Dicembre 2004

 

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Le Giravolte
AA.VV.
 
 

 

Un’ansia panica anima una caccia impari, forse anche disposta al bracconaggio, nel folto degli alberi e nell’intrico del sottobosco, fra tronchi e rovi, sentieri labirintici e ambigue radure…

 

La caccia onirica di Errico re

L’ultimo giorno. L’ultimo bosco. L’ultima caccia. Federico-Errico nell’«ora di attraversare il buio», seguendo piste asimmetriche fra verzure laminate e scure, sentieri con ingannevoli tornanti, presumibili anfratti grotte scogli, seminando e sospettando trappole, inventando e temendo stratagemmi, auscultando voci e fruscii che rigano a tratti un silenzio profondo, «per fare il conto con il poco di me stesso che conosco, con il molto di me che ancora ignoro, che non conoscerò mai più, forse. Perché non riesco a scendere sul fondo della mia storia d’uomo. Perché ho il bisogno di guardarmi intorno per capire dove si nasconde quell’ombra che è stata la mia preda, di cui adesso sono io la preda». Viaggio fra gli abissi dell’inconscio e fra i risvolti del conscio. Scavo febbrile, memoria dolorosa, ragioni e passioni confliggenti, pulsioni oniriche: linguaggio non di parole soltanto, e queste comunque semanticamente sorvegliate, ma di contrappunti melici, di corde vibrate, di refrain bissati per scale ascensionali, su pentagrammi propensi a un bolero nello stesso tempo sontuosamente raffinato e svelatamente figurale.

Di qui, il gioco dell’iterazione, che è sostanza di una scrittura anche di complessa filologia, e l’intermittenza dell’anafora, che scandisce momenti di snodo di una narrazione che nasce, vive e si consuma tutta in se stessa, e tutta in cicli interiori, nella forza evocativa che – come quasi sempre per questo Autore – si fa poesia, anche quando alimenta dimensioni metastoriche di una vicenda esistenziale. C’è da chiedersi, dunque, quale sarebbe l’esito di una trascrizione elettronica delle pagine di Errico su un foglio – appunto – pentagrammato: la manifestazione di un concertismo non corale, ma di singoli strumenti di volta in volta messi in campo e orchestrati, o l’espressione pura di una monodia per righi lirici rapsodicamente disposti? In un caso o nell’altro, nocciolo nucleare è il mistero del verso. E’ l’enigma fascinoso della parola espressa coniugata con note intenzionalmente sottese.
Un’ansia panica anima una caccia impari, (forse anche disposta al bracconaggio), nel folto degli alberi e nell’intrico del sottobosco, fra tronchi e rovi, sentieri labirintici e ambigue radure, mentre luce e non-luce, tempo e non-tempo, ricordi e smemoramenti si inseguono e alternano e fondono in una convulsa – ma a tratti affilata da lampi di razionalità – recherche des années hereuses et perdues, foglie arse mulinate da un vento che non ha occhi, è senza pensiero apparente, e tuttavia lacera veli, rievoca paesaggi confidenziali, richiama brandelli di ombre lontane, dando senso e spessore alla magia della sfida. Che perdura fino alla saldatura dell’ellisse introspettiva e prima di placarsi nel campo lungo e di stemperarsi in una rassegnata dissolvenza ha frugato ramo dopo ramo l’intero albero degli ossimori, ha consentito e negato, ha condannato e assolto, ha lanciato segnali e richiami e ha smentito intenzioni e mire, ha percorso a ritroso tracce intrise di tenere dolenti ricordanze, ha pronunciato generose abiure, ha messo in atto volontari autodafé...
Toglie trama, il cacciatore, a mano a mano che procede nella vana esplorazione dei bandoli ammatassati, e perde determinazione e burbanza, mentre il dubbio gli si insinua dentro il cuore e cresce, fino a che ogni cruccio e tutti i rovelli diventano più pacate riflessioni, e infine presa d’atto dell’inesorabile realtà: la preda, se mai potrà essere stanata, se mai essa stessa non sia trasmutata in inseguitrice, sarà forse un amaro simulacro di sale, oltre l’iconostasi arcana e imperscrutabile che preclude la conoscenza della sostanza ultima, visibile e tattile, reclamata dalle nostre domande stolte e inappagate. A meno che non si manifesti come presagio folgorante, sensazione di un’impercettibile presenza, di un soffio lieve, di un brusio di Undulna, di uno stormire di gelso, di un’eco ondulare, o infine di un «colore di nube… neve che copre la porta di casa, veste bianca che scivola nella penombra e accarezza un ritratto di uomo». Per il ritorno di tutte le memorie. Per l’epifania dell’innocenza. Per riconoscersi e per non smarrirsi mai più.
Intrigante l’impianto narrativo, sempre variamente mosso attorno all’asse delle intenzionalità premeditate o fiottanti, dunque del vero e del fantastico, della visione incarnata e dell’invenzione chimerica. La Storia e il racconto, dunque, sapientemente architettati come “pretesti” nella struttura espositiva. Sicché con queste pagine che non danno respiro Errico ha valicato la linea d’ombra delle favolerie brevi, pur restando fedele al suo stile indiretto, in nome del quale proietta, sullo sfondo fittiziamente animato da una vicenda leggendaria, sentimenti autentici, umanissime emozioni e frammenti di vita reale: il suo parterre esistenziale ricreato in forma di romanzo dal formidabile magma del suo universo immaginativo.

