Giugno 2005

Aumentare la produttività

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Lavorare tutti,
lavorare di più
B. S. - D. M. B.  
 
 

 

 

 

La lezione
francese funziona in negativo: se è sbagliato ridurre per tutti gli orari, è altrettanto
sbagliato
aumentarli
dall’alto per
chi lavora.

 

La Francia abbandona le 35 ore nel tentativo di ridurre il proprio tasso di disoccupazione a due cifre, e in Germania si siglano accordi aziendali in cui si allunga l’orario di lavoro per non spostare impianti e produzioni altrove. Archiviato il “lavorare meno, lavorare tutti”, volenti o nolenti dobbiamo rassegnarci a un assai meno accattivante “lavorare di più, per lavorare tutti”? C’è chi sostiene che non sia proprio detto. Specie in Italia, dove ci sono forti asimmetrie negli orari di lavoro e dove molti non lavorano del tutto (e altri non riescono a lavorare per niente), si potrebbero creare più lavori senza necessariamente far lavorare di più chi un lavoro ce l’ha già. Sostengono costoro: se sapremo meglio coordinare le esigenze di orario flessibile di lavoratori e imprese diverse e riconciliare lavoro e responsabilità familiari, potremo anche aumentare il benessere di chi lavora a parità di salario: «Bene che il sindacato si attrezzi a questo compito. Ha un ruolo sociale importante da giocare nel migliorare il modo con cui riusciamo a distribuire il nostro tempo fra lavoro, famiglia e tempo libero».
La Francia ha voltato pagina perché una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro distrugge molti posti di lavoro. I transalpini se ne sono resi conto non appena i vincoli di bilancio hanno obbligato il governo a rimuovere gli incentivi all’impiego che avevano attutito gli effetti negativi sull’occupazione delle 35 ore. Prima di introdurle, i politici francesi avrebbero fatto bene a ricordare cos’era accaduto nel 1982, quando Mitterrand aveva ridotto d’imperio l’orario per tutti da 40 a 39 ore: le imprese avevano reagito tagliando i posti di lavoro.

La lezione francese funziona in negativo, come errore da non ripetere sia in un senso che nell’altro: se è sbagliato ridurre per tutti gli orari, è altrettanto sbagliato aumentarli dall’alto per chi lavora. Perché in Italia ci sia tanto lavoro pro capite quanto negli Stati Uniti (dunque, a parità di produttività, lo stesso reddito pro capite) basta far lavorare chi oggi, contro la sua volontà, non ha un impiego. Oltre tutto, nel nostro Paese ci sono forti asimmetrie nella distribuzione degli orari fra chi lavora a tempo pieno. I lavoratori autonomi, ad esempio, lavorano 47-48 ore alla settimana, e molti lavoratori atipici più di 50 ore (chi diceva che gli italiani sono pigri?), contro le 35 ore di molti lavoratori dipendenti. Se ci fosse una distribuzione meno asimmetrica degli orari, anche il fatto di avere un coniuge che lavora non ci impedirebbe di avere tempo libero da passare insieme.
C’è però chi sottolinea che la ripartizione della ricchezza nazionale ha favorito, negli ultimi anni, i redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. E i primi, com’è noto, sono tassati meno dei secondi. La Confindustria risponde sostenendo che a un’impresa che non innova con salari bassi è da preferire una più dinamica con retribuzioni alte. Insomma, tutto dipende dalla produttività (soprattutto nei settori esposti alla concorrenza) e dalla capacità di un’azienda di tenere il mercato. I casi brillanti sono numerosi, ma la media della nostra industria è in tutt’altre condizioni. Il pubblico impiego, poi, da tempo ha dinamiche salariali superiori al tasso d’inflazione.
In un Paese con tante imprese vicine alla marginalità e poche ad alto valore aggiunto e tecnologicamente avanzate, con il cambio fisso e con la concorrenza spietata dei Paesi emergenti e neo-comunitari, c’è ben poco da dividere. E molto da comprimere, se si vuol salvare qualche posto di lavoro. Il dibattito è aperto e i casi tirati in ballo sono esemplari. Poco tempo fa, ad esempio, la Siemens ha concluso un accordo significativo con il sindacato dei metalmeccanici Ig-Metal, più duro della Fiom. In cambio di un aumento della settimana lavorativa a 40 ore, la multinazionale tedesca non trasferirà in territorio ungherese alcune attività.
In sintesi: nel breve spazio di un mattino si è passati dal possibile scambio fra minore orario e un maggiore tasso di occupazione (incerto) a quello fra una settimana di lavoro più lunga per scongiurare la perdita (certa) di posti di lavoro trasferiti altrove.
Accadrà la stessa cosa anche nel nostro Paese? La globalizzazione dei mercati e l’allargamento dell’Unione europea rendono più visibili le differenze fra le ore lavorate e il costo del lavoro per unità di prodotto in Italia e negli altri Paesi. Gli europei – è stato notato – lavorano meno degli americani. Ed è vero. Uno studio dell’Università Bocconi rileva che la prestazione annua per lavoratore occupato è in Italia di 1.619 ore contro le 1.724 degli Stati Uniti, ma anche, per esempio, le 1.766 dell’Ungheria, le 1.979 della Slovacchia. La retribuzione media è di 28 mila euro l’anno in Italia, di 34 mila in Francia, di 25 mila in Spagna, e scende a 8 mila 950 in Ungheria, 7 mila 96 in Polonia, 6 mila 30 in Slovacchia. Di fronte a queste cifre, batte in ritirata il vecchio slogan cislino “lavorare meno, lavorare tutti”. Oggi si dovrebbe dire “lavorare di più per non lavorare in meno” e per non distorcere ancora più radicalmente il mercato dell’occupazione nel Belpaese.

 

   
   
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