Giugno 2005

Le Regole violate

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I costi del sommerso
Daniele Puppo  
 
 

 

 

 

Il vero problema del nostro mercato del lavoro resta quello del
dualismo tra
lavoro regolare
e lavoro nero.

 

Una conferma della necessità di attuare le riforme, senza ulteriori perdite di tempo: questo, il messaggio per il nostro Paese che emerge dal Rapporto Ocse che riguarda l’occupazione. Il tasso occupazionale italiano rimane ancora eccessivamente basso: ha un posto di lavoro soltanto il 56 per cento della popolazione in età lavorativa.
La media Ocse, per contro, si attesta attorno al 65 per cento, e Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, l’Olanda e la Svezia si collocano addirittura oltre il 70 per cento. Troppo poche persone concorrono dunque, nel nostro Paese, allo sviluppo della società e alla formazione della ricchezza.
È certamente vero che, grazie alle recenti riforme del mercato del lavoro, l’Italia ha registrato una delle maggiori performances in area Ocse, raggiungendo una crescita dell’occupazione pari a 4,6 punti percentuali. Ma ancora non basta, perché la bassa dotazione di capitale umano, resa ancora più evidente dal confronto con i principali competitori europei e internazionali, frena drasticamente le immense potenzialità di sviluppo della nostra economia.

Esiste sicuramente anche il problema della qualità del lavoro creato negli ultimi anni, con un effetto negativo sulle prospettive di crescita professionale e sulla produttività. Il Rapporto Ocse segnala, infatti, il rischio della proliferazione di forme di lavoro atipico e precario a fronte di livelli troppo elevati di protezione contro i licenziamenti senza giusta causa. È il noto dualismo tra insider e outsider, reso particolarmente accentuato in Italia dalla presenza di un regime di reintegrazione nel posto di lavoro – quello dell’articolo 18 dello Statuto – che non trova eguali negli altri Paesi. Le tutele di chi ha la fortuna di stare nella cittadella del lavoro protetto rischiano così, in assenza di un’operazione di riallineamento, di diventare vere e proprie barriere all’ingresso nel mercato del lavoro delle fasce più deboli. E questo spiegherebbe anche i bassissimi tassi di occupazione di giovani, di donne, di over 50. Tuttavia, il vero problema del nostro mercato del lavoro resta quello del dualismo tra lavoro regolare e lavoro nero. Secondo gli analisti più attenti, si tratta di un’emergenza nazionale che coinvolgerebbe (come dicono le stime più accreditate) un vero e proprio esercito di lavoratori: oltre quattro milioni di persone che operano al di fuori delle regole di tutela del lavoro, ma anche delle logiche che sono chiamate a governare una leale competizione tra le imprese.
Ad alimentare questo fenomeno, oltre al cattivo funzionamento del mercato del lavoro e alle storiche condizioni di sottosviluppo di una parte significativa del nostro Paese, concorre senza alcun dubbio un sistema contributivo distorto, che penalizza decisamente il fattore lavoro. L’Italia è caratterizzata dalle aliquote contributive più elevate di tutti i Paesi europei, aliquote che per il lavoro dipendente raggiungono il 32,7 per cento, contro il 16,5 per cento della Francia, il 19,10 per cento della Germania, il 21,90 per cento del Regno Unito e il 21,63 per cento della media Ue. È evidente come questo netto divario costituisca uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo dell’economia e dell’occupazione regolare. Questa, certamente, è una delle principali ragioni dell’abnorme dimensione del lavoro irregolare, che pure può essere visto come un sintomo della vitalità e delle enormi potenzialità del nostro Paese.
Il lavoro sommerso – ed è questo l’altro importante messaggio contenuto nel Rapporto – rappresenta infatti un’area importante di sottoimpiego del capitale umano che va al più presto riconsegnata all’economia formale e istituzionale. Non solo il mercato del lavoro risulterebbe più equo e coeso, ma verrebbero anche rese disponibili quelle risorse necessarie a superare i dualismi tra lavoro stabile e lavoro precario mediante un progressivo riallineamento delle aliquote contributive. Secondo le stime Ocse, il gettito effettivo dei contributi sociali sarebbe infatti inferiore del 20 per cento rispetto al gettito potenziale: una cifra comparabile a quella stimata per la Turchia e molto al di sopra di quella dei restanti Paesi Ocse.
È fuori discussione: non esistono ricette magiche. Ma dovrebbe essere ormai ben chiaro che i quattro milioni di lavoratori in nero e l’altrettanto imponente esercito di lavoratori a bassa contribuzione, mediante schemi contrattuali il più delle volte di dubbio utilizzo, non possono essere realisticamente governati soltanto mediante un’imponente campagna repressiva. Le dimensioni del fenomeno sono una chiara spia delle disfunzioni di un quadro regolatorio che non sembra in grado di gestire e regolare i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro e nei modi di produrre ricchezza.
È vero, infatti, che il lavoro nero è stato fino ad oggi ampiamente tollerato non solo in ragione di un improprio pragmatismo, ma anche in virtù dell’assurdo ideologismo di chi lo considera il prezzo inevitabile di un mercato del lavoro condannato a rimanere rigido, in omaggio alle “conquiste” dell’epoca fordista e al ruolo politico di alcuni attori sociali. E questo, anche a costo di pagare un prezzo elevato sul piano dell’effettività del quadro regolatorio. Gli scenari della nuova economia e della competizione internazionale non consentono tuttavia, e fortunatamente, di proseguire su questa strada compromissoria, che non giova né ai lavoratori né al sistema economico nel suo complesso. Un’ulteriore conferma che soltanto le riforme possono prevenire i rischi di destrutturazione e di deregolazione strisciante del mercato del lavoro, e guidare il mutamento in atto nei rapporti economici e sociali, alla ricerca di nuovi equilibri più efficaci e sostenibili e, di conseguenza, di nuove sicurezze.

 

   
   
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