aldo bello

 

Dovrebbero essere angeli inflessibili dalla spada infuocata, discesi sulla terra per sconfiggere la violenza, non con i consueti sermoni, ma con la definitiva condanna biblica del male…

 

Un diluvio che lavi il mondo

Quando penso che c’è gente che si mette la coscienza a posto soltanto per avere esposto due candele alla finestra, ho buone ragioni di credere che, in fatto di pentimento e considerazioni connesse, noi abbiamo ancora molto da fare e soprattutto da imparare.
La candela, antico quanto inutile, retorico strumento di pietà medievale, continua ai nostri – perché non ammetterlo? – maledetti giorni a spargere fumo. Tutto qui.
Posso ammettere che accendere una lucina, oppure un grosso, costoso cero, sia atto di devozione e basta. Tutto qui, ancora una volta.
Occorre ben altro da portare a processione, che svegli il nostro coraggio, la nostra intelligenza, per ostacolare il male dilagante.
Perché di male si tratta, di male profondo e senza possibile perdono: ridicolo il chiamarlo e, purtroppo, qualche volta cercare inutilmente di spiegarlo, con tanti nomi diversi. Lasciate ch’io lo scriva: una fiaccolata come “momento di riflessione”, dati i tempi, mi sembra proprio un “palliativo”. Questo tipo di male non è certo da combattere con i minuti di raccoglimento: ripeto, necessita ben altro, che non sia cerimonia passeggera, ma intervento concreto e deciso.
Rimane da trovare il metodo dell’intervento, che riesca a sradicare detto male. Sarei tentato di scrivere la parola in lettere maiuscole, visto che d’una realtà malvagia e consistente, ormai, si tratta. Il fatto è che, fino ad oggi, il bene non è riuscito a sconfiggere il male e non vedo come tale furioso duello universale possa risolversi, sommerso com’è più dalle intenzioni che dalle azioni.
E se il bene fosse troppo buono, per pretendere di far fuori un male così forte, una malvagità così gelida e disumana?
Permettetemi l’esempio: un poliziotto italiano arresta un delinquente accertato. La prima cosa che il timido tutore dell’ordine deve fare è quella di proteggere la testa del prigioniero, mediante la sovrapposizione su di essa del palmo aperto della mano, al momento di entrare nell’auto della polizia. Potrebbe farsi male, poverino, lui che ha appena accoltellato (n.d.r.: è l’ultima moda delinquenziale…) un innocente. I gendarmi russi in Cecenia sono stati criticati, perché hanno sparato a gogò, sbattendosene della forma. Ditemi cosa avrebbero potuto o dovuto fare. Personalmente, non lo so.
Rimane il fatto che comprendere il nemico significa aiutarlo a crescere, anziché “disinfestare l’ambiente” una volta per sempre. Nessuno pensa mai ad una specie di chirurgia sociale. Nessuno pensa mai che questo ribollire di odio si propaga e vince. Nessuno pensa mai che noi del terrorismo abbiamo paura, mentre il terrorismo non ha affatto paura di noi, suoi nemici di fede, di politica, di usi e costumi vari, tenacissimi e feroci. Nessuno pensa mai che “piantare” – sic! – seduto e tremolante, in una piazza gremita di presunti fedeli, un Papa che muore mentre parla o, se preferite, che parla mentre muore, è anche questo un atto di crudeltà, semplicemente studiata per dire, poi: «Io c’ero». E’ la crudeltà invisibile. C’è anche quella.

