Dicembre 2004

L’icaro innocente (terza parte)

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Ernesto Barba
figlio del sole
Maurizio Nocera
 
 

 

 

 

Cominciai a
narrargli vecchie storie di folletti
e di sirene marine che ci aspettavano sugli arenili di Gallipoli per
danzare la
pizzica-pizzica, oppure a
volteggiare su e giù sui cornicioni della chiesa
di sant’Agata.

 

Ernesto scrisse anche di aver avuto «cura di non dire la verità vera», cioè che il Tibet era magico e che (avrebbe) vissuto l’esperienza dell’uomo tantrico: «Finalmente, dopo battaglie burocratiche con il Partito Comunista Tibetano, il Public Security Bureau e il Foreign Affairs Office, (Ernesto Barba fu) autorizzato a frequentare sia i corsi del Collegio Tantrico che la biblioteca di Sera, l’università-monastica… La logica buddista non (lo) elettrizzò, i 108 volumi del Kanjur e 225 trattati del Tanjur troppo da specialisti, da buon Dharma-bum (cercò) di mettere in pratica la frase d’Alan Watts: “Ogni religione è una tecnica per mettersi in contatto con l’Invisibile”. Così prese la consacrazione di Yamantaka per essere pronto al confronto cogli Archetipi. (Lo) aveva traumatizzato un verso di Borges che, rivolgendosi a Heine, (gli aveva chiesto): “Tu che hai cantato usignoli e pleniluni che starai facendo ora, faccia a faccia con gli Archetipi?”».

Ernesto fece poi un’affermazione importantissima per un europeo che andava sperimentando l’Himalaya. Che è questa: «Rubai come un volgare Gasparone da strada maestra quante più mantra mi fosse possibile. (Perché nel Tibet solo il brigantaggio spirituale ti fa progredire. Non c’è assistenzialismo a livello sottile). Poi, quando ne (ebbe) raccolte un pacchetto, da quelle a sei sillabe a quelle – segretissime – di cento (una persino di cento e otto) (si) accorse d’aver fatto un lavoro di robi-vecchi pulisci cantine perché, come Dada Vishevarananda (gli aveva detto), e lui di mantra sì che se ne intendeva: «Le Mantra del Mahayana sono completamente inutili e non possono applicarsi alla Kalì Yuga. Dopo tremila anni dalla nascita di Sakyamuni le Chakra hanno subito involuzioni tali che c’è bisogno d’altre mantra più forti, più dirette, vive per farti diventare vivente», e così mise in crisi tutto un sistema. (Ernesto), comunque, riuscì ugualmente a (farsi) dare l’iniziazione di Tara, e qui se non altro, forse, (fece) qualche passo avanti. (Entrò) in un paio di Mandala; come Figlio del Sole (gli) fu facile trovare il passaggio dalla porta dell’Est (che poi è a Sud). Gli unici testi sui quali veramente (si) applicò (Nagarjuna troppo moderato, Shantideva troppo beghino), oltre naturalmente al Bardo, furono Le invocazioni del nome di Manjusri, perché così volle il (suo) Geshè, il (suo) maestro (era l’incarnazione di Shewei, il discepolo favorito di Milarepa. Perfino Paris-Match lo conferma, come fai a dirgli di no?), i Tara-Tara del Primo Dalai Lama (il più bel libro letto nell’anno 1991... e Le Visioni del Grande Quinto. Queste fecero addirittura impazzire (Ernesto), erano il (suo) trip giusto, (lo) riportarono alle passioni della (sua) gioventù beatnik, quando sbarcato la prima volta a San Francisco, aspettando Miss Chinatown 1962, che era l’hostess della Pan Am e quindi sempre in ritardo, in un caffè di North Beach, mentre un folk-singer cantava: I cannot stopo to wonder / where I’m bound / where I’m bound, (lesse) per la prima volta Timothy Leary, (che) (lo ebbe qualche anno dopo come ospite in una residenza-forzata nell’albergo dove lavorava a Kabul...). Le Visioni del Quinto Dalai Lama hanno, secondo gli esegeti, sette livelli di letture. (Ernesto fu) capace, come un surfer aggarra l’onda buona, di aggarrarne solo tre e in questo (fu) aiutato dai commentari del Sesto Dalai Lama. Così lo conobbe... A Lhasa. (Egli) venne preso per mano (da) Tsangyang Gyatso, il Sesto Dalai Lama. Il Signore che fa? Ruota. Che siano nei tarocchi o nei cicli temporali le ruote girano e cambiano livelli anche se la materia è statica. Lhasa ha cambiato di livello. Il Potala, il Palazzo di Cherensig il Buddha patrono del TIbet, la fortezza imperiale dei Dalai Lama, che Tsangyan Gyatso bambino modellava con la creta dicendo «Questo è mio», è ora un bene culturale della Repubblica Popolare Cinese. Senza più il Genius Loci, il Potala serve solo a fare da sfondo alle foto ricordo e a dividere, messo così a fermacarte, i nuovi quartieri cinesi della città vecchia tibetana. Ma tutt’intorno al Potala, in quello che era il quartiere di Zhol, nel parco del Lhukang, così decadente e fatiscente, nel Lhinkor il percorso rituale che i pellegrini fanno prostrandosi ogni due metri. Lui è presente, anche se le ruote girano. Alto, bello, con un mantello allo stile del Buthan, conoscitore di segreti tantrici e di femmine, arciere, cavaliere, poeta da taverna, re degli amici, giocatore di dadi, suonatore di flauto, astrologo, dissoluto, patriota, martire ideologico, ballerino, tiratore di coltello, monaco sfratato, principe ereditario, asceta, pellegrino, innamorato pazzo, prigioniero politico, sciamano e dottore mirabilissimo in Scienze Sacre.

