Giugno 2005

Terre di confine - Mediterraneo e mezzogiorno italiano

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Vecchie protezioni
e nuove avventure
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

L’ambizione
principale resta quella di mettere l’impresa al centro della cultura e degli interessi della società
meridionale, creando aree
di eccellenza nel contesto di un
sistema integrato.

 

Il carro dei robivecchi si muove lentamente, illuminato dai colori degradanti del tramonto. La morte del sole dà sempre tristezza, ma aggiunge anche tanta solitudine al tabù di “periferia relativa” che ci siamo cuciti addosso e con il quale veniamo classificati. Diventano più nitidi i confini della periferia dell’anima, più nette le inquietudini tra le radici provinciali e le tentazioni urbane, la vita di trincea e quella della foresta cosmopolita. Con i bisogni di solidarietà che aumentano e i valori che si smarriscono nel tentativo surreale di mandare avanti un mulino che macina a vuoto, senza grano dentro.
L’era buonista delle grandi comunità aggreganti e dialoganti con i canoni della tolleranza e del laissez-faire a tutto campo è giunta al capolinea. Colpita da paralisi istituzionale e politica. Non a caso nelle voragini che si aprono prendono il sopravvento sentimenti nostalgici per le categorie del passato, promuovendo nuove simpatie per gli scenari di rigidità e contrapposizione, per la ridefinizione dei rapporti tra sicurezza collettiva e libertà individuale. È il prezzo della distrazione, del protezionismo esasperato, delle opzioni poco mobili; pratiche sempre coltivate dalle élites cosmopolite e denazionalizzate, ora messe alle corde da un vento reazionario che produce drammi collettivi senza frontiere, rendendo esplicito il conflitto tra credo illuminista ed eresia feudale.
Pensando alle diseguaglianze del secolo giovane viene in mente la metafora dissacrante della Città invisibile di Calvino, sdoppiata in quella delle rondini (vita del suolo) e quella dei topi (vita del sottosuolo). A dispetto dell’immagine di efficienza e di governance della democrazia americana (con un capo che alterna comportamenti di guerriero ad altri di buon samaritano), un senso disperato di vuoto domina i comportamenti diffusi e induce a guardare al remake, al recupero del passato, dando spiegazione dei tanti caos in circolo, del fenomeno fondamentalista mediaticamente dominante con i suoi confini di sangue, la moralizzazione della violenza, i presunti valori etico-religiosi connessi alla sua radicalità politica. Sotto la spinta di un nemico assoluto che richiede mobilitazione globale c’è il rischio di conseguire prodotti “anticati”. Credevamo di vivere in un’era minimalista e invece scopriamo l’imperioso ritorno del massimalismo, con prodotti confezionati senza condivisione progettuale, subiti per paura o per fame, affidati con incerte speranze di successo a laboratori di democrazia approntati in tutta fretta (Afghanistan, Palestina, Iraq, Romania, Paesi ex Urss).

A noi meridionali e mediterranei corre l’obbligo di fare in questo contesto tumultuoso delle scelte di campo precise, scrollandoci di dosso le diffuse tendenze all’attendismo. La guerra di movimento è più utile delle sonnacchiose operazioni di trincea. Viviamo giorni cruciali per i nuovi equilibri geopolitici che usciranno dalla riforma dell’Onu e delle altre istituzioni internazionali (Wto, Fmi, Banca mondiale); dagli assetti costituzionali dell’Unione europea; dalla fibrillazione del mondo arabo, africano, asiatico; dalle tendenze imperiali in ascesa, con le deflagrazioni che producono attraverso l’erosione dei princìpi di democrazia costituzionale per mano del potere esecutivo.
Al pessimismo storico e al vittimismo cronico bisogna contrapporre uno spregiudicato realismo, poiché si deve pur dare una voce alle questioni che la comunità internazionale classifica sbrigativamente “irregolarità marginali”. Facendo riferimento a segmenti di umanità implicitamente declassati ma comunque insediati in territori di frontiera strategicamente importanti per i nuovi assetti del potere globale.
Per uscire dall’isolamento di alcuni importanti momenti decisionali si avverte l’esigenza di creare nuove centralità politiche. Attivando tra i Paesi insediati lungo le sponde del Mediterraneo un laboratorio socio-politico (un Osservatorio, che nella fase operativa può utilizzare un Segretariato entro cui far lavorare gruppi di contatto su temi specifici) per trasformare l’anonimato delle periferie in offerta di stabilizzazione, per dare contenuti a un’identità mediterranea sottratta alla marginalità e resa indispensabile al concerto delle potenze che disegnano le nuove geometrie del potere. La sua autorevolezza dipenderà da una leadership credibile che dovrà esprimersi attraverso un ruolo istituzionale stabile, capace di sviluppare nel tempo attività di governance indipendente. Producendo una continua interazione tra i mercati nazionali e le strategie di cooperazione tra soggetti istituzionali, politici e imprenditori.
Cosa possiamo fare noi cittadini e classe dirigente del Mezzogiorno italiano per facilitare la nascita di questo laboratorio politico?