No, bisogna fare, ripeto fare, qualcosa di valido e decisivo per arginare l’epidemia della malvagità dilagante. Bisogna intervenire. Così non va. No, rido dei congressi, delle manifestazioni, dei pronunciamenti, dei programmi di pace globale, insomma rido di tutto quello che, per un terrorista vero, è stupidamente incomprensibile; e mi preoccupo, con la disperata rassegnazione dell’impotenza. Come fare a salvare l’uomo, non la belva; l’uomo che ama l’altro uomo?
Il fatto è che non sappiamo più commuoverci sul serio, soffrendone sul serio, di ciò che accade intorno a noi. Altrimenti basterebbe pensare ad altri morti innocenti; per esempio, quelli delle tante alluvioni, dei tanti cataclismi, che così spesso fanno capolino sopra i nostri schermi, per poi svanire veloci da quei macinatutto (leggi: schermi televisivi), che funzionano nel nostro subconscio senz’anima, privi d’ogni traccia emotiva. Cosicché, a ben vedere, quel male che sembra sopraggiungere da lontano, da fuori, viene invece da dentro noi stessi, che ci limitiamo a prenderne atto, magari mettendo due candele accese alle finestre…
Bisognerebbe che milioni di fanciulli dalle ali azzurre si scatenassero sull’umanità intorpidita dal benessere, con la violenza benefica che il bene può sprigionare; per dire basta, magari piangendo.

Dovrebbe essere una specie di diluvio universale, che lavasse il mondo. Questo il punto. Dovrebbe essere la rivincita dei deboli, che non erano deboli, bensì semplicemente dimenticati; dovrebbero essere, però, angeli inflessibili dalla spada infuocata, discesi sulla terra per sconfiggere la violenza, non con i consueti sermoni, ma con la definitiva condanna biblica del male.
Ma questo è un sogno di giustizia; da solo, non sarà sufficiente. Lo so. Dunque, non rimane altro che studiare in qual modo mai potremo salvarci da questo nuovo flagello dell’avanzata del male. Ne ho scritto e riscritto; non vedo risposta. Terribile sarebbe non ve ne fosse una, salvo quella d’un triste pareggio: “Il bene non sconfiggerà il male; il male non sconfiggerà il bene”.

florio santini

Ogni volta che il nome di Dio è stato scritto nei proclami e nelle sentenze e inciso nei cinturoni e nelle monete la povera gente ha raccolto sciagure, violenze sacralizzate e non certo benedizioni…

 

E il settimo giorno andò alla guerra

Quella della religione come possibile focolaio di guerra o come potenziale terreno di confronto e di pacificazione credo sia una delle questioni più aperte dell’intera storia dell’umanità. Di recente bene se ne sono occupate diverse pubblicazioni anche italiane (più o meno accademiche), stimolate purtroppo dai tristi e terribili eventi che stanno caratterizzando gli ultimi tempi; e tali studi credo siano riusciti egregiamente, peraltro, nel difficile compito di offrire punti di vista sull’argomento anche distanti tra loro e la cui complessa coesistenza non può che risultare materiale fertile per una riflessione non di superficie.
E una delle riflessioni più interessanti ci viene offerta, per esempio, dall’intervista rilasciata dal noto storico dell’Università degli Studi di Bari Luciano Canfora, dal titolo Ma le religioni sono anche un fattore di divisione, alla rivista “ForoEllenico” 1. In particolare, vorrei segnalare – anche a partire da alcune suggestioni di Canfora, ma non solo da esse – due o tre punti che possono e anzi devono intendersi come “ipotesi di lavoro”.
Dopo aver ricordato, anche sulla scia dell’opera di Noam Chomsky, quella che è la “consapevolezza di vulnerabilità” ormai fatta propria dalle coscienze degli americani in seguito ai terribili fatti dell’11 settembre, Canfora ribadiva il suo pensiero sulla religione. Se quest’ultima, nel caso in questione, risulta essere “semplice” instrumentum, lo stesso ruolo fondamentale che le religioni in genere hanno nella “vicenda umana” – sostiene lo storico – le rendono di per sé ostacoli quasi insormontabili per una sana relazione tra le diverse civiltà. Di qui la divisione, ma di qui anche la poca lucidità dei governi a gestire le realtà conflittuali che lacerano e intristiscono il mondo, complice anche una certa incapacità (diffidenza?) dei politici a coinvolgere gli storici nel tentativo di risoluzione delle tensioni di ordine religioso. Tensioni che, purtroppo, abbiamo imparato a scoprire come indipendenti dall’andamento di un dibattito interreligioso sempre più esteso o di un progresso scientifico o di un confronto multietnico.

