Giugno 2005

L’industria finanziaria nel dodicesimo rapporto abi

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La banca che verrà
Filippo Cucuccio  
 
 

 

 

 

Spetta ai bancari del Centro-Sud la poco invidiabile palma della
maggiore
anzianità
riscontrabile
in ogni categoria professionale.

 

L’obiettivo è rimasto inalterato rispetto allo scorso anno, ma un’altra parte del cammino è stata percorsa. È questa la sensazione che si trae dalla lettura dell’ultimo rapporto curato dall’Associazione Bancaria Italiana (ABI) sul mercato del lavoro nell’industria finanziaria e il cui sottotitolo “Retribuzioni e costo del lavoro nelle banche italiane ed europee” fotografa in modo eloquente e preciso l’ambizioso perimetro di questa ricerca. Ricerca che, in realtà, è giunta alla sua dodicesima edizione, ma che comunque è capace di rinnovare i motivi di interesse e di suscitare il dibattito su uno spicchio del mercato del lavoro definito non a caso lo scorso anno un laboratorio di tendenza.
Ancora una volta, alla luce dell’abbondanza dei dati raccolti e della complessità delle riflessioni formulate, sembra quindi opportuno procedere con ordine per offrire al lettore alcune chiavi di lettura di questa accurata ricerca.
Si accennava all’inizio dell’obiettivo fissato e del percorso compiuto, elementi sui quali calano quasi come un sigillo le parole (pressoché simili a quelle dello scorso anno) pronunciate dal presidente dell’ABI, Maurizio Sella: «Le imprese bancarie hanno proseguito […] la fase di crescita e di razionalizzazione dei propri assetti organizzativi, tendente ad avvicinare la struttura dell’attivo, del patrimonio e dei margini reddituali a quella dei competitors europei […]; il sistema bancario ha fatto segnare in questi anni significativi progressi nella dimensione media delle imprese e nella gamma dei servizi offerti».