Potremmo diventare un importante ingrediente dell’identità mediterranea se acquisissimo consapevolezza del nostro ruolo e delle nostre potenzialità di polo di riferimento.
Possiamo anche immaginare un Sud italiano con un sistema bancario autopropulsivo, un’industria fiorente, una larga presenza di investimenti stranieri, una Borsa prestigiosa di nuovo conio, infrastrutture efficienti e servizi sociali d’avanguardia. Ma tutto ciò sospenderebbe le pratiche dell’attivismo protestatario, fermerebbe il vociare corrosivo dei localismi, annullerebbe il bisogno individuale di un protettorato? Se restiamo tutti devoti all’ideologia dello scontento, attaccati a quel poco di stato sociale che ancora sopravvive, non si potrà scalfire la predisposizione a vivere rannicchiati nelle nicchie, a conservare più che a innovare, anche quando saremo sopraffatti da un meticciato imposto dal turismo forzato, equo e solidale. I fatti recitano argomenti testardi d’inerzia e di rifiuto del rischio di crescere, mentre i percorsi dello sviluppo richiedono scelte in condizioni costanti d’incertezza e di gestione del rischio. Il capitalismo presente nel Mezzogiorno è destinato a restare in sofferenza, per le scarse possibilità ambientali a posizionarsi in sintonia con la cultura dello sviluppo globalizzato.
Così unico propulsore attivo resta la coincidenza esistenziale tra il culto soggettivo del vittimismo e una pratica politica che, essendo portata per vocazione al controllo di tutti gli spazi sociali, crea un ambiente-serra animato da forze vitali di sussistenza targata.
La necessità di fare sistema ha bisogno invece di realtà molto diverse. Di impegni collettivi operosi, senza riforme che producono altre riforme nel segno di una precarietà stagnante. Con inizio dalla virtù politica di semplificare i processi decisionali. Servono sforzi concreti per risolvere un problema grave che ci portiamo appresso dall’unificazione nazionale. Occorre creare certezza e stabilità là dove si riscontra continuo pendolarismo tra il principio dell’uniformità (applicazione di leggi generali) e il principio della differenziazione (adozione di leggi speciali), con le conseguenti tendenze ondivaghe verso l’accentramento e l’autonomia. Un altro limite all’efficienza e all’autonomia istituzionale risiede nel noto fenomeno della politicizzazione del personale pubblico che, oltre a rendere oneroso il funzionamento della macchina amministrativa, mina l’imparzialità e la credibilità dei servizi offerti.
Va ancora considerato che nelle economie in via di sviluppo una consistente percentuale della forza lavoro è impegnata nei servizi (terziario). Una tecnologia sempre più sofisticata ha creato una sorta di moto perpetuo che trasforma continuamente il processo produttivo fordista. Ciò rende indispensabile un costante monitoraggio delle trasformazioni che intervengono nelle professionalità, nella struttura del lavoro e nell’assetto delle dinamiche organizzative del ciclo degli affari. Questa esigenza di razionalizzazione non solo non è stata colta nel nostro Mezzogiorno, ma cozza contro il frazionismo dei distretti che ha dimostrato scarsa utilità per uno sviluppo di sistema (anche l’utile esperienza dei Por ha il limite della dimensione regionale).
La logica dei distretti non può creare la Svizzera del Sud poiché rende difficile lo sviluppo di economie di scala dimensionate secondo le esigenze dell’era digitale, della geografia delle reti materiali e immateriali. Ci sono riscontri di una forte competizione locale e interregionale che fa perdere il senso di unità, producendo stanche cronache di appartenenza ad una comunità che fa abuso di cellulari, ma si organizza per cellule.
