Giugno 2005

Problemi e prospettive della grande industria

Indietro
Nanocapitalismo
Paolo Doner - Oliviero Borgo
 
 

 

 

 

Il nanismo
industriale si sta consolidando
e mentre le grandi imprese calano, non crescono le
Piccole e medie imprese che
rappresentano gran parte del
sistema industriale nazionale.

 

Le analisi pessimistiche sulle prospettive della grande industria italiana trovano continue conferme nelle statistiche sugli indici economici. Anche nelle dichiarazioni di esponenti delle istituzioni, al di là degli atteggiamenti di facciata, si percepiscono preoccupazioni largamente condivise.
Tra le varie ragioni, rilevante il consolidamento di una situazione mondiale che vede l’Europa crescere molto lentamente a fronte delle alte performances dell’economia americana e di quella asiatica, e con l’Italia certamente non brillante nel Vecchio Continente, a confronto, ad esempio, con la Francia. Questa situazione fa lievitare, fra l’altro, il numero degli euroscettici e spinge i governi leader europei a chiedere modifiche a trattati e a norme forse troppo rigidi per coniugare stabilità e sviluppo. Anche il progressivo allargamento dell’Ue, mentre accende molte speranze nelle nazioni new entry, provoca parallele preoccupazioni tra diverse componenti delle società nei Paesi fondatori.
Lasciando da parte i consueti indici e dati su fatturati, occupazione, import-export, e via di seguito, ai fini della nostra analisi riteniamo che una valutazione sintetica del mercato borsistico offra una fotografia significativa delle caratteristiche e delle tendenze in atto, insieme con i loro effetti attuali e futuri.
All’inizio del 2005, le aziende quotate che hanno una capitalizzazione superiore ai 5 miliardi di euro sono 24, di cui 12 banche e assicurazioni, mentre le altre possono essere classificate come industriali con una definizione allargata; di queste ultime, 4 operano nel settore energetico, 4 nella produzione di beni e 4 nella produzione di servizi vari. Per una capitalizzazione inferiore, ad esempio di 2 miliardi di euro, non cambia sostanzialmente il rapporto tra aziende finanziarie e industriali e tra queste ultime fra produttrici di beni e servizi. Per quelle di dimensioni minori e non quotate, i rapporti cambiano totalmente, perché sono quasi scomparse le aziende finanziarie e assicurative di piccole dimensioni.
Una prima riflessione sul quadro descritto ci sembra consolidare una diffusa valutazione sul fatto che negli ultimi anni, anche per le maggiori attenzioni dei governi, il sistema finanziario si sia strutturato decisamente meglio di quello industriale, almeno in termini dimensionali, ma non solo.

Tra le aziende industriali quotate e quindi medie e grandi è significativa la prevalenza di quelle che producono servizi rispetto a quelle che producono beni tradizionali. È altrettanto significativo il fatto che l’apprezzamento della Borsa, misurato con l’incremento di valore dei titoli, è più alto per le banche, mentre tra le aziende industriali sono decisamente apprezzate quelle che realizzano il proprio fatturato con “bollette” garantite da mercati a concorrenza quasi inesistente. E così le stars della Borsa sono, negli ultimi tempi, aziende come le multiutilities di Bologna o Trieste connotate da maggioranze pubbliche e le cui performances derivano principalmente dall’aumento delle tariffe dei servizi forniti oltre il tasso d’inflazione. Come esempio di mercato libero ed etico non c’è che dire!
Altro argomento di riflessione è quello che vede ampiamente apprezzate, spesso anche più delle case-madri produttrici, le aziende distributrici di elettricità ed energia, quali Terna e Snam Rete Gas. Emerge quindi dal quadro borsistico una chiara tendenza verso il terziario che, in prima approssimazione, è al riparo dalla concorrenza internazionale, mentre le poche aziende industriali apprezzate sono quelle di grandi dimensioni e con decisa connotazione quali Eni, Luxottica e Finmeccanica. L’attenzione degli investitori verso il terziario nazionale si sposa con quella verso il sistema delle banche, che, oltre ad un’efficienza generalizzata, si connotano con una tendenza il più possibile nazionale.
La stessa filosofia che sta alla base dell’impostazione borsistica ci sembra quella che ha alimentato il boom del settore edilizio, anche questo al riparo dalla competizione internazionale e tipico bene-rifugio. Gli indirizzi degli investitori hanno anche una componente derivata dalla natura di un popolo per tradizione vocato più ai commerci e alla finanza che all’industria produttiva, ma sono, per gran parte, un effetto della situazione economica del Paese.
Il nanismo industriale si sta purtroppo consolidando e mentre le grandi imprese produttrici nel primario e nel secondario calano (come nei recenti casi Parmalat e Cirio, compresa la Fiat quasi in caduta libera) non crescono le Piccole e medie imprese (Pmi) che, da sole, rappresentano gran parte del sistema industriale nazionale. Le difficoltà delle grandi aziende sono sempre d’attualità (cronache del caso Alitalia, l’asta della Lucchini disertata dagli italiani, crisi dell’acciaio magnetico di Terni della Tyssen-Krupp). E la Fiat, nome mirabile di un’azienda emblematica, stenta ad uscire da una palude che è stata originata da un’impressionante sequenza di errori della proprietà, del management, del sindacato e delle forze politiche e istituzionali che pure vi hanno indirizzato fiumi di denaro pubblico. E così oggi, per ironica nemesi, come in Italia tra le poche ed efficienti aziende di grandi dimensioni vi sono le ex pubbliche Enel, Eni e Finmeccanica, nel panorama automobilistico europeo sono in migliori acque della Fiat le aziende a partecipazione pubblica Renault e Volkswagen.
Le crisi Fiat e Alitalia pongono anche un problema politico strategico di grande spessore: è utile per il Paese avere buoni servizi aerei e buone auto fornite da qualsiasi produttore internazionale, oppure difendere, anche in modo difficile e oneroso, le proprie aziende nazionali? È un quesito non facile per gli italiani.

