Giugno 2005

Modelli di sviluppo / 1

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Un’Europa stanca?
M. B.  
 
 

 

 

 

 

L’America ci
supera per tasso
di innovazione
e per motivi
demografici, perché è più
giovane, mentre l’Europa invecchia velocemente.

 

È stato scritto che si tratta di un’Europa -tartaruga, al confronto degli Stati Uniti, e che è tale soprattutto in due campi spesso trascurati nelle analisi: l’invecchiamento demografico e la lentezza nel costruire un’Unione più stretta. Non è poco, ma è diverso dal quadro di un’Europa meno dinamica dell’America. Anche l’Economist, che non è mai tenero con il Vecchio Continente e mai troppo severo con l’America, ha più volte smentito la favola di un Nuovo Mondo strutturalmente più dinamico dell’Europa.
In realtà, un’America “sprecona” da anni ormai consuma il 5 per cento in più di quanto produce, e il suo dollaro sfida la legge di gravità come nessun’altra moneta potrebbe: con una bilancia commerciale in deficit strutturale e un Tesoro che di frequente ha un solo mese di autonomia valutaria, fino a quando i creditori stranieri continueranno a compensare il deficit Usa, reinvestendo i ricavi del loro export in una moneta che si deprezza? Prima o poi una moneta di riserva deve rinunciare al proprio ruolo, se diventa un cronico fattore di perdita per chi la detiene; e il dollaro rischia spesso di trovarsi su questa strada, ancora una volta per motivi strutturali.

Nel report “Europe versus America”, pubblicato esattamente un anno fa, l’Economist ricordava che l’America non è strutturalmente più dinamica dell’Europa: nel decennio 1994-2003 il Prodotto interno lordo pro capite americano, la vera misura della prestazione economica di un Paese, è cresciuto del 2,1 per cento l’anno, contro l’1,8 per cento dell’euroarea. E aggiungeva che questa piccola differenza era tutta imputabile al rallentamento della Germania conseguente alla costosa riunificazione del 1990. Scomputando la Germania, il tasso di crescita europeo del Prodotto interno lordo pro capite nell’ultimo decennio è stato esattamente uguale a quello Usa: 2,1 per cento. E se in seguito il Pil americano è cresciuto più di quello europeo (3,3 per cento contro 2,1 per cento), ciò è dovuto precisamente alla differenza nei tassi annui di crescita delle popolazioni: 1,2 per cento l’americana, zero l’europea.
Quanto al Pil pro capite europeo, complessivamente inferiore del 30 per cento rispetto a quello americano, due semplici considerazioni: il cittadino americano deve pagarsi di tasca sua la scuola, la sanità e la previdenza, tutti servizi a costi crescenti, a differenza dell’europeo; e poi l’americano lavora più ore/anno dell’europeo (1.800 contro 1.600), per scelte di vita che la maggioranza degli europei difende, trasformando parte degli aumenti di produttività in tempo libero invece che in salario, come invece ha preferito l’americano. Il quale gode di soli dieci giorni di ferie/anno, contro i trenta degli europei, ed è costretto sempre più spesso a lavorare oltre i settant’anni per integrare una pensione sociale che, pari al 30 per cento del salario, (75 per cento del salario in Europa), non gli basta per vivere.

Se l’americano gode di una vita media più corta di due anni rispetto alla media del cittadino europeo, questo dipende anche dal fatto che 50 milioni di americani sono completamente privi di assicurazione sanitaria, perché non sufficientemente poveri per entrare nel Medicare pubblico, e non abbastanza ricchi da potersi pagare un’assicurazione privata. Quanto ai tagli fiscali, che sicuramente hanno accelerato, anche drogandola, l’economia americana, basterebbe ricordare il Wall Street Journal: «Dei tagli fiscali hanno beneficiato soltanto i redditi elevati, mentre i salari sono rimasti invariati e i salari reali si sono ridotti».
Perché non far risaltare con più precisione i punti di debolezza veri del nostro Continente, che non sono pochi, e i punti di forza da cui dobbiamo partire per rilanciare un’economia europea che effettivamente non brilla da qualche anno? Per crescere di più ci serve più Europa, e non meno Europa, con burocrazie locali, nazionali e comunitarie, più efficienti. Abbiamo un export superiore a quello di Usa e Sud-Est asiatico messi insieme, produciamo più di quello che consumiamo, quando ci impegniamo diventiamo campioni del mondo, (per esempio nelle telecomunicazioni e nelle costruzioni aeronautiche: si vedano l’Airbus europeo, che dall’anno scorso ha piazzato più ordini della Boeing, gli alimentari, i telefoni cellulari, la farmaceutica e l’auto), e abbiamo sistemi di Welfare che dobbiamo ammodernare, senza cancellare, come invece è successo negli Stati Uniti.
Perché allora da alcuni anni a questa parte cresciamo meno di quanto ci consentono le nostre potenzialità? A questa domanda sono state date risposte convincenti: «Di ragioni ce ne sono tante, ma una sta alla radice di tutto: manca la fiducia… La fiducia viene anche dall’economia, ma la ripresa americana non sarà sufficiente a innescarla. La fiducia viene soprattutto dalla Politica, quella con la maiuscola».
Le difficoltà, dunque, sono soltanto politiche? Non proprio. L’America ci supera per tasso di innovazione, per il maggiore impegno nella ricerca e nell’istruzione, per il superiore ruolo che la meritocrazia ha in quella società. Ma ci supera in modo particolare per motivi demografici, perché è più giovane, mentre l’Europa invecchia velocemente, vista la miopia con cui conduce le sue politiche per la famiglia e l’immigrazione. La differenza nei tassi di crescita della popolazione è oggi il primo fattore di svantaggio anche economico del Vecchio Continente.
Liberiamoci dal complesso di un’Europa-tartaruga in tutto versus un’America brillante in tutto. Entrambi i Continenti hanno problemi da risolvere e opportunità da sviluppare. Costruiamo innanzitutto più Europa, che non ha esaurito il suo potenziale di integrazione economica. Molte iniziative – si pensi ai progetti Galileo, Airbus, Eurofigther – sono più facili da realizzare in un contesto europeo.
Rincorrere al ribasso i nuovi concorrenti – è stato scritto – è impossibile oltre che stupido, perché metterebbe a rischio il Welfare, che è e deve rimanere un vantaggio competitivo di lungo periodo. Si potrebbe fare una politica industriale europea a favore di aziende strategiche in difficoltà, se avessimo un’Unione più stretta, come ebbe a notare a suo tempo il commissario Mario Monti, senza incorrere in infrazione alcuna e senza turbare la concorrenza. Non è poco, considerando i problemi di nanismo industriale e di competitività dell’Italia.

 

   
   
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