Giugno 2005

Il Corsivo

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Cronaca
di ordinarie amnesie
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

La ribellione,
la rabbiosa voglia
di vincere sul destino, costante assoluta
e vitale nei cavalli di Théodore Géricault, “eroi” tragici e
romantici della vita
moderna. In pietra nera, inchiostro
acquerellato
e acquerello, “Cavaliere turco in battaglia”.

 

Si è dovuto istituire una “giornata della memoria” perché emergesse dal pozzo scuro della storia negletta la vicenda delle foibe e delle tragedie vissute dalle popolazioni istriane nei giorni della “liberazione” ad opera delle truppe titine: che è come dire che quella liberazione dalla dittatura fascista avvenne grazie all’azione violenta di un’altra dittatura, quella comunista degli jugoslavi. Erano state pagine di storia poco lette e pochissimo esplorate per decenni, sia perché avrebbero messo a nudo i comportamenti sanguinari di certe formazioni militari e paramilitari operative nel nostro confine orientale, sia perché avrebbero coinvolto la strategia politica antitaliana dello stato maggiore dell’allora Pci, che auspicava (e in questa direzione lavorava) la cessione di territori più ampi a Belgrado, compresa l’intera provincia di Udine. Del resto, c’è voluto mezzo secolo per farci conoscere la vera storia dell’occupazione di Berlino ad opera dell’Armata Rossa; e sei decenni non sono stati sufficienti a farci appurare tutto quel che è realmente accaduto nel cosiddetto “Triangolo della morte”, in quella micidiale zona dell’Italia del Nord in cui una Resistenza tralignata prolungò le operazioni di guerriglia, ma trasformate in una catena di delitti per vendette, per ritorsioni, per unilaterali atti criminosi.

E ci son volute ricerche difficili e tanta pazienza, in attesa di tempi meno ostili, per render note revisioni storiche che facessero giustizia di pregiudizi, di “verità” strumentali, di amnesie condivise. Lo si è visto con chi è stato definito dissacratore della storia o distruttore di valori: da Furet a Del Noce, da Nolte a De Felice. Proprio grazie a costoro abbiamo potuto vedere in una luce nuova molti luoghi della memoria, abbiamo acquisito più attenti strumenti critici, abbiamo potuto stringere legami vitali con la storia. Dopo tutto quel che ci ha messo, e continuerà a metterci a disposizione la riesplorazione delle vicende del “Secolo breve”, per noi sarà difficile non indignarsi se – complici la scuola e i maestri del politicamente scorretto – quasi nessuno sa o ricorda, ad esempio, che il 17 marzo è il giorno in cui venne proclamata l’Unità d’Italia; se quasi tutti usiamo le grandi tragedie come clave per abbattere gli avversari politici; se saranno ancora alimentati i pregiudizi contro le democrazie, per tenere in ombra gli orrori delle dittature, come accade là dove la politica cede il passo all’ideologia e il servilismo degli estremisti si fa strumento di conservazione reazionaria, oscillando fra rancore e oblio, e tra la criminalizzazione dell’Altro e la sua identificazione, sempre e comunque, con il Male.
È quanto si verifica nei confronti dell’America, dalla Guerra Fredda in poi. Se esaminiamo attentamente la situazione planetaria, tocchiamo con mano che dopo la caduta dell’Urss la leadership statunitense è stata l’unico coagulante della legittimità internazionale. Gli Usa sono da un secolo la sola potenza che concepisca il potere come teso a preservare l’equilibrio mondiale: è un principio imperiale legato non ad un’egemonia americana, ma alla costruzione di un mondo in cui sia possibile l’America. Dunque, si tratta di un impero senza territorio e senza colonie, che vuole fondarsi sull’adesione democratica della maggioranza dei Paesi del globo, (va ricordato che la stessa Onu fu voluta dagli americani). Ed è singolare che questa America ottenga il consenso dei governi e sia simultaneamente odiata dalle masse. Che sembrano essere cieche di fronte a certe realtà illiberali ancora attive in vari continenti, e soprattutto immemori delle vicende storiche che invece dovrebbero insegnare qualcosa a chi (singoli e masse) col silenzio o con atteggiamenti manichei, comunque con evidenti complicità, quelle realtà accetta e all’occasione esalta. E dal momento che la vicenda dell’Iraq attualizza questo discorso, procediamo per esempi, rileggendo alcune pagine di storia, e di storie, che ci sembrano emblematiche.

