Giugno 2005

Le regole aggirate

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Illusorie privatizzazioni
Emiliano Da Mosto  
 
 

 

 

 

Nella maggior parte dei casi, anche quando
apre il capitale ai privati, il pubblico azionista non molla il controllo delle società.

 

Si fa presto a dire privatizzazioni: nella maggior parte dei casi, anche quando apre il capitale ai privati e vende la maggioranza delle azioni, il pubblico azionista non molla il controllo delle società. Uno degli ultimi esempi è quello della Aem di Milano, dove il Comune è sceso sotto la soglia del 50 per cento del capitale, ma poi, con un’autentica capriola statutaria, si è arrogato il diritto di mantenere il controllo di fatto sul Consiglio di Amministrazione e sull’azienda.
Purtroppo, tutto il mondo è paese, e l’escamotage inventato dalla giunta comunale meneghina non è un caso isolato. Lo ha documentato un’inedita ricerca sulle privatizzazioni in area Ocse condotta da studiosi dell’Università di Torino, della Fondazione Eni Enrico Mattei e dell’americana Vanderbilt University.
La ricerca prende in esame un campione di 140 società privatizzate, in tutto o in parte, nel quinquennio che va dal 1996 al 2000, e non potrebbe avere un titolo più eloquente: “Privatizzazioni riluttanti”.
Perché mai “riluttanti”? A chiarirlo è il più clamoroso dei risultati della ricerca e dell’indagine empirica che la sorregge: attraverso residue partecipazioni azionarie dirette o indirette, golden share o varie forme di diritti speciali, l’azionista pubblico influenza ancora il 62,4 per cento delle società “privatizzate”. In altri termini: in quasi due terzi delle società privatizzate lo Stato mantiene ancora poteri di veto o di controllo.
Un’altra sorpresa di grande interesse che emerge dalla ricerca in questione è che nel 29,79 per cento dei casi presi in considerazione lo Stato non solo è ancora presente nelle società formalmente privatizzate, ma di fatto risulta ancora il principale azionista. E, da primo azionista, conta molto di più di quanto non conti il primo socio privato in società comparabili.
Uno dei casi più emblematici che la ricerca mette sotto i riflettori è quello della Lufthansa, la compagnia aerea tedesca privatizzata in più tranches negli anni Novanta del secolo scorso. Nella struttura della catena di controllo post-privatizzazione, ufficialmente lo Stato, alla fine del 1996, aveva soltanto una modesta partecipazione diretta, pari all’1,77 per cento intestato al Land della Renania-Westfalia. Ma se invece si considerano le proprietà indirette, la situazione appare molto diversa e i rapporti di forza risultano letteralmente capovolti.
Infatti il 37,45 per cento era in mano alla KfW, una società formalmente privata, ma comunque controllata dallo Stato, come la nostra Cassa Depositi e Prestiti, che non rientra nella pubblica amministrazione, ma che risponde pur sempre al governo.
E, come se non bastasse, la longa manus pubblica non cessava di allungarsi anche su altri soci privati: su Deutsche Postbank AG e su Deutsche Bahn AG, che nel 1996 detenevano rispettivamente l’1,03 e lo 0,4 per cento dell’aerolinea, ma che sono posseduti al cento per cento dalla Repubblica tedesca, e persino su Mgl, che aveva in portafoglio il 10,05 per cento di Lufthansa, ma che è a sua volta controllata da azionisti dietro la metà dei quali c’è lo Stato bavarese. Sommando anche le partecipazioni indirette, lo Stato risultava così il maggiore azionista di Lufthansa anche dopo la privatizzazione.
Secondo la ricerca, la riluttanza dell’azionista pubblico a mollare la presa è indubbia, ma è un dato di fatto che va letto in modo non schematico, visto che la propensione dell’azionista pubblico a mantenere un’influenza sulle società privatizzate avviene sotto tutti i cieli e persino in Paesi, come il Regno Unito, che hanno conosciuto la rivoluzione thatcheriana, e che non possono certo essere sospettati di statalismo, ma che, tuttavia, hanno mantenuto in vita una forma sia pure abbastanza leggera di golden share.
Diritti speciali che nel caso della Gran Bretagna valgono ancora per diciassette delle società privatizzate e che proprio di questi tempi anche l’Italia, su sollecitazione di Bruxelles, sta cambiando, alleggerendo in alcuni casi, e ripromettendosi di alleggerire in altri, la propria presenza: per Enel, Finmeccanica, Eni, Telecom...
La prima considerazione che va fatta, e che la ricerca non manca di mettere in evidenza, è che la permanenza di poteri speciali dell’azionista in società aperte ai privati riguarda principalmente le public utilities, vale a dire imprese di particolare importanza strategica per qualunque Paese (come è il caso dell’energia e delle telecomunicazioni).
In secondo luogo – e questo è un altro spunto dell’indagine che merita di essere attentamente considerato – l’esistenza di una qualche forma di controllo pubblico, diretto o indiretto, non sembra penalizzare il valore e le performances di Borsa delle società privatizzate. I casi classici sono sotto gli occhi di tutti, e sono proprio quelli dell’Eni e dell’Enel, dove la partecipazione pubblica viene percepita dal mercato non tanto come un vincolo frenante, quanto come un fattore di stabilità. Anche a costo di una minore efficienza e di una minore contendibilità del loro modello societario. Un motivo in più per riavviare la battaglia per le privatizzazioni, sia al centro che ancor di più a livello locale, ma per condurla nel modo più pragmatico possibile e alla luce di quanto l’esperienza degli ultimi vent’anni suggerisce.

 

   
   
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