Giugno 2005

Modelli di sviluppo / 2

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Un’Europa
che non fa sistema
D. M. B.  
 
 

 

 

 

 

Cecità politica, quella di non
mettere in campo lo sviluppo del Sud, a fronte di quello che di qui
a non molto sarà
il nuovo contesto planetario.

 

Se guardiamo allo scarto esistente tra obiettivi e risultati – si sostiene con una buona dose di sarcasmo – ci accorgiamo che l’Agenda di Lisbona, secondo cui l’Europa dovrebbe diventare l’economia più dinamica del mondo, non è che uno scherzo. Giocano ma non tanto, con l’ironia, quelli del Consorzio franco-tedesco che controlla Airbus, il gigante che ha superato nelle vendite il colosso aeronautico americano. Eppure, l’industria europea ha rialzato la testa proprio con Airbus, oltre che con i telefonini, con la farmaceutica e con le costruzioni spaziali: tutti settori d’eccellenza nella competizione globale.
Si afferma anche che l’Europa non ha ancora trovato il passo giusto per utilizzare al meglio l’enorme vantaggio competitivo di avere il mercato domestico più grande del mondo. Soltanto con una maggiore integrazione (anche dei mercati finanziari) e una corporate governance comune si potrà superare il ritardo tecnologico rispetto agli Stati Uniti e al Giappone. Cioè: il Vecchio Continente deve fare più sistema, e ridurre il gap nella crescita della popolazione, sostenendo le famiglie e aprendo agli immigrati, soprattutto a quelli scolarizzati e qualitativamente più appetibili.

Lamentano le maggiori società europee di software: «Da noi si discute se lavorare 35 ore a settimana, in Cina se dormire 35 ore alla settimana. E intanto lasciamo fuori dalla porta gli ingegneri indiani, che eccellono nello sviluppo di prodotto, come continuano a dimostrare nelle aree ad alta tecnologia della California». L’allargamento all’Est europeo in qualche modo ha fatto aumentare la competitività delle imprese europee e ancora meglio potrà fare la concorrenza fiscale (l’Irlanda registra già un’aliquota al 12,5 per cento).
Com’è noto, il Rapporto sull’area euro ha previsto per Eurolandia una crescita del 2,4 per cento per il 2005. Tutto bene? No: ammesso che si raggiunga quest’indice, è sempre troppo poco, perché gli Stati Uniti correranno sul livello del 3,7 per cento e il Giappone dovrebbe raggiungere il 2,8 per cento.
A preoccupare gli economisti sono in particolare la domanda interna che ristagna e la spesa delle famiglie che non decolla. La mancanza di fiducia aumenta il risparmio a scopo preventivo, che deprime i consumi. Secondo gli economisti di Deutsche Bank, se i governi invitano a spendere, ottengono l’effetto contrario, dal momento che la gente pensa che ci sia qualcosa che non va nei conti pubblici.