Certo, iniettare unità di intenti e razionalità nei meccanismi di mercato e di gestione dei servizi non crea consenso politico e toglie tasselli agli equilibri fondati su una conduzione parcellizzata e patrizia degli affari. Un intreccio che trova collusi gli interessi organizzati dell’establishment, ma crea solitudine e squilibrio nella società civile (imprese, professioni, volontariato), per gli spazi di crisi che si aprono con i meccanismi bloccati, con la frammentazione delle proposte, con l’inaridirsi del desiderio di cominciare e ricominciare. Nei percorsi della memoria si consolidano motivazioni psicologiche negative che producono fiacchezza d’animo e di pensiero positivo, in un contesto sociale che non può dimenticare la straordinarietà delle vicende culturali del passato.
Un fenomeno che si riflette anche nella letteratura meridionale, incapace di dare risposte alle domande inquietanti del nostro futuro. Manca la rappresentazione dei fattori di complessità, il coraggio del movente corale (Pasolini), la ricerca del nesso di causalità tra giudizio storico e giudizio morale, rapportato ad una società composita, bloccata dal dovere della memoria e dalle ferite dell’anima. Manca l’analisi del mosaico che può produrre fermento sociale, che può dare significato ad un cammino comune, nella transizione dal passato alla modernità. Anche se la provincia e il formato-paese sono più ricchi di umanesimo sperimentale per la familiarità tra compaesani e una predisposizione culturale underground estranea ai meccanismi metropolitani della cultura omologata.
Un approccio utile alla creazione di un Sistema Mezzogiorno ha bisogno di forti novità culturali e di modello. C’è bisogno di nuove pulsioni dell’anima per recuperare l’orgoglio di una società civile dubbiosa e distratta e restituire fiducia ad una generazione sovraccarica di diplomi, lauree e master, ma priva del diritto di sognare. C’è bisogno di nuove aggregazioni collettive caratterizzate da un forte spirito di solidarietà e di condivisione. Fuori di retorica, ciò è possibile se si avverte il dramma sottostante al declino della società della noia e dunque la necessità di serrare le fila e fare squadra aggregandosi in nuovi gruppi sociali.
Quando si parla di aggregazioni collettive il pensiero va ai movimenti (sottoprodotto della politica) o ai corpi intermedi, cioè alle organizzazioni sindacali (lavoratori o datori di lavoro). Noi pensiamo ad altro. Le spinte della modernità pongono nuove tematiche organizzative all’attenzione della società civile, non più rappresentabili con i parametri tradizionali del conflitto capitale-lavoro. Pensiamo al ruolo significativo che possono svolgere le Fondazioni (quelle bancarie, in particolare) nell’elaborare progetti strategici nei settori della ricerca, dell’istruzione, della sanità, dei beni culturali, ecc. Ad esse possono aggiungersi Associazioni e Organizzazioni non profit che, operando in una logica di sussidiarietà verso l’intervento pubblico e privato, possono dare contributi notevoli al potenziamento di nuovi strumenti di crescita. In un impegno collettivo che attraverso un accresciuto tasso di condivisione determini un aumento reale del potere del cittadino e dunque nuovi standard di qualità per la politica.
Finiremo sempre più spiazzati se non riusciremo a costruire nuovi “fondamentali” sociologici: per parlare lo stesso linguaggio nelle questioni essenziali, per avere gli stessi sentimenti, le stesse passioni e gli stessi turbamenti, per trovare finalmente il collante di un’identità comune capace di creare un blocco di tradizionalisti innovativi. Con un’avvertenza per i politici illuminati che intendono sottrarsi al coro dei distributori di melassa. Il superamento dell’enunciato e mai realizzato modello integrativo Nord-Sud esige adesso uno spirito di rivolta fondato sulla riprovazione morale. Non basta più il semplice rimorso psicologico. È il caso di ricordare che negli stimoli alla domanda e nell’utilizzo delle risorse viene sollecitata più la funzione del consumo che quella della produzione e dunque il divario è destinato a restare incolmabile per oggi e per domani.
