. In parole povere la nevrosi non serve a nulla agli effetti della poesia ed è il motivo per il quale Lei da me non si aspetta nessun abbraccio. Scherzavo, dato che comprendo benissimo le Sue ambasce, né posso augurarle una malattia organica (pur minima), la quale, come Lei sa, le servirebbe per risolvere la nevrosi (parimenti, l’incendio della casa, uno spezzone del Cosmos, ecc.). Unico punto nero, la sua malavoglia verso la scuola, contro le mie aspettative dai dati che Lei stesso mi aveva fornito; forse c’è una crisi di insegnamento positivo, scientifico, sul quale variare le letture di Sinisgalli, ecc.
Solo mi spiace il suo rischio di conformismo all’attuale sfacelo della scuola. Cordialmente.

Firenze, 24 febbraio 1978

Caro D’Andrea, la Sua lettera del 20 c. mi ha molto confortato, e non voglio aggiungere altro quasi per scaramanzia, pur se dal tono induco che posso rallegrarmi liberamente, senza paura di qualche occulto spiritello che venga a giocarmi qualche tiro (prima a Lei, naturalmente). Certo, la frase di Rilke è bellissima, per così dire, ma è anche necessario che i poveri morti muoiano davvero per farsi vivi in noi. Non è un sofisma, ma il rapporto naturale tra spazio poetico e spazio della realtà. Nella sua lettera vedo che la “distanza” è a buon punto, ma deve essere ancora allungata, sì da purificare interamente gli archetipi larici che dai loro inferi aspirano al beneficio della memoria quotidiana e della parola poetica. Accludo copia della lettera a Scheiwiller (prima bozza). Cordialmente.
Mi ha commosso la cartolina da Lucugnano; vi contraccambio il ricordo.

Firenze, 24 febbraio 1978

Caro Scheiwiller, mi accade di raccomandarLe con pari calore due nomi di poeti amici, entrambi secondo l’età non molto fortunati in proporzione inversa ai loro meriti, e quindi non per nulla sto a raccomandarli alla Sua giustizia di editore-critico: l’ancora compianto Vittorio Bodini pei racconti mirabili ispano-salentini, e Ercole Ugo D’Andrea, cui dedicai uno studio nell’“Albero”, provvisto d’una presentazione di Luzi, un resistente nel suo antico e povero lare d’un Sud senza scampo.
Con tutto il mio animo fiducioso e grato. Cordialmente.

Firenze, 12 luglio 1980

Caro D’Andrea, purtroppo non posso aiutarla presso Bertolucci, con il quale non ho contatti da molti anni, non senza complicazioni psicologiche ed equivoci, non certo da parte mia, ma in relazione a gruppi letterari, dovendo io scrutare, in particolare, l’ermetismo e la dimora fiorentina. Credo che Lei abbia capito; a voce sarò più chiaro, semmai, cercherò di esserle utile indirettamente.
Sul suo ritmo o aritmia vitale-domestica, Lei sa bene come la penso. Sono certo che la nostra anima e il nostro animus hanno risorse enormi, soccorsi dalla volontà che sta dentro di essi. Lasci psicanalisti e psichiatri e torni a se stesso e alle proprie responsabilità. Semmai, elimini il fumo che intossica i centri nervosi e compia un’indagine ormonale completa (ipofisi, tiroide, surrenali e fegato con la scintigrafia); deve trovarsi lì la causa della Sua labilità nevrotica; di psicosi neppure parlarne. Non sono medico, ma ho letto molto e conosco bene la psichiatra napoletana e le opere di Piro. Anche i collassi sono pseudoisterici e compensatori. Psicosi significa essenzialmente schizofrenia, e non è il caso. Certo che è pericoloso insistere in una falsa immagine del proprio stato organico-psichico, per quanto lei abbia superato l’età difficile, che si chiude ai 30-35 anni.
Non si faccia un dramma della mancata pubblicazione. Tutti i nostri poeti meridionali, ma anche di altre regioni e province, che non stiano nelle maniche dei consulenti delle grandi case editoriali, hanno subito la stessa sorte: Comi pubblicò in edizioni proprie (private) e a sue spese; Pagano, ecc. Noi sappiamo il valore della sua poesia, e quindi si tranquillizzi.
Mi ricordi a sua madre e a suo fratello e sposa. Cordialmente.