Oltre che essere la reincarnazione ufficiale, omologata di Cherensig, l’Avalokiteshvara sanscrito, il gran Bodhisattva della Compassione con tutti i 32 segni nel corpo attestanti la ierofania della sua essenza divina.
Inclusa l’assenza di prepuzio. Personaggio indubbiamente affascinante per la galleria, ma che per (Ernesto) è semplicemente conturbante, quintessenza così com’è di tutte le propensità-propensioni (in sanskrito: Samskara) che Karmicamente condizionano (lo stesso Ernesto), fino al giorno che il Guru vorrà (liberarlo) con la sua Grazia. Grande maestro il Sesto Dalai Lama, morto giovane o forse mai morto (chi ha sei tombe vuol dire che ne ha ancora una di vita vivente. il che (fa venire in mente ad Ernesto) di dire: “Bella mia, se ti dicono ch’io sono morto, assolutamente non crederci e continua ad aspettare al Cafè India”...
E quando la domenica (Ernesto) andava al tempio del Lhukang, accoccolato in mezzo ai bambini ad imparare come loro a fare l’Abc tibetano sulla plancia di legno che serve da lavagnetta e cercava di flirtacchiare con le (loro) mamme più carine, non si sa mai, (gli) sembrava d’essere a casa d’un amico emigrato (Quello non scrive mai. Chissà dove sarà ora: in Svizzera? In California?). Lì nel tempio-pagoda che lui volle costruito per usarlo come alcova – giù nel laghetto le melodie delle melusine all’ultimo piano la sala coi disegni tantrici – là dove misurava, come su un pallottoliere prezioso e magico, carezzando le dolcitudini della carne (ah la pelle segreta delle tibetane da confettarti le dita), l’eternità di spazi che incorre tra una galassia e l’altra. Poi venne l’estate e arrivarono i turisti...
Un’altra volta (Ernesto) portò una vip bionda addirittura al Lhukang (guarda com’era vip perché lui odiava contaminare la Tibetaneria con il banale della nostra borghesia) per raccontarle – son et lumiere – tutto il cunto. Ma qui la memoria (ad Ernesto) diventa confusa... e non ricorda più se portasse il montgomery come quel pomeriggio che alla città universitaria, mentre lei (gli) diceva una poesia di Pavese... le (rubò), facendo finta di niente, il primo bacio.
Allora, siccome la storia del Sesto Dalai Lama e le poesie di Tsangyang Gyatso sembrano avere tanto successo e siccome le conoscono solo gli addetti ai lavori (Supponenti e baroni. Alla larga!) (Ernesto) pensò di presentarle nel (suo) italiano d’italiano all’estero e portarle in regalo di Natale, Souvenir du Tibet, agli amici, a quelli rossi veraci (oltre naturalmente alla Vip bionda), proprio (in quel momento in cui) stava per tornare a casa e incontrarli di nuovo (la gioia... che un uomo senza amici è una fiala d’amaro)».

