Giugno 2005

Lingua e identità

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Italiano a rischio
emarginazione
Ada Provenzano - Carmen Valentini - Mirella Micheli
 
 

 

 

 

Alcune università hanno deciso
di istituire corsi
di italiano,
nel tentativo
di colmare le
gigantesche lacune di molti studenti alle prese
con problemi
di ortografia.

 

Riecheggiamo: in principio era la parola. Ora stenta, dopo tutto, ultima. C’era la scuola. Ormai finge di esistere, sommersa dal dilagante analfabetismo di ritorno. Il sistema telematico, dal canto suo, continua a sedurre gli smarriti esuli dell’istruzione: convinti di essere toccati dalla grazia, hanno fra le mani soltanto uno strumento. Sparita quasi la parola scritta, si aspira a dissiparne la memoria. La demolizione dell’intero ciclo scolastico, con conseguente scomparsa dell’esame di maturità (ogni estate, nella luce complice, si celebra una triste parodia) e con la nascita della laurea nana, innalzata al nebuloso biennio, ha condannato senza appello la conoscenza e il culto della parola nel suo infinito creare la realtà in sintonia con l’onda del pensiero.

Intanto: che cosa leggiamo? Quel che non è scelto, ma imposto, in tante circostanze. Le parole che cadono spesso sotto gli occhi, se si frequentano i quotidiani e i settimanali più diffusi, e persino se si ascoltano la radio e la televisione: peace keeping, outing, dream team, docking station, restyling, briefing, meeting, body building, news, single, beach soccer, early warning, border line, stand-by, sound & light system, genius, premium, think-tank, spamming, privacy… E abbiamo ormai digerito parole come show, shopping, spray, game, final four, regular season, e centinaia di altre parole che hanno invaso la nostra lingua dove raramente il dolce sì suona, sostituito dal più moderno okay, mentre l’aut aut si identifica nell’out out, e l’avvertimento preliminare o la missione di pace sono trasformati in early warning e in peace keeping, e mentre tanti di noi si lasciano cadere nel più tetro sconforto al cospetto di un think-tank che Dio solo sa come si traduce o che cosa voglia dire.
Sempre più globalizzati, sempre più ingabbiati nella veicolare lingua ormai anglo-americana, i giovani «non avvertono più il bisogno di interpretare i segni del linguaggio e ne decretano così anche la fine delle strutture».
Scomparso l’amore della scrittura, le antiche corrispondenze fra persone sono materiale archeologico, il postino recapita ormai soltanto avvisi di pagamento e materiale pubblicitario. Il presente non ha alcuna vertigine, disancorato dalle sue radici. Riverbera scialbe luci e sterili ombre con lo zapping. È in circolazione un lessico «esiguo, omologato e modesto, appena sufficiente per la sopravvivenza.

C’è chi nello schermo freddo di un computer crede di vedere il secondo orizzonte delle cose e chi trova nel meccanico tasto di un cellulare (relitto rumoroso dell’infanzia) l’occasione di rendere fisica l’anima. E siamo in un gotico incubo di emoticons».
Così Giuseppe Amoroso, secondo il quale sicuramente qualcuno sfugge all’occhiuta virtù di queste forme vane i cui molti guasti non finiscono a questo punto: dall’e-mail alla chat, è una valanga di linguaggi automatici, a volte simbolici fino all’osso, altre volte eloquenti e macroscopici (dal computerese all’internettese).
E c’è chi allarga l’orizzonte delle rovine, sostenendo che siamo ormai infettati dalla dequalificazione del linguaggio di intrattenimento e da una generale sciatteria. Un cambiamento linguistico è fisiologico, perché chi parla e chi scrive modifica la lingua in base alla situazione comunicativa, agli scopi, alla propria personalità. Ma quel che non è accettabile è l’impoverimento della lingua, la banalità comunicativa che è fenomeno culturale. Perciò, si possono accettare alcuni anglismi (ma soltanto alcuni) entrati nell’uso comune, ma non è possibile aumentare le pagine del nostro vocabolario del trenta o del cinquanta per cento per venire in soccorso di chi non sa più usare correttamente la propria lingua, ricorre ad una lingua monosillabica, si esprime per sms. Con risultati che sono stati così riassunti: abbreviati segnali crocifissi, trascrizioni fonetiche alla buona, ideofoni fumettistici, ellissi senza fantasmi e senza poesia. Cioè «scheletri inumati in una piccola bara luminosa, in un’enfatica teca del silenzio, impastati di presente, messaggi con risposte preconfezionate, che protraggono l’inganno di un dialogo muto, senza neppure l’alibi di un sogno».
Voliamo rasoterra, dalle parti dell’“itagliano”. Una massaia sarebbe un ammasso di qualcosa. Laconico vuol dire amaramente ironico. Limiti di ragazzini delle elementari? No, sono risposte di studenti universitari. Chi stenta a credere, vada a leggersi il tascabile Dizionario delle parole difficili, di Paola Sorge. Vi trova termini come abbaglio, ballottaggio, canterano, deroga, epigramma, fola, graffito, illazione, latitante, mugugno, necropoli, omelia, postilla, querela, ragguaglio, sproloquio, tracotanza, ubicazione, vilipendio, zizzania, (tanto per citare un vocabolo per ciascuna lettera dell’alfabeto): parole, cioè, che dovrebbero essere d’uso comune, ma il cui significato irrimediabilmente sfugge alla maggioranza dei giovani. Il fenomeno ha raggiunto livelli così preoccupanti, che alcune università hanno deciso di istituire corsi di italiano, nel tentativo di colmare le gigantesche lacune di molti studenti alle prese con problemi di ortografia, ma anche di sintesi di un discorso, visto che non sono in grado di fare il riassunto di un qualunque brano di narrativa.