Firenze, 19 dicembre 1980

Caro D’Andrea, porgo a Lei e alla sua mamma i miei più cordiali e affettuosi auguri, anche da parte di mia moglie. Entrambi non siamo stati bene con una nevralgia per ciascuno, rispettivamente al mio arco frontale destro e al di lei polpaccio sinistro! Sì che non son potuto scendere a Lecce per il convegno bodiniano, può immaginare con quanto dispiacere. Vi ringrazio, in particolare, dell’invito telefonico. Ho letto con gusto e ammirato le poesie su “Sallentum”. Sono in disarmo, caro D’Andrea; tra poco 68 anni, e non vi posso seguire verso per verso. Mi perdoni anche Lei.
Coi più cordiali saluti.

Firenze, 6 giugno 1981

Caro D’Andrea, vivamente La ringrazio del dono e dedica (che non credo di meritare) del volume di versi Bellezza della madre. L’ho subito scorso e meditato qua e là, ammirato della persistenza e saldezza del suo “spazio domestico”, penetrato ed espresso nei suoi più intimi toni e sostanze e sfumature intorno all’antica e fresca rosa materna. La Sua poesia continua imperterrita a gareggiare col sublime-animico dei maestri del Novecento, da Rilke a Juan Ramón, fedele al segno primario di Hölderlin. Strane risorse sa attingere dalla stessa inerzia. Un prodigio di sopravvivenza. Essenziale è che la poesia non si confonda con la vita. È il rischio che si nota in qualche verso, peraltro assorbito nell’organicità della raccolta.
Mi compiaccio e Le porgo i più sinceri auguri.

Firenze, 7 giugno 1981

Caro D’Andrea, aggiungo poche parole per quanto riguarda Scheiwiller. Credo, ho l’impressione che non ci sia nulla da fare. Scheiwiller è passato di qua un paio di volte e gli ho raccomandato caldamente a voce (oltre che per iscritto) il Suo volumetto. Mi ha detto di no, né io ho insistito sui motivi. Non è questione di contributo o forse di un contributo totale, cioè, vari milioni. È tutto. Cordialmente.
La prego di non mandarmi espressi, che mi arrivano molto più tardi, se non rischiano di smarrirsi. L’espresso nei confronti del destinatario è meramente... psicologico, e non è il caso con me. Ho tentato di telefonarLe più volte senza esito.

Firenze, 27 luglio 1981

Caro D’Andrea, La ringrazio dei suoi frequenti messaggi e saluti, scusandomi di non potermi tenere al Suo passo data l’età e le gravi e numerose incombenze.
Mi rallegro dell’alta opinione che ha della Sua poesia, il che è normale in tutti i poeti. Il poeta non è né un santo né un eroe, e quindi tira al sodo, alla gloria terrena, e se non la ha subito spasima, urla e si duole in continuazione. Tutti i poeti che ho frequentato sono uguali in questo. Cambia il genere della manifestazione: ci sono gli ipocriti, i discreti, gli esibizionisti, i dignitosi, i sinceri moderati, coloro che disturbano, gli ossessi, i flebili dolenti, ecc., ecc. Talora passano da un umore a un altro diverso o opposto. Ho conosciuto alcuni che non hanno chiesto mai nulla imperiosamente; tra questi il povero Pagano, che La scoprì e pubblicò il Suo primo libretto. Non sarebbe male per ripagare il Pagano che Lei, ad es., studiasse la sua grande poesia e ne scrivesse. È una maniera per esaltare se stessi soccorrere i conterranei, i cogenerazionali, ecc., i maestri, ecc.
C’è un rischio con la fallica autocelebrazione: che si pensi a fare solo poesia. E invece la poesia deve essere un’eccezione. Metta a profitto le ottime letture che sta facendo. Niente altro. Buon lavoro e cordiali saluti.
Se desidera scrivermi ancora mandi all’Università fino a ottobre.

