Giugno 2005

Ritorno ad Adam Smith

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Le basi etiche
della Welfare Economics
Hilary Putnam Professore emerito Harvard University
 
 

 

 

 

 

Il fatto di dar
valore solo
al piacere senza mostrare nessun interesse diretto per la libertà,
i diritti o le
condizioni reali
di vita, non è certo un punto a favore dell’utilitarismo classico.

 

La concezione che Amartya Sen ha elaborato e sostenuto viene chiamata “criterio delle capacitazioni”. Le capacitazioni di cui parla Sen sono in particolare capacità di «acquisire funzionamenti cui (una persona) ha motivo di attribuire valore […] e questo fornisce un modo particolare di impostare la formulazione di giudizi su uguaglianza e disuguaglianza». Spiega Sen: «I funzionamenti considerati possono variare dai più elementari, come essere ben nutriti, sottrarsi per quanto possibile a malattia o a mortalità precoce, eccetera, ad acquisizioni le più complesse e sofisticate, come l’avere rispetto per se stessi, essere in grado di prendere parte alla vita della comunità, e così via».
L’idea di applicare questo punto di vista ai problemi dello sviluppo si deve interamente a Sen. In anni recenti anche Martha Nussbaum ha utilizzato un’impostazione basata sulle capacitazioni per discutere questioni di sviluppo, particolarmente per quel che riguarda le donne.
Proprio perché gli interessi di Sen in quanto economista sono in effetti frequentemente, e di solito, di portata internazionale, i suoi scritti si indirizzano spesso ai problemi di ciò che si chiama “sviluppo economico”. In quest’ambito, l’opinione prevalente prevede che l’unico problema sia l’innalzamento del reddito monetario o forse della produzione economica lorda delle nazioni “sottosviluppate”.
Un modo in cui Sen ci mostra la necessità di unità di misura più sensibili del “sottosviluppo”, della povertà e di altre forme di indigenza economica è osservando quanto il denaro e la produzione economica lorda siano misure vaghe del benessere economico e quanto seriamente la nostra “base informativa” venga ristretta quando non riusciamo ad ottenere informazioni riguardanti quali risultati derivino da dati livelli di reddito o di produzione in varie condizioni.