Tentativi se ne fanno, in diverse direzioni. Il Tesoro francese ha messo in cantiere la possibilità di rendere più liquida la ricchezza immobiliare, incoraggiando le famiglie a indebitarsi, prestando come garanzia la casa. Ci provò qualche tempo fa anche un ministro dell’Economia italiano, ma venne sommerso dalle critiche. «Ma – dice un senior economist di Bruxelles – usare la propria casa per sostenere il proprio stile di vita è meno rischioso in America, dove la maggiore flessibilità del lavoro fa trovare più facilmente un’occupazione». Un’altra strada è spingere più risparmio verso la Borsa. Uno studio calcola che i fondi pensione in Francia possiedono azioni per un valore pari al 5 per cento del Prodotto interno lordo, mentre quelli americani arrivano a controllarne il 37 per cento, con ben maggiori possibilità d’influenzare le scelte delle imprese verso profitto ed efficienza.
E parliamo infine dell’Italia. Con il classico senno del poi, tanto ipercritico soprattutto da parte di chi è campione planetario di salto del fosso, si denuncia ora la politica economica nazionale che ha continuato a favorire lo sviluppo del celebre “piccolo è bello”, anche quando un poco ovunque, in Europa e nell’Occidente industrializzato in genere, si era già capito che la concorrenza, coniugata con la competitività, esigeva una serie di concentrazioni e di fusioni per la creazione di imprese di grandi dimensioni.
Che cosa è accaduto da noi, in questi ultimi anni? È accaduto che abbiamo comprato qualche cosa all’estero, ma soprattutto che siamo diventati una sorta di supermercato nel quale tutti, o molti acquirenti europei e mondiali, hanno saccheggiato le nostre imprese. E non soltanto le imprese industriali. Perché non ci si è mossi per tempo? E perché non si sono incoraggiate iniziative nella direzione giusta, come indicavano con estrema chiarezza i comportamenti degli altri Paesi? Perché si è incoraggiata fino in fondo la strategia delle microimprese e di quelle familiari, mettendo in un cono d’ombra una linea politica vigorosa con l’obiettivo di incoraggiare la nascita, la formazione, il rilancio delle imprese medie, medio-grandi e grandi? Perché, infine, dopo un abbandono durato più di venticinque anni, non si è riaperto un discorso – in termini moderni – sullo sviluppo del Mezzogiorno, seguendo le esperienze di Paesi come l’Irlanda, come in parte la Germania, come la Spagna e lo stesso Portogallo? A chi si è pagato il tributo per la tenace costanza di questa emarginazione?
Non so chi risponderà a queste domande. All’ultima, però, ha dato una risposta oggettiva Giuseppe Galasso: ora qualcuno afferma che la questione meridionale è ancora aperta; ma si sarebbe fatto meglio a proclamarlo da tempo, quando sembrava che di Sud, meridionalismo e questione meridionale non si dovesse più parlare: «Adesso molti dei sostenitori di queste tesi hanno cambiato parere e parlano del Sud come se avessero detto sempre le stesse cose. Perfino nella cronaca politica [...] il Sud è ridiventato qualcosa: qualcosa sia come necessario oggetto di misure e interventi particolari e come problema economico e sociale, sia addirittura di nuovo come competenza di un ministero apposito. Saggiamente, quest’ultima eventualità ci è stata risparmiata. È rimasta, invece, l’idea che per il Sud occorra fare qualcosa di “speciale”, come si diceva una volta…».
E dunque, che cosa è accaduto? La risoluzione totale di una “politica per il Sud” negli indirizzi, nelle scelte e nella realizzazione della politica generale dell’Italia, da quella interna a quella estera e del commercio con l’estero «non ha trovato accoglienza neppure questa volta. Per coloro che la auspicano ormai da un quarto di secolo non è neppure una sorpresa. Sarebbe stata una sorpresa (e quanto lieta!) il contrario».
Più Italia nel mondo globalizzato, era stato detto, volendo significare che il made in Italy doveva rappresentare l’asse portante della nostra azione. E in nome di questo obiettivo era stata mobilitata la nostra diplomazia, con direttive precise impartite a tutti coloro i quali rappresentano il nostro Paese. E non si teneva conto dell’handicap che stava per penalizzare più d’ogni altra cosa proprio il made in Italy, vale a dire il ritardo competitivo che abbiamo accumulato, specialmente sui mercati emergenti, e che ci ha posto alla mercé di nuovi e agguerriti concorrenti.
Cecità politica, quella di non mettere in campo lo sviluppo del Sud, a fronte di quello che di qui a non molto sarà il nuovo contesto planetario, secondo il quale a condizioni inalterate gli Stati Uniti continueranno ad essere la principale superpotenza, seguita dalla Cina, il Paese che per antonomasia ha abbandonato il suo assetto terzomondista sulla strada dell’economia di mercato. E nel giro di vent’anni altri grandi Paesi, come India, Nigeria, Sudafrica e Brasile avanzeranno un’opzione strategica: diventare anch’essi attori che vogliono concorrere a regolare, come gli altri, la globalizzazione. Un cartello del genere esprime alcuni miliardi di persone, e potrà influenzare i destini del mondo.
L’Europa ha una sola strada: l’integrazione politica deve diventare realtà, perché tra vent’anni ci sarà un mondo tripolare: gli Stati Uniti da un lato, il polo asiatico India-Cina-Giappone dall’altro, e l’Europa in mezzo, ma solo se saprà essere protagonista politica soprattutto nel bacino del Mediterraneo, dove c’è un ruolo da giocare da parte dell’Italia. Che potrà rimanere sulla cresta dell’onda se saprà consolidare la sua economia, senza emarginazione di territori significativi, influenzando direttamente due scacchieri di rilievo: la cosiddetta Sponda Sud e i Balcani. In attesa che faccia il suo ingresso nell’Ue, anche per merito di Roma, la Turchia.

 

   
   
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