Nelle foto dei palazzi di Saddam Hussein pubblicate dai giornali di tutto il mondo appaiono mobili stravaganti, sedie dorate, sontuosi divani, corridoi foderati di marmi pregiati, lussuose sale da bagno. Ma non vi sono biblioteche. Cioè: conosciamo (forse) i gusti del rais, ma ignoriamo le sue letture. Costui ha scritto un romanzo fantapolitico, con fortissimi toni eroici e patriottici. Ma non sappiamo che cosa leggesse e se si fosse mai documentato sulla sorte dei “Grandi Uomini” che avevano drammaticamente perduto il regno e lo Stato. Aveva un modello da imitare? Ha immaginato le sequenze della propria fine e il dramma di cui è non più protagonista, ma imputato eccellente? Sapeva che Hitler, nel bunker della Cancelleria, aveva inserito nel suo testamento politico un amaro confronto tra il suo acerrimo nemico – Churchill – e Charles Fox, fautore di un accordo con Napoleone? Sapeva che Mussolini, partendo per il suo ultimo viaggio dalla prefettura di Milano, nell’aprile ‘45, aveva scartato le letture storiche e aveva portato con sé, insieme a una borsa piena di documenti, solo una deliziosa operetta romantica di Eduard Morike, dal titolo “Mozart in viaggio per Praga”? Sapeva che Fulgencio Batista, dittatore di Cuba, era fuggito su una barca alla volta di Miami, e che Nicolae Ceausescu, dittatore della Romania, era partito in elicottero dal tetto del Palazzo del Comitato Centrale? Sapeva della morte di Hitler (un colpo di pistola alla tempia), o di quella di Salvador Allende (una raffica di mitra dopo un ultimo tentativo di difesa nel palazzo presidenziale), o della fuga di Guglielmo II, Kaiser di Germania, (un piccolo corteo di macchine attraverso la frontiera olandese), o di quella del mullah Omar (una corsa in motocicletta attraverso le montagne dell’Afghanistan)? Ripassiamo anche noi la lezione, ricordando brevemente quale fu la fine di altri Stati e imperi, dagli inizi del Novecento ai nostri giorni.
La serie storica ha inizio a Pietrogrado, nel marzo 1917, secondo il vecchio calendario ortodosso, dopo il fallimento della grande offensiva del generale Brusilov. I presagi del collasso erano nel cielo della città, come altrettante comete, da alcune settimane. Il 30 dicembre il monaco Rasputin, avido e intrigante consigliere di corte, era stato massacrato da un gruppo di nobili e gettato in un canale della Neva. Nel palazzo imperiale uno Zar e una Zarina devota avevano progressivamente perduto qualsiasi contatto con la realtà. Nella periferia, gli operai delle fabbriche e gli scaricatori del porto davano segni di ribellione.
Quando la gente cominciò a tumultuare sulla Prospettiva Nevskij e la Duma rifiutò di piegarsi a un decreto imperiale che ordinava la sua dissoluzione, Nicola II abdicò per sé e per i suoi discendenti in favore di un fratello, Michele, che rinunciò al trono appena due ore dopo. Dopo avere regnato per tre secoli e celebrato il loro trecentesimo compleanno nel 1913, i Romanov uscirono di scena e abbandonarono il potere nelle mani di un gruppo di liberali e di democratici. La Russia divenne repubblica e il suo Primo ministro fu per qualche mese un socialista democratico, Kerenskij, deciso a continuare la guerra nel campo delle grandi democrazie. Non durò molto. In novembre l’incrociatore “Aurora”, attraccato a una banchina della Neva, sparò a salve qualche colpo di cannone e un drappello di guardie rosse entrò nel Palazzo d’Inverno. Poche ore dopo, Kerenskij fuggiva a bordo di un’automobile dell’ambasciata americana e Vladimir Lenin annunciava al mondo, dalla sala da ballo di un collegio femminile, che «si era compiuta la prima grande rivoluzione socialista».