«La relazione fra reddito e capacitazione – scrive Sen – risente fortemente dell’età del soggetto (per esempio, a causa dei particolari bisogni degli anziani e dei giovanissimi), dei ruoli sessuali e sociali (si pensi alle speciali responsabilità della maternità, ma anche a certi obblighi familiari determinati dal costume), della località (che può essere esposta alle inondazioni o alle siccità, oppure – in alcuni centri urbani – malsicura e violenta), della situazione epidemiologica (per esempio, quando in una regione ci sono malattie endemiche) o di altri fattori di cui una singola persona non controlla affatto – o solo limitatamente – le variazioni».
Un’impressionante statistica che Sen utilizza per illustrare questa tesi è la seguente: «I maschi del Kerala e della Cina superano nettamente i maschi afro-americani in termini di sopravvivenza fino a un’età avanzata; e anche le donne afro-americane, nei gruppi di età più elevata, hanno un tasso di sopravvivenza simile a quello delle cinesi, molto più povere, e nettamente inferiore rispetto a quello delle indiane del Kerala, più povere ancora. Dunque gli americani neri non soffrono solo di una privazione relativa, in termini di reddito, rispetto ai compatrioti bianchi; in termini di sopravvivenza fino a un’età avanzata sono anche più deprivati in assoluto rispetto a popolazioni a basso reddito come gli indiani del Kerala (sia gli uomini che le donne) e dei cinesi (gli uomini)».
Voglio richiamare l’attenzione su una critica interessante che Sen muove a una versione dell’utilitarismo, quella secondo cui il benessere può essere misurato semplicemente a partire dalla soddisfazione di desideri. Sen afferma che nei casi di privazioni estreme e molto durature la soddisfazione di desideri può anche costituire una base informativa impoverita perché una frequente conseguenza di situazioni di questo genere è la riduzione della gamma di desideri, in virtù della situazione disperata. Come egli scrive, «il problema è particolarmente grave in un contesto di radicate disuguaglianze e deprivazioni. Una persona che viva in totale deprivazione e conduca una vita stentata può non apparire in una brutta condizione, secondo la metrica mentale del desiderio e del suo appagamento, se accetta l’inclemenza del fato con rassegnata sopportazione.
In situazioni di persistente deprivazione, le vittime non stanno continuamente a lamentarsi e a compiangersi, e molto spesso si sforzano enormemente di trarre piacere da piccole occasioni di conforto. E di ridurre i desideri personali a proporzioni modeste, più realiste. Il grado di deprivazione di una persona, allora, può non essere assolutamente registrato nella metrica dell’appagamento dei desideri, per quanto egli o ella possa essere del tutto impossibilitata a nutrirsi adeguatamente, vestirsi decentemente, educarsi soddisfacentemente e ripararsi confortevolmente».
Le capacitazioni, nel senso di Sen, non sono semplicemente modi di funzionamento dotati di valore: esse sono libertà di godere di tali funzionamenti dotati di valore, una tesi annunciata nel titolo del libro di Sen Lo sviluppo è libertà e sottolineato in tutto il volume. Ovviamente, c’è spazio per dissentire su quali funzionamenti esattamente siano «dotati di valore», o tali che le persone abbiano «ragione di attribuire loro valore», ma tale dissenso è qualcosa che Sen considera esso stesso dotato di valore piuttosto che svantaggioso. Anzi, Sen non pretende neanche che il criterio delle capacitazioni comprenda tutti i fattori che si potrebbe voler includere nella valutazione del benessere: «Per esempio, potremmo dare molta importanza a regole e procedure, anziché solo alle libertà e agli esiti». Egli si pone la domanda: «Questa pluralità è fonte d’imbarazzo per chi difende l’utilizzo del punto di vista delle capacitazioni rispetto a ogni altro fattore pertinente?», e ad essa risponde con un deciso no: «Caso mai è vero il contrario: sostenere che esiste una sola grandezza omogenea da valutare significa ridurre drasticamente l’ambito dei nostri ragionamenti intorno ai valori. Per esempio, il fatto di dar valore solo al piacere senza mostrare nessun interesse diretto per la libertà, i diritti, la creatività o le condizioni reali di vita, non è certo un punto a favore dell’utilitarismo classico. Più in generale, incaponirsi sul godimento quasi meccanico di un’unica “cosa buona” sempre uguale sarebbe un negare la nostra umanità di creature ragionanti; sarebbe come rendere facile la vita a uno chef trovandogli un piatto che piaccia a tutti (tipo il salmone affumicato o magari anche le patatine fritte), oppure un’unica qualità che dovremmo cercare tutti di massimizzare (per esempio, che il cibo sia salato al punto giusto)».

Matematicamente parlando, quel che il criterio delle capacitazioni produce (anche quando si sia convenuto su una lista di funzionamenti dotati di valore, cosa che, come ci dice Sen, richiede «una discussione pubblica e un’accettazione e comprensione democratica») non è un ordinamento completo di situazioni, rispetto al benessere positivo, bensì un ordinamento parziale e alquanto approssimativo. Questo criterio (talora Sen lo chiama «punto di vista») non pretende di produrre un “metodo di decisione” che possa essere programmato su un computer. Quello che fa è invitarci a riflettere su quali modi di funzionamento formino parte delle nozioni di “vita buona” della nostra e di altre culture e indagare quanta libertà di conseguire tali funzionamenti vari gruppi di persone effettivamente posseggano in varie situazioni. Un approccio del genere ci richiederà di smetterla di collocare in compartimenti divisi l’etica, l’economia e la politica – come abbiamo fatto da quando nel 1932 Lionel Robbins trionfò sugli economisti del benessere seguaci di Pigou – e di ritornare al genere di valutazione ragionata e sensibile del benessere che Adam Smith vide come essenziale al compito dell’economista.

 

   
   
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