Firenze, 4 settembre 1981

Caro D’Andrea, nuovamente La ringrazio della Sua nuova raccolta Piccola patria che ho preso a leggere con purissimo diletto e intima partecipazione al Suo diario-viaggio per il Basso Salento europeo e cosmico. Le presenze dei maestri “cordiali e maledetti” – Comi e Hölderlin, Juan Ramón e A. Machado, Luzi e Bodini – nominati e impliciti, si fondono con la natura, la storia-geografia, del cuore umano singolare e donato in sacrificio al Lettore, forse il protagonista, che è allettato da un vario “oro” interno e superno; “corpo d’oro” e “pozzo bianco” sono i simboli rivelatori del logos e della musica della raccolta. La quale è continua e contigua con le anteriori. E più mi fermo sul giudizio propriamente critico, in quanto mi sento intimidito dai Suoi messaggi autoelogiativi, del tutto estranei alle mie consuetudini coi poeti; ho bisogno di digerire a lungo la poesia, mentre Lei ha bisogno urgente di contanti! Non invano sono passati 8 decenni di idealismo crociano, imperando la formula poesia/non poesia. Per me vale anzitutto il Significato portato dalla Musica, e questa sintesi la sento nella Sua raccolta, pur al limite della stasi e della mimesi, salva per un capello, che poi in poesia è tutto.
Infine un piccolo suggerimento: di eliminare le dediche, il cui destinatario non abbia nulla a che fare con il testo della poesia. Capisco le dediche a Chiappini e quella della poesia a Luzi, ma non vedo la necessità delle dediche a me, a Valli, a Panarese, ecc. Ripeto a Lei l’invito che feci a Comi: non desidero dediche. Pensi alle dediche compiute da Montale, da Machado, da Guillen, da Ungaretti, ecc., e poi sparite. Noi poveri diavoli desideriamo essere lasciati in pace con la nostra morte definitiva. Solo i poeti possono scherzare con la propria morte. Tra pochi anni, o molto prima, si dirà, ad es.: Chi era questo Macrì? Ciò mi fa fremere, rispettoso del mio nulla futuro, pur se non lo metterò in poesia.
Mi scusi e mi abbia coi più calorosi auguri.

Firenze, 12 dicembre 1981

Caro D’Andrea, a Lei e a Sua madre porgo anche da parte di mia moglie fervidi auguri di buona salute e buon lavoro.
(Mi sento onorato di essere il destinatario delle Sue diaristiche missive – eccetto il “Patroclo” che è del tutto estraneo alla personalità del metaforizzato. Purtroppo sono epistole a senso unico senza possibilità di corrispondenza tanto nel mio caso, quanto in quello di Luzi. Entrambi, o io almeno, abbiamo spento il fuoco generazionale, contratti in interessi spirituali insulari. Per cui io mi rigiro tra le mani le Sue lettere non sapendo che fare, in un profondo disagio. Non sarebbe meglio – in parole povere – che Lei compilasse un vero e proprio diario? Comunque, mi compiaccio dell’attività didattica, dell’innamoramento, della povertà (ma non prende uno stipendio?), dell’eliminazione delle medicine, della visita a Pierri, dell’amicizia con l’eccellente e caro Mandorino, ecc. Lei continua l’individuo incoercibile-espansivo (del puro io) di Comi e Pagano, Bodini e Pierri… Questa sua missione mi commuove, piccola fiamma accesa nel Salento sindacale).

Firenze, 22 dicembre 1981

Caro D’Andrea, ho ricevuto ancora Sue lettere diaristiche, notevoli della Sua persona umana e poetica, ma alle quali resto muto, di che di nuovo Le consiglio di continuare in forma di diario e di attenersi meco all’essenziale del rapporto tra due buoni amici, appartenenti a generazioni molto diverse. Insomma, mi sento a disagio; la lettera si chiama propriamente corrispondenza tra due che si domandano e si rispondono, anche si confessano alla pari. Semmai una tantum, in casi gravi, tra amici di diversa età e generazione.
Due appunti. Io non ho mai riso di Lei, non mi ricordo assolutamente di averlo fatto. Sono solito ridere festosamente, e non è il caso, col Suo tono non di rado catastrofico, per il quale mi sento di non poter fare e dire nulla. Le ripeto, infine, che io non ho Patrocli; che non sono Patrocli né Panarese né Chiappini, né io credo di essere un Achille. Sono semplicemente miei amici e collaboratori. Il suo è un appellativo da scuola media. Rammento due versi che scrissi quasi mezzo secolo fa; si intitolano, come si diceva allora,

GINNASIO INFERIORE
Non s’è ancora deterso lo Scamandro
Della frigia tristezza della vita.

Basta così. Rinnovo gli auguri, anche da parte di mia moglie, a Lei e ai Suoi familiari.

 

   
   
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