Un anno dopo toccò all’Austria-Ungheria e alla Germania. Il segnale giunse da Kiel, dove i marinai della flotta tedesca rifiutarono di scendere in mare per battersi contro le navi inglesi. Nelle ore seguenti l’esempio di Kiel si propagò attraverso il Paese e costrinse Guglielmo II ad abbandonare la capitale. A Monaco venne costituita la Repubblica bavarese. A Budapest il Parlamento proclamò la separazione da Vienna. Nei reggimenti e nelle fabbriche vennero creati i primi “soviet degli operai e dei soldati”.
Dominato dall’ossessivo ricordo dell’abdicazione del cugino Nicola, il Kaiser cercò di resistere, ma alla fine fu costretto a cedere. Rinunciò al trono e fuggì nei Paesi Bassi, dove poté, grazie alle autorità olandesi, sfuggire agli Alleati che volevano processarlo come criminale di guerra. A Vienna, nel frattempo, l’imperatore Carlo d’Absburgo, salito al trono dopo la morte di Francesco Giuseppe, chiudeva con l’abdicazione la lunga storia di una piccola famiglia svizzera che, al vertice della sua fortuna, aveva dominato l’Europa e le Americhe.
Un salto cronologico, sempre all’interno del “Secolo breve”. L’ultimo atto della Repubblica spagnola si consumò fra la conquista franchista di Barcellona nel gennaio 1939 e la resa di Madrid e Valencia alla fine del mese di marzo. La flotta fuggì a Biserta, in Tunisia, dove si arrese ai francesi. I consiglieri sovietici tornarono a Mosca, dove precipitarono nel vortice delle purghe staliniane. I ministri e i dirigenti dei partiti trovarono asilo a Parigi, a Buenos Aires, a Città del Messico. Una lunga fila di miliziani, spesso accompagnati dalle loro famiglie, si arrampicò sui Pirenei, attraversò la frontiera e finì nei campi di raccolta allestiti dalla Repubblica francese.
Nella storia delle grandi cadute del Novecento il nostro Paese ha diritto a tre capitoli. Nel primo, Mussolini venne arrestato da un colonnello dei carabinieri, dopo un’udienza con Vittorio Emanuele III, e l’Italia passò dolcemente, con qualche esplosione di gioia e di rabbia, dal regime fascista a un regime paternalistico e autoritario che piacque al generale Francisco Franco e al bonario dittatore portoghese Salazar. Nel secondo, Vittorio Emanuele e il suo governo abbandonarono Roma frettolosamente per imbarcarsi a Pescara (sulla nave da guerra “Baionetta”) e per trasferire al Sud, nelle aree già occupate dagli alleati, un simulacro di Stato italiano. Nel terzo, Mussolini, con il vertice della Repubblica Sociale, fuggì da Milano e, incappato in brevissimo tempo nelle maglie delle formazioni partigiane, finì nella macelleria di Piazzale Loreto.
Il maresciallo Pétain, capo dello Stato francese, aveva avuto maggior fortuna. Andò in Germania al seguito dei tedeschi, trovò rifugio con altri uomini politici nel castello dei Siegmaringen, venne arrestato dagli alleati, processato e condannato a morte. Ma fu graziato e finì i suoi giorni nella fortezza di un’isola della Baia di Biscaglia. Ancora più fortunato di lui fu l’imperatore del Giappone. Gli americani impiccarono alcuni responsabili del regime e rinnovarono l’intero Stato nipponico, ma ebbero l’accortezza di capire che la presenza di Hirohito avrebbe reso le loro riforme più tollerabili.
Dopo la fine del Secondo conflitto mondiale e dopo l’instaurazione di regimi comunisti nei Paesi conquistati dall’Armata Rossa, l’Europa divenne un’area di notevole stabilità politica. Con due eccezioni: la Grecia, dove in conflitto con le forze marxiste i colonnelli si impadronirono del potere nel 1967 e lo tennero fino all’agosto del 1974; e il Portogallo, dove il successore di Salazar, Marcelo Caetano, venne travolto in un tripudio di garofani dal logorio delle ultime guerre coloniali, in Angola e in Mozambico. Il caso della Spagna fu assai diverso. Il franchismo morì per eutanasia, e la sua lunga agonia permise che sotto la dura scorza del regime autoritario si formasse, con qualche saggio compromesso, la pelle di una nuova democrazia.
La morte dei regimi, in quegli anni, fu un fenomeno che interessava soprattutto i nuovi Stati, emersi dalle fine dei grandi Imperi in Africa e in Asia. Fra parecchie dozzine di rivoluzioni, di putsch e di stragi di palazzo, scegliamo la fine di tre regni. Faruk, re d’Egitto, fu detronizzato nel luglio del 1952 da una sollevazione di militari, e finì la sua vita nei casinò italiani e francesi, dove aveva l’abitudine di dire, con disincantata ironia, che ben presto i sovrani, oltre alla regina d’Inghilterra, sarebbero stati soltanto quattro: i re di fiori, picche, quadri e cuori. Feisal, re dell’Iraq, fu massacrato con la sua famiglia a Baghdad durante una rivolta di ufficiali nazionalisti, nel luglio del 1958. E lo Scià dell’Iran, Reza Pahlavi, abbandonò Teheran in aereo il 16 gennaio del 1979, per far posto all’Ayatollah Khomeini, che venne entusiasticamente accolto allo stesso aeroporto, sedici giorni dopo, da tre milioni di persone.