Sul finire dell’anno 1992, Ernesto Barba fece definitivamente la scelta di abbandonare il Tibet. Un po’ rammaricato, mi scrisse: «Addio Lhasa bella mia, sempre sorridente come una tigretta conosciuta nelle balere-disco dietro lo Shambala Restaurant, piene di ufficialesse dell’Esercito Popolare ed agenti della polizia segreta. Addio Lhasa, sventola le tue bandiere d’orazione, gira i tuoi mulini di preghiera, io emigro in patria. Un bacio e addio Lhasa anche se tu non baci mai proprio come una Kampa incoronata di turchesi nelle sue centotto treccine. Addio Lhasa, anzi come abbiamo imparato a dire qui, con l’accento tonico sbagliato, Ka-li-sho».
Ernesto ripartì «senza aver potuto incontrare... il Sesto Dalai Lama, ma non fa niente, (stava) scritto (che doveva andare così). Un giorno, lo (sa), lo incontrerà. Lo incontrerà là dove i meridiani e i paralleli della (sua) vita si legano a doppio nodo d’amore: sugli spalti di Saint-Malo, a Buyukl Ada, sul tardi quando Istanbul comincia a luccicare lontana, a Rue Jacob verso settembre a Parigi, nella lobby del “Peninsula” a Hong Kong, dalle parti (nostre) a Sud di Lecce nel Salento griko, al “City Lights” di San Francisco una sera piena di foschia, in una spiaggia naturista di Sylt, sulla strada di Compostella, in una libreria antiquaria della Kanda a Tokyo, a Bombay all’isolotto d’Haji Joseph a bassa marea, in una taverna di Costanza piena di zingari borsari neri contrabbandieri riffi-raffe zigano e marinai greci turchi slavoni, che cantano ciocchi in lingua loro, d’inverno inverno nella pineta d’Eraclea Minoa, sulla Koeningsallee a Dusseldorf, a Shimandin passata la ferrovia Tamsui-Taipei dove i templi sincretisti stanno affianco i love-hotel e le saune clandestine, al caffè Tomaselli di Salisburgo, sul ponte delle scimmie a Rishi-kash, nella vecchia sinagoga del Cairo, in un museo di Monaco passato l’Isar, nel bar dell’Hotel des Indes, all’Aja, in un ristorante libanese molto elegante (la scelta dei dessert d’una dissolutezza da harem), sul battello Okinawa-Kagoshima mentre coquettes le isole fanno lo struscio, a Mohejandaro una sera di plenilunio, da qualche parte nei Pirenei tra Biarritz e Luchon, al cimitero degli yogi del Monte Kailash (Ernesto lasciò lì per pegno la “sua” bandana di vecchio hippy), al Cafè de las Chinitas (non importa se a Madrid o Malaga), a Tananarive alta dietro la chiesa anglicana dove nessuno ci va perché pieno di fantasmi, a Freaks Street a Katmandu, alle sorgenti del Ciane, al raduno degli ex-allievi nel cortile piccolo della Nunziatella, nel parco di Sauvabelin a Losanna, a un diner chez Madame de Brosses. Ma forse niente di tutto questo. (Ernesto) incontrerà (il suo Sesto Dalai Lama) in un posto che ancora non (conosce), nascosto nei vicoli del (suo) Karma. (Ernesto) non (sa) dove, se solo o con Lei, (sa) solo che l’incontrerà. Come tanti anni fa, (incontrò) l’Olandese Volante in una bottega ad Amsterdam, il Mahdi in un bazar di Kabul e nel ‘77, in una prigione di Patna (Bihar) (incontrò) il Guru».

A caso, scelgo i versi del Sesto Dalai Lama tradotti da Ernesto, ma so già che questi sono i più belli, sono i versi che piacevano a lui Marra-Barba, sfortunato/disperato giocoliere di nuvole dorate; che piacevano al mio amico Antonio Verri, anche lui sfortunato/disperato e abbattuto sull’antica via Malemnia Lecce-Cavallino da una vecchia civetta malridotta eppure cornuta; che piacciono pure a me, sfortunato/disperato vecchio rimbambito giocatore attarantato che finge di non vedere la gatta sorniona che aspetta sul davanzale di sopra. Ernesto Barba dunque traduttore. Traduttore di cose divine (Verri avrebbe poi precisato: di-vini). Ecco il testo:

«Profumava dolce dolce la bella che incontrammo in viaggio. Un turchese bianco senza valore, che trovammo e poi gettammo. / I pensieri trascinati lontano, le notti così senza sonno. Senza lei, la fatica e la pena e i giorni senza ritorno. / Passata la stagione dei fiori e l’ape turchese è serena. Il nostro amore è passato ma nessuna tristezza mi aspetta. / Innamorato del lago il cigno voleva restare. Ma quando il ghiaccio venne a lui non restò che volare. / Continua la polena del traghetto a guardare indietro il guado. La bella mia – ingratitudine dispetto – neanche mi dà uno sguardo. / Parole d’amore in inchiostro blu, distrutte da una goccia di pioggia. Ma anche non scritto l’amore non lo cancelli dalla memoria. / Se la bella mia abbracciasse la via, la via del Dharma, in montagna mi ritirerei in giovinezza eremita. / Se avessi vissuto per il Dharma invece di pensare a quello che penso, fratello io sarei andato oltre in questa stessa vita già. / Tavernella delle donzelle belle, denti bianchi e luccichìo lei mi scintillò un sorriso, l’amore in un batter d’occhio. / Completamente innamorato, le chiesi “Vieni – resta da me”. “Verrei – lei disse – solo se la morte ci separerà”. / Seguo i suoi desideri profondi e perdo per sempre la via. Ma se mi allontano dal mondo spezzo il cuore alla bella mia. / Io povero cacciatore catturai Yitrog, la Fata d’incanti. Venne Norzang, il Signore dei morti, e me la soffiò via. / Si sono rubata la bella mia e un altro l’ha sposata. Pieno di pensieri neri che m’hanno disseccato il corpo. / Bisogna che lei viva in eterno, che l’hashish non sia mai spento. Con lei, mia tana sicura, mi sento felice e contento. / Ma ha avuto una mamma vera o è nata da un albero di pesche? L’amore che sembra darti davvero sfiorisce come un pesco in fiore./ E’ la bella mia a letto veramente cugina del lupo? La lupa viene a gozzare la carne e poi allupata alla monta. / Mai trottare a cavallo sul lago gelato. Mai svelare un segreto a un amore appena trovato. / La luna alla sua terza notte è tutta luce e brillìo. Me lo devi promettere pleniluna ti voglio io. / Tigri, molossi, leopardi, dài da mangiare e si quietano. Ma pure saziata la bella mia diventa più feroce, coi capelli al vento. / Scrivo numeri sulla sabbia e trovo l’altezza delle galassie, carezzo il suo corpo dolcissimo dolce e non so giù giù nel profondo che sente. / Sa bene il pappagallo parlante a non dar via il segreto. A Lhasa ce ne sono tante, ma a Chunghay son tutte belle. / Nevicava forte sul tardi quando andai dall’amante mia. All’alba il segreto è violato, le mie impronte lì sulla neve. / Quando abito al Potala, al palazzo mi chiamano “Oceano di melodia divina”. Quando scendo a Lhasa o a Shol sono “Strappafemmine e Bello Potente”. / Le mie impronte lì sulla neve. Segreti, non segreti, finito. Io a letto con la bella mia, il cuore di conchiglia bianca e il corpo dolcissimo dolce. / Ha fatto segno la freccia e la punta si conficcò nel terreno, quando incontrai la bella mia il mio cuore la seguì in un baleno. / Quello che la gente dice di me, ahimè è tutto vero. Il signorino pulito e bello a passi leggeri andò nella taverna-bordello».

Nell’ultimo pacco che mi giunse da Lhasa, Ernesto c’aveva messo anche una lettera. Dopo alcuni anni, attraverso i suoi scritti, provenienti dal lontano Tibet, mi sembrò di conoscere e di vivere quegli altissimi luoghi. In essa c’era scritto: «Caro Maurizio, ho finito con Lhasa e il Tibet. Triste lasciare un posto così (e con femmine così), ma due anni a meno zero sono tanti. Resterò un mesetto tra Taipei e Pechino per regolare degli affari futuri. Penso di tornare in Italia sotto Natale (1992) perché a gennaio comincio a lavorare per una compagnia italiana che si occupa di marketing turistico. Sarò di base a Livorno, ma in pratica sarò sempre in giro. Dopo due anni di sedentario è bene riprendere, magari per l’ultima volta, a girare. Ti mando, con tantissimi auguri e tantissimo affetto, un biglietto che mi sono divertito a fare specialmente per gli amici (e anche se non ci vediamo tu sei nei top ten) nel tremendo inverno tibetano, mentre preparavo il mio master in Storia delle religioni (sono l’unico direttore di hotel al mondo Dottore in Buddismo Tantrico!). Non ha nessunissima pretesa e spero ti piacerà. Dunque tantissimi cari auguri, caro Maurizio, e la speranza, prima o poi, di ritrovarci nel Salento magico».