In carenza di un efficiente (e attraente) sistema di grandi industrie abbiamo visto le scelte degli investitori orientate al terziario e all’edilizia. Quest’ultimo settore merita alcune riflessioni aggiuntive in considerazione dei ritmi notevoli di crescita, per la durata del boom e per l’attrazione che ha esercitato su molti operatori anche non specialisti del settore. Si sono moltiplicate le aziende immobiliari a ritmi impressionanti, così come sono cresciute le costruzioni e specialmente i prezzi di vendita, e il boom, favorito da diversi fattori e soprattutto dalla forte riduzione del costo del denaro, sta durando oltre ogni ragionevole previsione, e dà molto lavoro alle aziende del settore e a quelle collegate.
Le famiglie italiane, per tradizione orientate alla proprietà delle case in cui vivono e di quelle delle vacanze, si trovano, forse anche senza essersene accorte, molto più ricche a livello patrimoniale perché i prezzi degli immobili da loro posseduti sono aumentati a livelli molto più alti di quelli inflattivi. In termini di economia nazionale, i flussi maggiori delle ricchezze sono andati a favore della speculazione più che alle industrie del settore. La stabilità demografica in Italia, insieme alla bassa crescita economica, porrà fatalmente un termine alla crescita dei prezzi e dei volumi di costruzioni e porrà, purtroppo, ulteriori problemi per l’economia del Paese.
L’esigua presenza di grandi aziende, cioè il nanismo industriale italiano, porta – a cascata – a molte carenze e disfunzioni nel sistema. In primo piano, da diversi anni, è la perdita di competitività del sistema industriale causata dall’insufficienza di attività di ricerca e sviluppo che, in gran parte, viene svolta dalle macro-aziende, come deriva, da questo, anche la scarsa presenza internazionale quasi impossibile, per via della bassa massa critica, per le piccole e medie imprese. L’alto costo dell’energia, la caotica politica ambientale e l’ostilità ormai generalizzata verso settori industriali, quali la chimica, sono elementi negativi anche per le Pmi nazionali, a cui viene a mancare il supporto tecnologico essenziale delle grandi industrie, ed è causa del basso livello di investimenti stranieri in Italia.
Tutto ciò conduce a una riflessione sui rapporti tra politica ed economia, e in particolare con l’industria. Il collegamento tra situazione economica e azione politica delle istituzioni non ci sembra proponibile, almeno in modo così diretto e temporalmente coincidente, quale viene oggi presentato nell’esasperato dibattito politico tipico oggi del nostro Paese.
Va ribadito che, in un’economia libera come la nostra, la classe imprenditoriale è, nel bene e nel male, la principale responsabile della struttura e della salute delle imprese. I problemi del settore industriale sono sempre legati ad effetti di decisioni e comportamenti di medio e lungo periodo, e non attribuibili semplicemente a questo o a quel Governo. Le ampie privatizzazioni degli anni Novanta hanno poi ridotto le potenziali leve di intervento dei governi sull’economia, com’è avvenuto anche con l’ingresso nella Comunità europea.
Ciò premesso, in molti settori industriali rimane essenziale l’effetto degli atteggiamenti delle istituzioni verso le nostre politiche industriali. A tale riguardo, ci sembra prevalere nelle forze politiche nei riguardi dei problemi industriali sia un distacco dovuto ad atteggiamenti liberisti di non interferenza nelle strategie industriali nazionali sia un eccessivo interventismo a livello locale. Nei partiti, a livello nazionale e a differenza del passato, mancano organismi strutturati ed esperti che studino i problemi con continuità e forniscano quindi agli eletti e agli amministratori un supporto adeguato alle decisioni che devono affrontare nelle varie istituzioni. La frammentazione dei partiti accentua la confusione sulle decisioni strategiche e contribuisce alla mancanza di disciplina e coerenza ai diversi livelli decisionali. È comune, ad esempio, che nelle sedi periferiche le forze politiche adottino decisioni contrastanti con le direttive espresse dagli stessi partiti a livello nazionale, specialmente per le politiche ambientali.
Ecco allora il verificarsi, in specifici settori, uno stretto legame tra politica e industria, rapporto che, basato sulla ricerca di consensi elettorali e non su ragioni strategiche, ha danneggiato il Paese. Ci riferiamo alle attività energetiche e ambientali, e anche a quelle del settore chimico e delle infrastrutture quali vie di comunicazione, elettrodotti e sistemi di telecomunicazione. In questi settori il clima ostile alle realizzazioni è alimentato anche dai mass media e dal proliferare di comitati di cittadini e porta ad una generale crescita di atteggiamenti anti-industriali: mentre vengono emarginati tecnici e specialisti le cui opinioni sono ignorate e disattese.

