Giugno 2005

Il realismo del papa polacco

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Politico, ma equidistante
Mikhail Gorbaciov  
 
 

 

 

 

 

Ci furono sempre, nelle parole di questo Papa,
una sincerità e una coerenza che non si trovavano in altri critici di quel comunismo.

 

L’ho avuto dapprima antagonista e poi interlocutore nei sei anni in cui fui presidente dell’Unione Sovietica. Ci combattemmo, poi capimmo che le nostre posizioni non erano poi tanto distanti. Ora che non c’è più, posso dire che nella storia della Chiesa ci sono stati pochi Papi così longevi come Giovanni Paolo II, e così importanti, per avere attraversato un’intera epoca di eccezionali cambiamenti non da spettatori ma da protagonisti. È questo un dato specialissimo, niente affatto scontato, perché gli eventi, da soli, non rendono grande chi li vive. Soltanto chi sa interpretarli e vi si immerge lascia un segno nella storia.

Wojtyla ebbe una visione profondamente umanistica che gli consentì la scelta per la dignità dell’individuo. In tutti i sensi. Durante gli anni del suo pontificato, dal Vaticano sono venute parole diverse, a seconda delle fasi storiche e politiche, ma forte e costante è sempre stata la denuncia della gravissima situazione d’ingiustizia e di diseguaglianza che affligge il mondo moderno: il fatto che miliardi di individui siano e rimangano afflitti da tanta sofferenza, povertà, fame, assenza di lavoro, e, quindi, da oppressione politica e dalla sistematica violazione dei loro diritti umani più elementari.
Certo, questo Papa fu un implacabile accusatore del comunismo. La sua critica dell’assenza di libertà individuali nel sistema politico sovietico fu giusta. Io stesso, che pure vi ero nato e cresciuto, ero giunto a conclusioni analoghe e, proprio per questo, mi ero impegnato a riformarlo. Ma ci furono sempre, nelle parole di questo Papa, una sincerità e una coerenza che non si trovavano in altri critici di quel comunismo: cioè Giovanni Paolo II denunciava la mancanza di libertà dovunque si manifestasse, nel comunismo ma anche nel capitalismo. Per questa ragione fu osteggiato dalle potentissime congreghe dei vincitori della guerra fredda.
Ho avuto occasione di definire questo Papa un “impolitico”, nel senso che andava diritto per la sua strada, senza badare più di tanto alla diplomazia: prima, durante la lotta contro il marxismo, poi nella denuncia del materialismo capitalista.

Bene: credo che questo Pontefice, che pure aveva tratti di totale intransigenza, sia stato al fondo un politico realista. Richiamare l’attenzione del mondo sui suoi problemi più urgenti, tutti improcrastinabili, era realismo e lungimiranza. Cosa ben diversa dal realismo di piccolo respiro dedicato a chiudere le falle e a risolvere meschini interessi di breve momento. La sua attenzione al Terzo Mondo, al debito che lo schiaccia in misura crescente, ne è la prova. In queste condizioni non può esserci sviluppo e, quindi, non può esserci pace, perché – come disse subito dopo l’11 settembre – «non può esserci pace senza giustizia». È lo stesso principio che lo aveva guidato nei suoi appelli e nella sua azione per la pace in Medio Oriente e per la soluzione della crisi tra lo Stato d’Israele e lo Stato di Palestina.
Dopo il 1989 Wojtyla e io ci siamo incontrati in diverse occasioni e, ogni volta, ho avuto la conferma che l’uomo che mi era di fronte aveva una chiara consapevolezza della drammaticità delle sfide del mondo contemporaneo. Del resto, fin dal primo contatto avevo provato fiducia, istintivamente. E credo che sia stata una comprensione reciproca. Certo, eravamo diversi, con percorsi di vita che più differenti non avrebbero potuto essere. Eppure – e questo non cessa di stupirmi ancora oggi – io e lui eravamo giunti agli stessi approdi nel giudizio sull’uomo. Forse, chissà, in questa convergenza giocava il fatto che entrambi fossimo uomini dell’Est.

 

   
   
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