In un’ottica di riforme strutturali, liberatorie delle varie forme di dipendenza dell’economia meridionale, viene vista con favore la costituzione di società meridionali di gestione del risparmio. SIM autonome e indipendenti dalle banche (controllano tutta l’industria del risparmio gestito), con il compito di effettuare operazioni locali di raccolta e gestione del risparmio, assicurando impieghi connessi all’innovazione e allo sviluppo del territorio, creando sinergie tra Università e committenza nei poli di ricerca. Promuovendo concorrenza tra le banche per ottenere servizi più efficienti alle migliori condizioni e rianimando un volontarismo ora decisamente appannato.
Non sarebbe un’eresia dal momento che nel mercato più importante del mondo, quello americano, le società di gestione dei maggiori fondi sono indipendenti, strutturalmente coinvolte nei processi di sviluppo delle attività produttive e nella valorizzazione dei territori a basso insediamento industriale (Silicon Valley, ad esempio).
L’ambizione principale resta quella di mettere l’impresa (momento trainante di cointeressenze e valori sociali) al centro della cultura e degli interessi della società meridionale, creando aree di eccellenza nel contesto di un sistema integrato. Con il chiaro intendimento di posizionarsi sui mercati emergenti con nuovi prodotti ad alto valore aggiunto (farmaceutica, nuove fonti energetiche, microelettronica) e dunque reagire razionalmente (non emotivamente) ai preoccupanti fenomeni di crisi e di delocalizzazione (calzaturiero, tessile, abbigliamento, agroalimentare, mobilio, ecc.). Utilizzando in positivo i fattori di crisi attraverso la promozione e la valorizzazione di nuove identità collettive e nuovi percorsi di progettualità economica. Nella ricerca di strategie appropriate l’approccio ai mercati dei Paesi mediterranei appare una naturale proiezione operativa se si superano con una felice operazione di marketing politico i riti e i miti del reciproco sospetto.
Ai leader realisti si chiede l’attivazione di un Modello Mezzogiorno capace di gestire un progetto riformista unitario (con idee e modelli di business da esportazione), legato ad una lettura parallela e complementare delle diverse istanze regionali. Dal Tavoliere alla Piana del Sarno e del Vulture, dall’Appennino dauno ai borghi marinari sparsi lungo le coste e le isole grandi e piccole.
Quando si appronta la simulazione di un modello gli economisti cominciano a chiedersi quali siano i vantaggi comparati. Le nostre risorse più significative sono la natura, la storia, l’arte e il capitale umano. Una “dote” più che dignitosa se si vuole guardare alle cose da fare oltre i confini del pluralismo autarchico. C’è in questo senso una forte responsabilità della borghesia locale nel rendere operativo il concetto di responsabilità sociale dell’impresa (esemplare la biografia di Bruno Visentini, Cierre Edizioni, 2005). Uscendo dalle anguste logiche campanilistiche, con un impegno a tutto campo per una crescita non più coloniale, in ragione delle verifiche di sopravvivenza richieste da un futuro a dominio imperiale, poco segmentato e dialetticamente complesso. Smentendo con i fatti la scommessa sull’impossibilità di crescita della società e dell’economia meridionali. Fino a convincere anche un alieno che in preda a curiosità turistiche avesse voglia di atterrare a Cagliari, Napoli, Bari, Palermo, Brindisi. Non mandiamolo via con la convinzione di amare il genere umano e non capire la nostra gente. Non potrà mai capire perché noi, mediterranei umani, amiamo gli sbalzi di temperatura, piangiamo di giorno e complottiamo di notte, divulghiamo usi censori e pratichiamo trame oblique, alterniamo certezze assolute con attacchi di panico frequenti.

 

   
   
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