Giugno 2005

Crisi tedesca - crisi europea

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La Germania
che non vola più
Rodrigo Rato Direttore Generale FMI
 
 

 

 

 

 

Oggi il rischio maggiore per l’Europa è una Germania
unificata
ma debole
e condizionata
da complessi,
che rischia di
diventare una
zavorra per tutta l’Unione.

 

Secondo un vecchio pregiudizio, i tedeschi amano gli italiani, ma non li ammirano. E gli italiani ricambiano ammirando i tedeschi, senza tuttavia amarli. Ma di quali tedeschi si tratta? Di quelli dell’Aspirina e del Maggiolone, di Thomas Mann e di Albert Einstein, della Telefunken e della Mercedes, di Adenauer e di Brandt, icone classiche del modello germanico, il cui bagliore sembra oggi appartenere più al mondo dell’archeologia (e della neo-archeologia) che della realtà. Non per niente l’Economist ha parlato apertamente di “malato tedesco”, visto che una delle maggiori potenze economiche mondiali, che ancora oggi produce il 30 per cento del prodotto lordo dell’Ue, non riesce a risalire la china e a risolvere i problemi interni, tornando ad essere la locomotiva continentale.
Ci eravamo illusi quando Helmut Kohl aveva promesso «orizzonti fiorenti», grazie ai quali non tutto sarebbe stato diverso, ma molte cose sarebbero state migliori (secondo lo Schröder-pensiero). Dopo quattro anni di stagnazione economica e previsioni che anche per quest’anno pronosticano una crescita piatta, con quattro milioni e mezzo di disoccupati in quel cuore d’Europa, persino i più ottimisti esprimono non poche perplessità. Persino il presidente della Diht, l’Unione delle Camere di commercio e industria germanica, sembra aver preso commiato dall’area renana, visto quanto ha sostenuto: «Non ci aspettiamo una politica migliore, occorre agire subito per sfruttare le nostre opportunità imprenditoriali. Dobbiamo investire all’estero e trasferire le catene di montaggio nei Paesi dell’Est ultimi entrati nell’Ue, e meglio ancora in Cina». L’invito ha sollevato un vespaio di polemiche, incentrate persino su un presunto “antipatriottismo”, smentito dai fatti.
Le imprese tedesche, infatti non avevano alcun bisogno dell’incoraggiamento del rappresentante degli imprenditori per comportarsi in questo modo. La Siemens, ad esempio, ha ridotto dal 1980 ad oggi il numero dei dipendenti in Germania da 235 mila a poco meno di 170 mila, aumentando quelli impiegati in Paesi esteri da 109 mila a 248 mila. La Volkswagen produce modelli di auto interamente in Slovacchia, mentre l’Audi ha aperto gigantesche catene di montaggio in Ungheria, e in Polonia sono proprio le aziende tedesche il maggior datore di lavoro privato.

Secondo un’indagine di un istituto economico di Monaco di Baviera, negli ultimi anni le multinazionali del made in Germany hanno creato oltrefrontiera circa tre milioni di posti di lavoro: un processo che non si giustifica soltanto con i forti dislivelli salariali tra la Germania e i Paesi emergenti. Come si spiega altrimenti il fatto che in altre nazioni industrializzate, dunque con un costo del lavoro comunque alto rispetto a Paesi come la Polonia e la Lituania, il numero dei dipendenti nella old economy è comunque aumentato? In Irlanda, per esempio, è cresciuto del 25 per cento in cinque anni, in Finlandia del 12 per cento, in Canada del 6 per cento, e anche negli Stati Uniti, così allarmati dalla concorrenza dei salari cinesi, pur sempre di un buon 3 per cento. Il vero dilemma tedesco resta non tanto quello dei salari troppo alti (sono addirittura diminuiti mediamente di 100 euro rispetto a dieci anni fa), quanto quello della sempre maggiore tassazione del lavoro.
Le imposte sociali sugli stipendi lordi (cioè quelle che servono allo Stato per finanziare pensioni, sussidi per disoccupazione e sanità) in Germania toccano ormai il 41,3 per cento, contro il 20,5 del Giappone e l’11,2 della Danimarca. Contrariamente ad altri Stati, la Germania finanzia il suo ancora generoso sistema sociale quasi unicamente attraverso le imposte sui salari, creando una pericolosa reazione a catena: più scende il numero dei lavoratori dipendenti e più aumentano le imposte sulle buste paga, per compensare le entrate minori dello Stato. In tal modo, la crescente pressione fiscale fa crescere il costo del lavoro per gli imprenditori, senza aumentare le entrate dei dipendenti e di conseguenza i loro consumi. Non ci si deve stupire, pertanto, se negli ultimi quattro anni gli investimenti degli imprenditori tedeschi nel loro Paese siano diminuiti di oltre il 12 per cento, e i consumi interni siano scesi di circa il 3 per cento.
Un altro dato mette in rilievo il forte clima di incertezza: dei circa 115 miliardi di euro che ogni anno finanziano le regioni dell’ex Germania comunista (la DDR), solo 18 miliardi provengono da imprese private, e il resto dallo Stato, che però finanzia queste sovvenzioni quasi unicamente con nuovi crediti dalle banche. Il debito pubblico ha così subìto fortissimi balzi, raggiungendo, anzi superando il 65 per cento del Prodotto interno lordo. Gli spazi di manovra per un’azione politica volta a una vera riforma del modello tedesco si fanno sempre più stretti e non bastano le accorate parole del Cancelliere né le timide e scoordinate riforme dello Stato sociale contenute nell’Agenda 2010 a tamponare la continua erosione dell’intero sistema.
«Quella dell’economia è sempre una morte molto lenta», si sostiene alla Siemens. La geologia di questa crisi ha infatti molti substrati, il cui effetto, a volte, può essere riscontrato soltanto a lungo termine. Intanto, nei settori-chiave della microelettronica, delle telecomunicazioni, della biotecnologia e persino della finanza, la Germania non appartiene più al gruppo del global player. Le spese per la ricerca scientifica sono inferiori a quelle della Svezia, degli Stati Uniti e della Corea del Sud. Nelle graduatorie dell’Ocse sulla qualità della formazione scolastica e universitaria la patria di Einstein e di Wilhelm Conrad Röntgen (quello dei raggi X) figura agli ultimi posti ed è superata dall’Italia e persino dal Portogallo, che al momento del suo ingresso nell’Unione europea era un Paese dall’economia praticamente arcaica.
Il paradosso, dunque, è questo: oggi il rischio maggiore per l’Europa non è quello di una rinata superpotenza economica e politica egemonizzante di Berlino, tanto temuta da Margareth Thatcher dopo il crollo del Muro e la riunificazione delle due Germanie emerse dal secondo conflitto mondiale, quanto il contrario, una Germania unificata ma debole e condizionata da complessi, che potrebbe reagire in modo incontrollabile alle incerte sfide del futuro. E che rischia di diventare una zavorra per tutta l’Unione.

 

   
   
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