Cartina di tornasole, gli esami di abilitazione professionale in cui emergono le difficoltà di futuri avvocati, notai, commercialisti, eccetera. Lo studente medio, rispetto a quello di trent’anni fa, ha un vocabolario molto più ristretto ed è molto meno colto, lamenta il presidente del Consiglio nazionale forense e docente di Diritto Civile. Agli esami di abilitazione per procuratore legale i compiti sono infarciti di errori, e niente punteggiatura né congiuntivo, sottolinea il direttore della Scuola del Notariato del Triveneto, per il quale gli imputati non sanno andare a capo e hanno scarsa capacità di argomentare: a rimetterci è la qualità professionale.
E i giornalisti? Notte fonda, parola del presidente dell’Ordine Nazionale, secondo il quale agli esami per diventare professionisti il livello è davvero medio-basso: estrema difficoltà nello scrivere, errori di ortografia e di sintassi, nessun gusto per la qualità; e, malgrado questo, ci si trova di fronte ad elementi presuntuosi e saccenti. La civiltà della parola scritta e pensata, la civiltà che ha al suo apogeo i libri e la memoria culturale, la civiltà in cui sapere di che cosa si sta parlando è profondamente diverso dal fare danni con la penna o rumore con la bocca: ecco che cos’è sotto assalto, a rischio di uno tsunami disgregatore.
Non a caso alcune ricerche internazionali collocano l’Italia piuttosto in basso nella classifica sui livelli di apprendimento: lo studente italiano di nove anni viene dopo il lettone, il bulgaro e il greco; e quello di quindici è al ventesimo posto, ben al di sotto della media. Sicché il linguista Tullio De Mauro può lanciare un allarme preoccupante: nel Belpaese circa 15 milioni di uomini sono semianalfabeti e altrettanti rischiano di ripiombare nella stessa condizione.
Colpa della scuola, si dice. Come se non si sapesse che un insegnante ha a disposizione poche ore per l’italiano, la storia, la geografia, cui le anime belle della politica e i genitori desiderosi di ulteriori parcheggi dei figli vorrebbero aggiungere lo studio della segnaletica stradale, l’educazione sessuale, gli studi sociali e altre cose di cui dovrebbero occuparsi proprio le famiglie. Colpa della società dell’immagine, che ha determinato una mutazione antropologica, si aggiunge: molti studenti sono convinti di avere appreso qualcosa solo per aver visto un film o uno spettacolo televisivo; e a chieder loro se abbiano capito qualcosa, difficilmente si riceveranno risposte positive. E a fare il resto dei danni ci pensano i cellulari.
Riecheggiamo ancora: il teatro che accoglie il tessuto della comunicazione odierna – soprattutto nelle funzione banale di sostituire lo scambio epistolare di una volta – ha un che di metafisico, schiaccia il vasto universo in un segmento labile. Emerge una deriva dei sentimenti dove vite di supplenza si riconoscono grazie ad impulsi elettrici, o elettronici, in questo nostro tempo che considera una perdita di tempo leggere un libro, e che guarda senza soluzione di continuità uno spettacolo. Stiamo uccidendo la nostra capacità di esprimerci, senza opporre alcuna resistenza, come fossimo ipnotizzati.
Di qui, il “trionfo degli ideogrammi totalitari”: si agitano nei quadranti delle attese prive di tremori, forse per meglio sperdersi e svanire, fossilizzati in parentesi, cancelletti, chiocciole, trattini, punti di sospensione e di domanda, frecce, siparietti di lettere obsolete, ghiribizzi geometrici del vuoto. Accade così che i grafici del messaggio elettronico e la isterilita lingua quotidiana consumino la residua cifra di calore della nostra società massificata: all’interno di un transitorio vivere correndo, senza ricordi, senza paesaggi, è una società afasica, indifferente a qualsiasi risorsa verbale che non sia di conforto immediato, di appagamento del corpo. Retorica della sciatteria. Insipienza come trofeo. Malinconici graffiti che cancellano il piacere di un libro (come diceva Daniel Pennac) toccato, letto, tenuto dentro, gelosamente segreto.