Affermazioni che rinfrancano e che fanno da premessa/sintesi ad alcune considerazioni di merito che scaturiscono dalla lettura delle singole parti della ricerca. Il punto di partenza iniziale del nostro viaggio di ricognizione lungo gli aspetti occupazionali parte da un primo dato particolarmente significativo: l’ulteriore ridimensionamento degli organici con una flessione dello 0,5% a fine 2003 (e dell’1,1% nel biennio 2002-2003). Un dato che sicuramente non stupisce, ma semmai conferma una tendenza consolidata da tempo (precisamente dal 1998 con l’unica eccezione del 2000) che ha punteggiato per le banche la costante ricerca di migliori margini di efficienza.
La politica di razionalizzazione e di ridimensionamento degli organici può essere egualmente colta anche attraverso un secondo dato che combina il flusso di assunzioni e di cessazioni, registrandosi un turnover inferiore all’unità (lo 0,6 contro lo 0,9 dell’anno precedente). In altri termini, il mondo bancario ha assunto 6 nuove unità per ogni dieci cessati: una fotografia complessiva del sistema bancario italiano che assomma in sé valori coerenti al risultato finale, sia pure con livelli differenziati, nelle banche maggiori, grandi e medie (secondo la nomenclatura ufficiale della Banca d’Italia) e valori positivi in controtendenza per le realtà aziendali minori e piccole. Una conferma di equilibri gestionali difformi in relazione a dimensioni decrescenti.
Ma non vi è il solo elemento dimensionale a svolgere un ruolo differenziatore, concorrendo a questa funzione anche il fattore geografico con un saldo tra assunzioni e cessazioni che pur presentandosi con il segno negativo per tutte le regioni italiane risulta variabile tra il minimo dello -0,4% per le banche del Nord -Est e il massimo del -3,8% per quelle del Nord-Ovest.
Dopo il ridimensionamento, ecco un secondo aspetto che vale la pena di sottolineare, sia pure sinteticamente, lo slittamento verso l’alto delle qualifiche professionali: così nel caso dei dirigenti (dall’1,8% all’1,9%) come in quelli dei quadri direttivi (dal 31,9% al 32,3%) e dei dipendenti della 3ª area professionale (1° e 4° livello).
Un terzo aspetto concerne la tipologia contrattuale del personale in servizio, con un’assoluta prevalenza dei rapporti a tempo indeterminato (97,1% dei dipendenti, di cui l’89,6% full-time) mentre residuali appaiono le incidenze da un lato dei rapporti a termine e di formazione lavoro (complessivamente 2,4%) dall’altro dei lavoratori temporanei (0,4%). Circa la diminuzione delle assunzioni con contratti formazione lavoro si può dire che è giustificata dalla riforma del mercato del lavoro attuata con la legge Biagi che ha eliminato tale tipologia contrattuale sostituendola con i lavori a progetto. Per i lavoratori temporanei, invece, la ricerca dell’ABI fornisce una disamina importante di questi dati, segnalando un rimarchevole interesse delle banche per questa forma contrattuale testimoniata dalla percentuale del ricorso ad essi sul fronte delle assunzioni.
La valutazione della fotografia del personale del sistema bancario non esaurisce certo qui i propri spunti di interesse, emergendo ad un ulteriore approfondimento altri significativi dettagli. Si prenda, così, l’età media dei dipendenti neo-assunti che è al di sotto dei 32 anni, ma che per le già ricordate caratteristiche del turnover del personale non riesce a migliorare il livello di invecchiamento della popolazione bancaria, passata da 41,7 a 42,2 con il minimo di 40,3 per gli appartenenti alle aree professionali e il massimo di 50 per i dirigenti. E in questa specifica ottica non può certo sfuggire che spetta ai bancari del Centro-Sud la poco invidiabile palma della maggiore anzianità riscontrabile in ogni categoria professionale.
Passando, poi, agli aspetti positivi, rientra sicuramente in questo campo il dato relativo al tasso di scolarizzazione della popolazione bancaria con il 63,3% in possesso almeno di un diploma di scuola media superiore e un 24% di laureati (23% l’anno precedente). Su questo specifico punto il Rapporto ABI così commenta: «L’aumento del personale laureato potrebbe essere connesso alla composizione del mercato del lavoro nel quale è consistente la quota di laureati in cerca di occupazione». Da notare che la percentuale di laureati è massima nelle realtà bancarie minori (33%) e minima in quelle maggiori (23%).
Un secondo aspetto che si può prestare ad una chiave di lettura in positivo è, poi, la presenza femminile nel mondo bancario, presenza ormai pari a quasi il 38% della popolazione complessiva con una crescita che risulta veramente considerevole, se raffrontata alla percentuale di alcuni anni fa (31,1% nel 1997).
Ma la presenza femminile non merita attenzione solo per il proprio peso ma rileva, come si vedrà subito, anche su altri versanti: ad esempio, per il contributo fornito all’innalzamento del livello di scolarità dei dipendenti, risultando il 24,9% delle donne in possesso di un titolo di laurea (contro il 24,1% dei colleghi).
Ed ancora, così come sottolinea il Rapporto, «In termini prospettici ci si aspetta un ulteriore incremento del personale femminile nelle qualifiche più elevate, mentre per ora è massima la concentrazione nel terzo livello della categoria della 3ª Area Professionale) quale risultato dell’aumento delle assunzioni di tale personale negli ultimi anni».
Fin qui l’analisi del cammino percorso; ma, come si diceva all’inizio, la valenza del Rapporto può essere spesa anche nell’ottica dell’avvicinamento delle banche italiane agli standards europei, un processo questo sicuramente lungo e lontano dall’essersi concluso. Su questo terreno il viaggio parte come sempre dal raffronto sul costo unitario del lavoro su base europea con l’Italia che risulta dividere con Olanda e Svizzera il poco invidiabile primato di essere ben al di sopra della media continentale; e quindi, a maggior ragione, lontanissima ancora dai valori del mondo bancario inglese tradizionalmente campione in positivo di questa classifica.
Se, poi, si passa a considerare il valore della redditività delle banche italiane, si rileva che il suo livello inferiore rispetto ai partners europei può attribuirsi al concorrere di tre elementi sfavorevoli: il maggior costo medio del lavoro (+15%), la minore efficienza in termini di cost-income ratio (circa sette punti percentuali sopra la media continentale) e conseguentemente il maggior rapporto tra costo del lavoro e margine di intermediazione (circa 8 punti percentuali in più del valore medio europeo). In definitiva, una griglia di valori che ci indica con la severa crudezza delle cifre quanto cammino l’Italia deve ancora percorrere.
Alla luce di questa diagnosi l’ABI stila con chiarezza la propria ricetta che per essere efficace deve investire tre aree: la prima, quella delle retribuzioni, dove appare ineludibile il nodo del maggiore spazio da riconoscere agli aspetti di merito e di performance individuali; la seconda area riguarda, invece, il mercato del lavoro nei suoi aspetti strutturali all’indomani dell’avvio della riforma Biagi che sta lentamente muovendo i primi passi nel segno di una maggiore flessibilità complessiva. E, detto per inciso, una prima sommaria lettura del nuovo contratto collettivo nazionale dei bancari ancora fresco di approvazione lascia intravedere un orientamento preciso in questa direzione.
Il terzo capitolo della ricetta ABI concerne l’adozione di politiche occupazionali coerenti con valori più equilibrati di cost-income ratio attraverso l’adozione di strumenti di aggiustamento. In questa specifica ottica si colloca il Fondo di solidarietà, «che ha sin qui consentito di poter gestire in modo soft e senza oneri per la collettività situazioni ad impatto sociale potenzialmente rilevante» la cui piena operatività è essenziale per le finalità di riequilibrio gestionale e di prevenzione delle crisi aziendali.
In realtà, più che una ricetta le considerazioni conclusive dell’ABI tracciano i contorni di una sfida sempre più delicata alla quale è chiamato a rispondere con tempestività e appropriata efficacia il sistema bancario del Paese. Un auspicio al quale volentieri ci uniamo!

 

   
   
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