Giugno 2005

Rischi di uno choc petrolifero

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Ritorno al passato
Paul Samuelson Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

La domanda da porsi, oggi come oggi, è questa:
che cosa succederà se si verificherà
il bis del vecchio scenario?
Si cercherà
di accrescere
la flessibilità
del lavoro?

 

La mia posizione si può riassumere in cinque punti: 1) nulla esclude che il prezzo del barile superi i sessanta dollari e magari sfiori anche i settanta; 2) a livelli del genere l’economia mondiale dovrà fare i conti, come negli anni Settanta, con la stagflazione, vale a dire con il micidiale mix di inflazione e di recessione: e si tratterà di un tremendo ritorno al passato; 3) la dottrina economica ancora oggi non dispone di alcuna ricetta sicura per affrontare la stagflazione; 4) in uno scenario simile, ci saranno forti pressioni per accrescere la flessibilità del lavoro e per ridurre i livelli salariali; 5) è improbabile che i contraccolpi della crisi incidano sul confronto tra Stati Uniti e Unione europea.

È realistico presumere che il petrolio vada su con i prezzi, anche per fattori contingenti: basterebbe che il Venezuela frenasse la produzione, oppure che il greggio iracheno non riuscisse ad essere esportato, o infine che la Cina continuasse ad accrescere la domanda (cosa che ha fatto quasi esponenzialmente fino ad oggi), per accelerare l’aumento dei prezzi. Se così fosse, si annacquerebbero le residue speranze di una ripresa solida, duratura, mentre il presidente della Federal Reserve sarebbe costretto a rivedere i suoi piani di un morbido, graduale rialzo dei tassi. Come ho detto, appunto: si ritornerebbe alla stagflazione degli anni Settanta, che penalizzò l’Occidente e sconvolse le economie dei Paesi industriali.
Quello fu un periodo molto brutto anche per noi economisti. Nessuno riusciva a trovare una valida via di uscita. Non avevamo (e non abbiamo neanche ora) strumenti efficienti per contrastare il fenomeno. La stagflazione, infatti, rende inutilizzabili i metodi classici della politica monetaria: fra l’altro, se i tassi vengono aumentati, si controlla l’inflazione, ma si frena la crescita; se vengono ridotti, si accelera la ripresa, ma inevitabilmente si aggrava l’inflazione. Tanto per fare un esempio significativo: il presidente Richard Nixon, oltre tutto dimenticandosi di essere un repubblicano, provò con una politica di controllo dei prezzi e dei salari: fu un fallimento totale, perché non fece altro che peggiorare la situazione.
La domanda da porsi, oggi come oggi, è questa: che cosa succederà se si verificherà il bis del vecchio scenario? Io temo che si cercherà di accrescere la flessibilità del lavoro, abbassandone simultaneamente i costi. Francamente, negli Stati Uniti, dove i sindacati sono stati da tempo evirati, non sarà tanto difficile. Anche se permangono situazioni abbastanza paradossali, come quella dei portuali californiani che guadagnano 100 mila dollari l’anno grazie al numero chiuso, alla loro particolare forza sindacale e alla mancanza di concorrenza. Per assumere di nuovo stanno facendo una lotteria...
Paradossale anche quel che si verifica in Italia, dove la massiccia presenza di “occupazione nera”, il celebre “sommerso”, finirà per tradursi in un vero e proprio vantaggio. I problemi maggiori riguarderanno le economie della Francia e della Germania.

Riassumendo: la ripresa in atto è debole, fragile e non riesce a creare che pochi nuovi posti di lavoro. Il ritmo di sviluppo è insufficiente. In questo contesto, un ulteriore incremento di prezzo del greggio imporrà alla Federal Reserve, ma anche alla Banca centrale europea, una manovra più drastica sui tassi di interesse che bloccherà ulteriormente la crescita.
L’alternativa nucleare? Può essere una delle soluzioni, ma occorre mettere in evidenza il fatto che anche l’uranio è in via di esaurimento e che dopo decenni non si è riusciti a trovare una soluzione per il problema dello smaltimento delle scorie. Sarò eccessivamente pessimista. Ma poco o nulla mi autorizza a pensarla diversamente.

 

   
   
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