Dopo quest’ultima lettera, continuai a cercare Ernesto con ogni mezzo, ma molti dei miei messaggi cominciarono a ritornare al mittente perché il committente non risultava trovarsi nei posti indicati.
Una sera, ma forse era già notte, mi vedi Ernesto comparire a Lecce, scuro di sole come il Malladrone di Gallipoli. Con lui c’era Franco Pisanello, il suo amico dello “Sheraton-Nicolaus” di Bari. In fretta, decidemmo di andare a farci una pizza e a quell’ora tarda trovammo aperta una pizzeria dalle parti di San Lazzaro. Quella fu una notte che non finì mai, o meglio cominciò a finire, allorquando sugli occhi di ognuno di noi non cominciò a scendere un velo di sonno.
Insistetti molto perché Ernesto col suo amico si fermassero a Lecce, per avere giusto il tempo di avvisare Antonio Verri e combinare, per il giorno successivo (ma era già giorno successivo), una qualsiasi situazione che ci permettesse di stare insieme ancora un po’. Avevo percepito nelle parole (tante tantissime parole che non finivano mai) di Ernesto un’eco lontana di nostalgia, un perdersi nei flutti di un oceano nuovo che non riuscivo a capire fino in fondo, una sofferenza ancestrale, un attorcigliamento da serpente su un tempo e su un corpo ancora giovane e forte che sonnambulisciava nelle notti misteriose eppure magiche di bassi-bordelli soletani. Sentii il suo respiro di “bambino” imbronciato che a tutti i costi voleva fuggire verso il suo sospirato Pineto (gallipolino), che per lui non era «una pineta (qualsiasi), (magari) come quella che sta in fondo dietro lo stabilimento del vino, ma un bosco grande grande che comincia dalla spiaggia, dal mare e ci sono pure i canali del rimboschimento contro la malaria», verso quel suo segreto ritrovo, che anch’esso ora stanco e violato se ne andava morendo dolcemente verso la Punta del Pizzu. Sentii ancora lo sguardo di Ernesto fissarmi di nascosto e percepii anch’io, sul mio stesso corpo, il dolore tremendo che circondava l’aura del mio amico in balìa ora di un oceano in tempesta.
Quella sera, ma forse era già notte, non faceva freddo. Lo ricordo benissimo. Io ed Ernesto non eravamo a Gallipoli, ma a Lecce, dalle parti del quartiere Ferrovia. Ricordo bene quei momenti, perché disperatamente mi aggrappai a lui nel tentativo di fermarlo, distoglierlo dai pensieri di quella sua tremenda storia atavica degli inizi del ‘900. Lo ricordo bene, perché cominciai a narrargli vecchie storie di folletti e di sirene marine che ci aspettavano sugli arenili di Gallipoli per danzare la pizzica-pizzica, oppure a volteggiare su e giù sui cornicioni della chiesa di sant’Agata nella speranza di fargli intravedere sorrisi ancora possibili, sogni ancora realizzabili, fughe ancora nella notte, rituali con i fiori. Lo ricordo ancora bene perché cominciai a sussurrare ad Ernesto che avevo scoperto sotto le mura di Gallipoli, dalle parti della Riviera di Ponente, dei nascondigli profondi con all’interno tesori inestimabili, lasciati lì dai veneziani in fuga nel 1486. Lo ricordo ancora bene, perché feci il tentativo di distoglierlo dai suoi propositi, raccontandogli che dalle parti di Badisco, soprattutto nel periodo estivo, sapevo come fare per raggiungere la tana di una dolcissima femmina bionda, giovane, europea, dal portamento di vip, che io però sapevo assunto solo per far arrabbiare le altre femmine, venuta lì apposta per noi. Lo ricordo ancora bene. Eccome se lo ricordo.
Quella sera, ma forse era già notte, chiaramente una notte d’estate, vidi Ernesto allontanarsi con uno sguardo di morte, lo vidi volare, come un angelo, al di là di Santa Croce, al di là di San Matteo e pure dei Santi Giacomo e Filippo. Vidi Ernesto volare al di là di Giurdignano, al di sopra della Guglia degli Orsini del Balzo di Soleto, e lo vidi volare anche oltre gli spalti del castello di Carpignano Salentino.
Dalle parti del Camposanto di Gallipoli, lo vidi per un po’ indugiare sui marmi di alcune tombe che luccicavano di storia patria. Poi lo vidi attraversare foreste di luce, luoghi divini, eppure magici. Volava veloce Ernesto, sulla bianca biga alata nel cielo, al di sopra dell’Himalaya, al di là della Montagna Spaccata. Volava ma non rideva, Ernesto volava via da un Salento abbagliante, tanto amato eppure tanto negato. Un’ultima volta, vidi Ernesto-San Giuseppe da Copertino volare lontano. Sempre più lontano e sempre più in alto. Anche Ernesto Barba volava via. Per sempre.