Comincia infine, nel 1989, la crisi dei regimi dittatoriali comunisti. Quasi sempre senza spargimento di sangue (l’eccezione fu la Romania, dove Ceausescu e sua moglie furono trucidati da un gruppo di congiurati opportunisti), rientrarono nell’ombra i leader tedesco-orientali, polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, bulgari, albanesi e, ovviamente, sovietici. Molti di costoro andarono a riposo, ma alcuni fra i più giovani uscirono da una porta per rientrare da una finestra. Ultimo ad abbandonare la scena fu Milosevic, oggi all’Aja per un processo in cui si difende – è onesto dirlo – con uno stile aggressivo e persino brillante.
Quanto sta accadendo nello scacchiere del Vicino Oriente è istruttivo: mentre Israele e Palestina lavorano per una pace duratura, e mentre – dopo la minaccia americana di tagliare gli aiuti annui per due miliardi di dollari – l’Egitto è costretto a indire elezioni democratiche e a rimettere in libertà gli oppositori, in Libano i siriani non intendono abbandonare il campo, come imposto dalle Nazioni Unite, e continuano ad esercitare un ferreo protettorato: chi conosce certi palazzi del lungomare di Beirut sa bene che sono ancora oggi tremendi luoghi di tortura; e chi conosce il dittatore di Damasco sa bene che si tratta di un satrapo che continua a seminare lutti nella sua terra, oltre che nel Paese dei Cedri. Eppure, di fronte a tutto questo, come al cospetto di altre situazioni analoghe, il pacifismo planetario non batte ciglio, alimentando il legittimo sospetto che si mobiliti solo ed esclusivamente in funzione antiamericana e antioccidentale.
Che cosa ha saputo dire, che cosa sta facendo, questo pacifismo a senso unico, in favore della libertà e della democrazia cancellate in quarantacinque Paesi da altrettanti dittatori? Dice zero, fa zero. Eppure, la classificazione di queste dittature è nota, e va ben oltre l’Asse del Male che il Presidente americano identificò in soli tre Stati-canaglia (l’Iraq, l’Iran, la Corea del Nord). L’elenco comprende sei tipi di differenti dispotismi: i dittatori-monarchi, le dittature personalizzate, quelle militari, le comuniste, le teocratiche e quelle rette dai regimi-partito.
I dittatori-monarchi dominano in Arabia Saudita, Oman, Qatar, Emirati Arabi, Brunei, Buthan e Swaziland. Le dittature personalizzate, le più diffuse fra tutte, riguardano Eritrea, Guinea Equatoriale, Ciad, Togo, Camerun, Liberia, Guinea, Zimbabwe, Libia, Repubblica del Congo, Somalia, Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakhstan, Tajikistan, Bielorussia, Cambogia e Maldive.
Le dittature militari sono in Sudan, Pakistan, Birmania, Burundi e Algeria. Quelle comuniste sono in Cina, Corea del Nord, Vietnam, Laos e Cuba. Le dittature di partito sono in Egitto, Siria, Tunisia, Angola, Yemen, Haiti e Ruanda. Quella teocratica è in Iran.
Come abbattere questi dispotismi? Secondo Mark Palmer, ex ambasciatore americano a Berlino e già collaboratore di Reagan e di Kissinger, la strada da seguire è la creazione di una Comunità di Democrazie, una nuova organizzazione internazionale che riunisca i Paesi della Nato e le 110 Nazioni che si incontrarono a Varsavia (nel 2000) e a Seul (nel 2002), dove sottoscrissero un programma per «conservare la libertà politica sui propri territori e diffonderla nel resto del mondo». Agendo come un unico blocco, le nazioni filo-democratiche potrebbero condizionare l’agenda dell’Onu (che si compone di 189 membri) e porsi alla guida della comunità internazionale, non solo o non tanto perché disporrebbe delle maggiori risorse militari, quanto perché in possesso di quelle economiche. I modelli cui richiamarsi sono quelli di Marcos nelle Filippine e di Milosevic in Serbia, Paesi in cui le rivolte delle popolazioni furono decisive e costrinsero i regimi a cedere il potere e i despoti a fuggire. Palmer è convinto che nel XXI secolo le dittature non siano in grado di resistere a prolungati assedi economici, politici, legali e mediatici da parte della comunità internazionale: assedi che devono riguardare i leader, non i popoli. Di fronte a prevedibili resistenze, la forza deve restare l’ultima opzione: diritto di precedenza hanno i conflitti non-violenti e il massiccio sostegno esterno al desiderio di libertà e di riforme delle popolazioni locali oppresse.
Utopia? Forse. Ma da qualche parte, in qualche modo e momento deve pure aver principio un sogno, cioè un’utopia possibile, da tradurre poi in progetto universale, non discriminatorio, non penalizzato da strategie di parte o da sottoculture ideologiche. Ecco: bisognerebbe istituire una ricorrenza specifica, una Giornata della Democrazia come memoria rinnovata delle matrici che ci hanno formato e che hanno informato di sé questo vituperato Occidente. Probabilmente anche questo potrebbe indurre i farisei della violenza pacifista unidirezionale ad avviare una salutare revisione delle proprie acritiche convinzioni.

 

   
   
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