In questa analisi dei problemi della grande industria nazionale abbiamo finora elencato cause essenzialmente strutturali risalenti sia a periodi lontani sia all’ultimo decennio del Novecento. Vediamo ora alcune situazioni degli ultimissimi anni che preoccupano particolarmente il mondo dell’industria: ci riferiamo al problema della Cina e al cambio euro-dollaro.
La sfida cinese preoccupa molto – e non a torto – gli imprenditori italiani di alcuni settori merceologici e di alcune aree geografiche come il Nord-Est, le Marche, la Puglia. I settori merceologici più interessati sono quelli delle calzature, degli occhiali e del tessile, ove sono già presenti in modo significativo prodotti cinesi caratterizzati da basso costo, qualità accettabile e forte imitazione, se non son proprio copie esatte dei modelli nazionali: ulteriori timori sono originati dalla crescita della produzione cinese in altri settori quali l’agricoltura (ortofrutta in particolare) e l’elettronica avanzata.
L’attuale sfida cinese è, pur su scala maggiore, simile a quella giapponese degli anni Sessanta, che si esaurì in parte per la crescita del costo del lavoro locale e l’apprezzamento dello yen, e che fu combattuta (principalmente dagli Stati Uniti) con un forte impulso alla ricerca tecnologica nei settori dell’elettronica e dell’informatica: in sintesi, con lo sviluppo del “capitalismo cognitivo”. L’attuale sfida cinese è più pericolosa per le dimensioni del Paese, che però è anche più aperto alla collaborazione in molti settori e all’importazione di beni. Ad esempio, è singolare la situazione Usa, ove un’alta percentuale di prodotti importati dalla Cina è prodotta da multinazionali americane quali Nike o Motorola, che da anni operano con successo in quel Paese.
Ecco allora una ricetta applicabile anche per noi e basata sulla ricerca di accordi commerciali e produttivi con le realtà cinesi, privilegiando i settori ricchi di tecnologia e contenuti scientifici: esiste sicuramente uno spazio privilegiato per i Paesi europei nei riguardi del Giappone per motivi storici evidenti e nei riguardi degli Stati Uniti per più attuali ragioni di leadership mondiale. Questo approccio economico deve trovare applicazione sempre più ampia, dopo le prime esperienze, anche nei rapporti con l’Europa dell’Est, che pone e porrà alla nostra industria problemi abbastanza simili a quelli cinesi.
L’altro problema che angustia il nostro sistema industriale è quello del cambio euro-dollaro: i valori raggiunti e apparentemente consolidati (malgrado le “montagne russe”) sono considerati da tutti molto negativi per la competitività delle nostre esportazioni. Così l’italiano medio, convinto da sempre e in particolare dall’entrata dell’euro che erano passati i tempi bui della liretta e dell’invidia nei confronti del marco tedesco, fatica a capire i lamenti per quanto sta avvenendo ora che, finalmente, ha anche lui in tasca una moneta forte.
Sono ovviamente evidenti le difficoltà competitive sul mercato del dollaro e su quello delle monete ad esso allineate, come logica è l’accresciuta competitività delle merci prodotte in quelle aree. Ci sembrano però del tutto sottovalutati, almeno dai commentatori, i vantaggi che ha il basso valore del dollaro per un’economia, come la nostra, che importa quasi tutte le materie prime ed energetiche quotate quasi sempre in dollari sul mercato planetario. Così, ad esempio, se le nostre importazioni annuali di olio e di gas fossero pagate con un rapporto euro/dollaro di 0,85, quale era in un passato recente, invece dell’attuale medio 1,30, il maggiore onere per la nostra bilancia dei pagamenti sarebbe stato di circa 8 miliardi di euro; lo stesso calcolo, riferibile a quasi tutte le materie prime importate, porterebbe a dati non trascurabili e comunque degni di un minimo di riflessione da parte di molti.