A ragione e da più parti è stata indicata in Hebron la città simbolo del “male” delle religioni, ma preciserei: di un certo modo di intendere la religione. Hebron custode della tomba di Abramo, Hebron anzi possibile incontro delle tre grandi religioni monoteiste che ritengono “l’uomo di Dio” Abramo un patriarca comune, ma Hebron reale teatro di guerra. Anche quello che è uno dei luoghi più sacri della Terra Santa per l’ebreo, il musulmano e il cristiano, insomma, anche Hebron conosce estremismi e non incontri, fanatismi e non dialoghi, bombe e non rispetto né ascolto.
Il Dio invocato nell’atto stesso di un attentato, urlato nel momento della sparatoria, nominato nel mentre si uccidono persino i bambini, ma così pure quello strattonato da chi vorrebbe riciclarlo quale difensore di guerre giuste, e per giunta preventivamente studiate e messe in atto, è un Dio alieno. Che non appartiene e non può appartenere a nessun uomo.
Come ha notato Enrico Peyretti, ogni volta che il nome di Dio è stato scritto nei proclami e nelle sentenze e inciso nei cinturoni e nelle monete la povera gente ha raccolto sciagure, violenze sacralizzate e non certo benedizioni o mitezza religiosa! Ecco perché è amara eppure efficace l’ironia con cui lo psicoanalista Aldo Carotenuto ha ricordato che il termine giapponese kamikaze significa “vento divino” 2.
Ma se non può essere negato da nessuno che spesso la storia umana è stata flagellata da guerre di religione, dobbiamo anche riconoscere, con serietà, che non è infrequente il mascheramento, dietro al religioso, di interessi economici, del nazionalismo più sfrenato e violento o delle intolleranze di vario genere. C’è un fondamentalismo dei valori e ce n’è uno dei disvalori: non è neanche il caso di andare ad indagare in merito alla maggiore o minore pericolosità dell’uno e dell’altro, visto e considerato che entrambi fanno male. Fanno male al cuore dell’uomo, alle sue speranze e alla sua universale aspirazione alla felicità.
Rimane peraltro interessante la posizione di un’antropologa come Ida Magli, secondo la quale i conflitti religiosi hanno un nucleo di insanabilità in quanto le religioni sono in sé visioni assolute del mondo, ovvero Weltanshaungen totalizzanti. Solo che l’interrogativo sulla coincidenza o meno di fede e integralismo credo rimanga sostanzialmente aperto. Ci deve essere un modo di intendere la religione che non porti necessariamente allo scontro, che non faccia considerare come ineludibile una sorta di “destino umano di belligeranza” per la supremazia di un credo sull’altro.
Questa speranza mi pare ugualmente avvalorata da tre diverse voci del nostro tempo, cui credo utile fare qui almeno un breve cenno. Una è quella di Aldo Capitini, il quale – ed ecco che tornano particolarmente utili le riflessioni sul confronto Est-Ovest del mondo – suggerisce una religione aperta e per tutti, ma anche che «l’Occidente e l’Oriente possono arrivare, meglio che in passato, a sentire che l’autentico intimo di tutti gli esseri non è il loro io particolare, ma la realtà di tutti, la compresenza di tutti, vivi o morti» 3.
Poi c’è il messaggio di Martin Buber, lucidamente concentrato sulla sottolineatura del fatto che non c’è uomo dove non c’è dialogo, che non può cioè darsi vita se non a partire dalla relazione, una relazione che è tale a prescindere da ogni mediazione.
A partire da questa tematica, proprio per come essa è sviluppata da un intellettuale contemporaneo qual è Buber – il quale tra l’altro prende le mosse a sua volta dalla parte più propositiva del pensiero feuerbachiano –, tante sono le implicazioni che vanno tenute ben presenti, ma in questa sede non possono che essere accennate: si pensi alla posizione dell’Altro nella sua ricca diversità, alla stessa educazione nonviolenta, alla cultura della e per la pace…
Infine mi preme segnalare l’opera di Dramane Wagué, anche a giusta rappresentanza un po’ di tutti i preziosi operatori (ufficiali e non) nel difficile quanto appassionante campo dell’educazione interculturale: «La soluzione – dice Wagué a proposito del confronto tra culture diverse – non sta nella tolleranza che degenera in indifferenza, quanto piuttosto nel dialogo, e nell’interazione critica [...] in un progetto di integrazione in cui ognuno porti la propria cultura insieme alla capacità di mettersi in discussione» 4.
La pace, allora, può nascere, o meglio essere costruita attraverso l’apertura dell’io al tu, la relazione dialogica, l’interculturalità sincera e non di facciata.

giuseppe moscati

   
   
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