Mandati al rogo i libi, banditi i mondi della narrativa e della storia e della poesia, irrompono scuole di debiti e crediti, progetti e recuperi, percorsi, accoglienze, moduli. Si esilia il corpo estraneo dello studio, si dispiega un ventaglio di corbellerie ludiche. Si spalancano le vie agli “studenti liquidi”, il cui linguaggio dice una sola cosa, ed esige dunque una sola risposta. E sinonimo di cultura diventa sempre più frequentemente parlare-domandare-rispondere senza farsi capire: cioè ascoltando solo se stessi.
E oltre i confini? Sembra sventato (fino a quando?) il tentativo di abolire le traduzioni in lingua italiana in sede Ue. Ma questo ha fatto accendere i riflettori su quanto sta accadendo nel panorama delle lingue, in particolare della nostra, che è in difficoltà un po’ ovunque. Persino in Svizzera, dove pure è tra le lingue nazionali.
La Confederazione elvetica è infatti l’unico luogo al mondo fuori dalla Penisola, ad eccezione delle piccole realtà di San Marino e del Vaticano, in cui l’italiano ha un ruolo ufficiale. Ma anche in territorio svizzero incombe il forte peso delle altre lingue. Il tedesco, anzitutto, poi il francese, e, ovviamente, l’inglese delle tecnologie informatiche e dell’attività commerciale delle grandi industrie e della grande finanza.
L’italofonia è messa in crisi dalle decisioni prese in alcune università. Il Politecnico di Zurigo ha soppresso la cattedra di Lingua e letteratura italiana; l’università di Neuchâtel ha abolito le cattedre di italiano e di greco antico. Motivazioni: costi elevati, domanda insufficiente. Docenti e studenti di Neuchâtel sono sul piede di guerra.
La Svizzera ha 7,3 milioni di abitanti: secondo il censimento del 2000, il tedesco è parlato dal 63,9 per cento, il francese dal 19,5 per cento, l’italiano dal 6,6 per cento, il romancio (Grigioni) dallo 0,5 per cento.
La percentuale restante è composta da varie altre lingue parlate da stranieri residenti. Ma i dati non dicono tutto, in particolare sull’italiano e sull’inglese. È vero che la nostra è lingua dominante solo in Canton Ticino e in una parte del Canton Grigioni, ma è anche vero che alcune quote di popolazione classificate sotto il tedesco o il francese sono comunque interessate all’italiano. Basti pensare ai nostri immigrati, ai loro figli e nipoti. Per quel che riguarda l’inglese, è proprio la sua emersione a mettere in crisi il delicato incastro elvetico di federalismo linguistico.
Nelle scuole e nelle università cresce la domanda di inglese, mettendo in discussione le seconde o le terze lingue, che sono spesso l’italiano o il francese.
Oltre la scuola, la politica. Il federalismo nasce anche dalla tutela delle minoranze, ma questa tutela a volte deve attuarsi controcorrente. Il Governo federale è composto da sette ministri, e allo stato attuale nessuno di essi è italofono: prevalgono i tedescofoni e, in seconda linea, i francofoni. Nell’amministrazione stessa è scesa la presenza di funzionari italiani. Per questo è stato tirato il segnale d’allarme, che ha dato luogo ad alcune reazioni. Si stanno studiando iniziative, anche di legge, per far barriera sull’italiano nelle scuole. E l’Usi (Università della Svizzera italiana) di Lugano, plurilingue, ma con l’italiano come lingua base, si sta adoperando per difendere la lingua di Dante, soprattutto nelle discipline umanistiche.
La Svizzera non fa guerre guerreggiate, dunque neanche per le lingue. Ma è chiaro che nell’intreccio federalista i timori sulla tenuta della lingua italiana stanno assumendo un ruolo centrale, con implicazioni politiche e sociali. Mentre da noi gli esami scritti sono sostituiti dalle crocette da mettere nelle caselle dei quiz!

 

   
   
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