Se torniamo al tema generale, non possiamo non porre attenzione alle possibili azioni che contrastino le varie e purtroppo numerose indicazioni negative sul futuro della grande industria nazionale.
In riferimento al rapporto tra economia e politica, riteniamo che occorra una riflessione profonda con conseguente ritaratura sul ruolo, ancora così importante e in crescita in alcuni settori, della presenza pubblica nell’economia. Fondamentalmente, le privatizzazioni vanno orientate al raggiungimento di obiettivi strategici per il Paese e non per soddisfare esigenze finanziarie dello Stato prima, con le privatizzazioni delle grandi aziende, e dei Comuni ora con quelle delle municipalizzate. In quest’ultimo settore, l’obiettivo societario va riorientato verso l’abbassamento delle tariffe e va recuperata efficienza attraverso la semplificazione di strutture mirate ora a soddisfare esigenze occupazionali e incarichi per tanti politici.
Nelle grandi aziende quali Enel, Eni, Finmeccanica, va rivitalizzato il ruolo dell’azionista Stato rappresentato dalla golden share, intervenendo non sulla gestione e neanche, secondo antiche abitudini, sulle nomine, ma sulla definizione e realizzazione di obiettivi strategici in cui è sicuramente possibile coniugare, anche per l’alta qualità delle strutture e del management, risultati economici e interessi del Paese. E così, mentre l’Enel e l’Eni vanno protette con maggior decisione dall’eccesso di vincoli localistici e da esasperate politiche ambientaliste, Eni deve essere invitata decisamente a cambiare rotta sulle strategie di uscita dalla chimica e sull’esasperata politica di delocalizzazione delle attività. Per queste e per molte altre ragioni ci sembrerebbe utile il trasferimento del controllo dello Stato, attuato attraverso la gestione della presenza azionaria, dall’ipertrofico ministero dell’Economia a quello dell’Industria, opportunamente potenziato.
In queste considerazioni generali sull’industria italiana, ove certo è più facile individuare carenze che elementi positivi, e quindi è agevole criticare più che suggerire, riteniamo meritino maggiore attenzione per gli obiettivi strategici nazionali, più di quanto fino ad ora avvenuto, le attività del mondo cooperativo.
In vari settori industriali le aziende cooperative si presentano sia in crescita dimensionale che di profittabilità, e dunque di autonomia, realizzando un buon affrancamento dai legami partitici che in passato ne hanno appesantito le strutture e impedito sia la crescita manageriale che lo sviluppo di politiche industriali al passo con i tempi.
Oltre alla tradizionale e per certi versi insostituibile presenza nel sociale e nell’assistenza, oggi le aziende cooperative hanno importanti trend di crescita in settori industriali carenti di iniziative private. La presenza massiccia nella grande distribuzione organizzata, caratterizzata sia da partnership internazionali che da innovative filosofie, come la distribuzione di prodotti con i propri marchi di produzione, è indice di un’adeguata visione strategica. Così l’organizzazione delle filiere agroalimentari, la presenza internazionale e i salvataggi di aziende private gestite con disinvoltura sono elementi da valutare in modo decisamente positivo nel nostro scenario industriale.
In Italia, dove è carente un’imprenditoria capace di costruire e gestire sistemi di grandi imprese e dove è pure carente per ragioni storiche il ruolo proprietario di banche e di istituzioni finanziarie di vario tipo, è doveroso cercare altre strade per realizzare obiettivi strategici irrinunciabili per il Paese, anche con l’attenzione rivolta ad un mondo cooperativo moderno e coerente con le strategie di sviluppo.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2005