Ernesto Barba decise allora di farmi perdere definitivamente le sue tracce. Dopo avermi lasciato un tesoro immenso qual era la sua poesia (fra cui molti inediti), decise di occultarsi definitivamente ai miei occhi. Per questo, agli inizi del 1994, allorquando Antonio Verri se n’era già andato via per sempre, cominciai con dolore e sofferenza a lavorare all’introduzione per una sua nuova raccolta di liriche, non dimenticando la sua volontà di firmarlo, lui in vita, solo col suo pseudonimo: Francesco Marra. Di tanto in tanto mi venne recapitata ancora qualche sua cartolina e qualche lettera, ma sempre senza l’indirizzo del mittente.
I luoghi da cui provenivano queste missive erano sempre più disparati. Il 28 aprile 1994 ricevetti da lui l’ultimo bustone, con tante nuove storie e, sia pure per un attimo, mi sembrò di sentire una sua nuova gioia di vita. Fra le tante cose c’erano anche questi versi: «Emigrante a Levante // Non mi ha voluto bene / Non mi vuole bene / Non mi può volere bene / Non mi vorrà mai bene. // E perché dovrebbe amarmi / la Gran Madre Mediterranea? / Mai la pregai / Mai la cercai / Devozione, desiderio mai. // Io volevo la Sciamanna / non la mamma. // Nato nelle sciabiche d’Ulisse / senza neanche dirle “vado” / mollai tutto / alla scoperta / dell’isola di Ma-Tzu / dell’Isola di Kwa-Yin / dell’Isola dei Bodhisattva / sull’onde, / passato Suez, / di Simbdad il Turco. // Ondate alte così / Male tempo e tempesta / bonacce in secca. // Poi la trovai / Tara / e la ritrovai: Madre, Sciamanna, Korè».

E questi: «Terza età // Maurizio, / camminando a zonzo / ho scoperto / dietro il lago Imperiale / il Parco dei Vecchi di Pechino. // Chi giocava alle carte / chi giocava agli scacchi / chi suonava la mandola / chi una specie di violino. // C’era uno che portava / i cardellini a spasso / e un altro invece il nipotino. / Un’allegria, un chiasso... / Nessuno a pisolare / nessuno che leggeva un libro, un giornale. / Tutti a fumare / tutti a canticchiare / tutti a raccontare storie. / Ti dico io un casino. // Maurizio / vecchio mio / guarda che cosa ho imparato in Oriente / guarda che cosa ho scoperto a Pechino / forse diventare vecchi / è meglio che essere bambino».
E questi: «Semi-biografia // Quand’ero giovane / mi feci fare un tatuaggio / qui a sinistra sul braccio / (per sfida? per mostra? per segno?) / una rosa rossa / e al centro uncinata / bella / la croce swastika. // Che giovinezza vastasa la mia / senza mai dormire la notte / cosa mai sarò andato cercando / nelle notti del Mittelleuropa / in bocca alla fame e al freddo? / Vampiri, streghe, monatti / metropolis piene d’archetipi / archetipi corrotti e sfatti. // Incroci tra diavoli e yaksa a Londra / l’Olandese Volante / nei porti d’Olanda e di Fiandra / al Nord e ancora più al Nord / Walkirie sperdute / femmine col sesso mieloso / e coi capelli bianchi. // E in fondo alle notti / giù giù come un sasso / i bordelli di Napoli, Cadice / Istanbul-Uskudar e Patrasso. // Ti dico io... / fortuna che gli anni passano / e io li passai qui in Asia. // Ora / (né sfide né mostra / per segno) / lo rifarei lo stesso / il mio tatuaggio: / ma un loto / non una rosa. // La swastika la lascerei / gli anni passano, Ernesto / ma io / sempre figlio del sole / io resto».
Ernesto Barba, l’amico mio sfortunato /disperato del Pineto gallipolitano, era morto in una stanza di un albergo a Livorno, il giorno prima che mi venisse recapitata la sua ultima busta. Era il 27 aprile 1994, cioè appena un anno dopo che se n’era volato via per sempre anche Antonio Verri.

(3 - Fine. Le precedenti puntate su “Apulia”
n. II/giugno e III/settembre 2004)

   
   
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