Giugno 2005

Politiche monetarie

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$ ebbro
Pierfranco Donelli  
 
 

 

 

 

 

Le regole valgano per tutti, Pechino, Washington
e Berlino inclusi. Perché nell’oceano del disordine
scorrazzano
soltanto
i bucanieri.

 

Uno qualunque dei ministri del Tesoro dei Paesi dell’Unione europea che hanno adottato la moneta unica oggi potrebbe dire: «L’euro è la nostra moneta e il vostro problema». La nemesi della storia ha infatti ribaltato le condizioni che indussero un imprudente ministro del Tesoro statunitense a non risparmiarci la battuta: «Dollar is our currency and your problem». Attualmente la divisa americana è debole e fibrilla paurosamente perché i conti pubblici e il debito estero delle imprese, dei cittadini, dello Stato americano sono elevati in maniera allarmante. La cultura della stabilità premia invece l’euro, se non prevalgono disegni ambigui per imporre un nuovo patto ai würstel. Maastricht non è un dogma, ma non impedisce la crescita; lo squilibrio dei bilanci pubblici e la politica delle cicale aiutano sviluppi illusori e congiunturali, e prima o poi portano al rialzo dei tassi di interesse e di conseguenza a un freno della crescita. Esattamente quel che l’Unione europea ha voluto (almeno fino a questo momento) evitare.
Il Patto di Stabilità è perfettibile, la sua applicazione richiede minori rigidità, senza eccezioni e interpretazioni tendenziose che inducano a predicare virtù, minacciando di sanzioni i Paesi che le regole bene o male le hanno rispettate, chiudendo invece gli occhi al cospetto delle ripetute infrazioni di Francia e Germania. Forse qualcuno è più uguale degli altri, in Eurolandia? E il Commissario Ue agli Affari economici e monetari può trarsi d’impaccio, sostenendo che, sì, Parigi e Berlino hanno più volte sforato, ma avendo – ad esempio – un debito pubblico di gran lunga inferiore rispetto a quello italiano. C’è chi ha notato, in proposito, che Erasmo ha vaccinato dalla voluttà superstiziosa nell’osservanza della regola, prediletta da Lutero e da Loyola, come emerge dal suo racconto sulla suora sedotta nel dormitorio per non chiedere aiuto. Questo non vuole assolutamente dire scegliere i costumi licenziosi.
L’unilateralismo espresso dal Cancelliere tedesco è sbagliato almeno quanto quello del presidente americano, ma le politiche di bilancio, fiscali e monetarie dell’Unione europea sono state più rigorose di quelle statunitensi. Nel giro di pochissimi anni l’euro si è proposto come valuta di scambio e cresce nelle riserve delle Banche centrali della Cina, della Russia, del Giappone. Sei nazioni del Golfo stanno studiando una sorta di unione monetaria, con la prospettiva di non lasciare al dollaro il monopolio del greggio.
Ogni giorno gli Stati Uniti sono costretti a rastrellare due miliardi di dollari all’estero, dal momento che gli americani non risparmiano, per finanziare un deficit che ha superato i 600 miliardi nel 2004 e cittadini che vivono ben al di là dei propri mezzi. Con politiche fiscali e monetarie lassiste si favoriscono sostanzialmente effimere ricchezze, provvisorie crescite e sviluppi drogati, senza che questo porti a sottovalutare la forza e la carica innovativa dell’economia americana, che comunque continua a poggiare su una robusta, costante ricerca scientifica e tecnologica.
È rischioso curare i mali di un’economia squilibrata facendo ricorso al doping: fa piuttosto male anche ai campioni, anche se ne esalta momentaneamente le prestazioni. Alla lunga genera dipendenza e comporta il necessario aumento delle dosi, oppure costringe a passare a “roba” sempre più pesante, che produce danni permanenti. E, oltre tutto, falsa le competizioni.

Fuor di metafora: galleggiare su bolle speculative azionarie, oppure obbligazionarie, o persino immobiliari, può procurare ebbrezza agli appassionati della levitazione, ma Isaac Newton ci ha fatto conoscere da tempo la legge di gravità: il mago della Federal Reserve potrebbe rivelarsi un apprendista stregone e portare ad atterraggi molto duri e ad impatti dirompenti.
Non è possibile credere che l’indebolirsi del dollaro piaccia agli americani. Nessuno, al di là dell’Atlantico, può rallegrarsi per una perdita di credibilità, e meno che mai per un cedimento di sovranità monetaria a quanti sostengono il loro enorme, micidiale debito pubblico. Oltre i confini della pura e semplice propaganda, della sudditanza, e di fuorvianti “wishful thinking”, le esportazioni statunitensi continuano a non aumentare, mentre peggiorano le ragioni di scambio e costringono a pagare più care merci come Airbus, Agusta, Armani, Ferrari, che neanche un masochistico patriottismo protezionista renderebbe meno appetibili e competitive di Boeing, Sykorski, Calvin Klein, General Motors.
Resta il preoccupante problema della crescita asfittica delle grandi economie europee. Assolutamente ingiusto attribuirne la colpa all’euro e a Maastricht. Affidare la crescita alle svalutazioni equivale a malriporre fiducia in strategie miopi (e l’Italia ne sa più di qualcosa, e più di ogni altro Paese europeo-occidentale). Il lassismo nel rispetto delle regole giustifica ritardi e aggiustamenti nella realizzazione delle riforme strutturali che favoriscano innovazione dei processi produttivi, ricerca scientifica, sviluppo delle tecnologie avanzate, competitività delle imprese e qualità dei prodotti.
L’euro gode di reputazione per i buoni fondamentali delle economie dell’Ue, per la cultura della stabilità, per le regole perseguite con rigore, per gli sforamenti compatibili con le capacità di recupero dei singoli Paesi. Proprio così: anche per il rispetto delle regole, forse troppo rigide e persino alquanto “stupide” (come sono state definite a suo tempo proprio da Romano Prodi), ma almeno fino a questo momento non soggette a fatui giri di valzer deprecati tanto dai risparmiatori quanto dagli investitori. È possibile porre fine alle convulsioni valutarie con accordi condivisi. E le regole valgano per tutti, Pechino, Washington e Berlino inclusi. Perché nell’oceano del disordine scorrazzano soltanto i bucanieri.

 

   
   
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