Dicembre 2004

La biblioteca di Casole

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Il mondo
come un racconto
Antonio Errico
 
 

 

 

 

E allora noi siamo della stessa
materia di cui sono fatte le
nostre storie, e per noi stessi e per gli altri siamo quello che in qualche
maniera riusciamo a raccontare.

 

Se in principio fu il Verbo, una parola universale, allora tutto cominciò con un racconto. Quando Egli disse sia fatta la luce e sia fatto il buio, quando fece le stelle e il sole e la luna, creò tutto dal nulla come dal nulla si crea tutto in un racconto.
La meraviglia, lo stupore, cominciarono da lì; le verità e i misteri del cielo e della terra si generarono in quell’istante dell’eternità, dopo una parola pronunciata in chissà quale lingua, forse nella lingua della memoria senza tempo, della finitudine e dell’infinito, quella in cui parlano le cose mute, uno sguardo d’addio o un battito di cuore, quella lingua senza parole della natura e dell’emozione, di una dimensione profonda, abissale, che forse nessuna ragione e nessuna sapienza riuscirà mai a scandagliare.
L’uomo e la scienza hanno compreso molte cose. Altre restano incomprese tuttora. Resteranno così per sempre, probabilmente.
Dice Mustafà al figlio Simba nella notte blu della Savana di cartone nel “Re Leone” della Disney: lascia che ti dica una cosa che mio padre disse a me: guarda le stelle, i grandi re del passato ci guardano da quelle stelle. Perciò quando ti senti solo ricordati che quei re saranno sempre lì per guidarti. Così dice il Re Leone.
Forse sono quelle stelle che racchiudono i racconti essenziali che permettono a ciascuno di essere nel proprio tempo con la coscienza di un’origine e una speranza ansiosa di eternità.

Stelle come racconti o racconti come stelle lumescenti che guidano per le strade della notte, quando nessun altro segno indica la direzione da seguire, quando nessun’altra luce dà conforto del sentiero, quando il certo e l’incerto aggrovigliano i pensieri, quando uno si distrae al bivio e la rotta si confonde.
Stelle e racconti di marinai. Stelle e racconti di viandanti. Stelle e racconti di re magi. Racconti e stelle dell’insonnia di uomini, di donne, di bambini. Simboli inafferrabili, rappresentazioni dell’irrappresentabile, sineddoche del cosmo, desiderio inappagabile di arrivare al cielo, di capire, di carpire all’universo i suoi segreti. Oppure più semplicemente (apparentemente più semplicemente) un tentativo di scendere dentro la propria storia, nella propria vita, per rintracciare il senso primordiale, la radice originaria, il lievito essenziale, per poi dire tutto questo, raccontare a qualcuno (o sempre a se stesso) tutto questo, o dire che tutto questo non si può dire, raccontare che non si può raccontare, che resiste ad ogni assalto di metafora, a qualsiasi seduzione di narrazione. Perché le parole sono solo fiato, sono solo vapore, perché le parole, come dice Eliot, si fendono, si spezzano sotto il peso, per la tensione, incespicano, scivolano, si guastano, marciscono, non vogliono stare a posto, non vogliono stare ferme, non riescono a rappresentare la trama sempre più complessa, sempre più intricata di passato, presente, futuro, ragioni e sentimenti, sogni ed emozioni.
Le storie a cui apparteniamo e che ci appartengono, le loro trame e i loro intrecci, sono gli elementi che costruiscono la nostra identità e che ci mettono in relazione con le storie e le identità di tutte le esistenze che popolano il nostro mondo, la nostra vita, che ci accompagnano lungo le strade conosciute e lungo quelle sconosciute.
E allora noi siamo della stessa materia di cui sono fatte le nostre storie, e per noi stessi e per gli altri siamo quello che in qualche maniera riusciamo a raccontare.
La grazia – indefinibile, a volte – di una scrittura è data dalla forma che l’avvolge; anche la disgrazia di una scrittura può essere causata dalla stessa forma. E’ una sorta di destino che si impossessa della scrittura quando essa vuole farsi espressione d’arte, quando pretende di tentare gli argini frananti della perfezione.
La forma non è mai solo costrutto, non è mai solo ornamento, solo maniera, riverbero di luce che s’infiltra tra gli oggetti di una soffitta penombrosa.
Non questo, no. La forma è beatitudine ed è dannazione, allo stesso tempo, in tempi differenti. Talvolta si posa leggera sulla carta bianca quasi stessa cosa dell’ombra della mano; talvolta invece costringe a provare e riprovare, è l’ossessione di una sillaba che non s’incatena, di un verso che non quadra, del giro di una frase che non si annoda bene con quella scritta prima, del ritmo che non viene come una perfetta pulsazione. La forma appartiene alla indispensabile condizione della ricerca, della sperimentazione, ma anche a quella – forse altrettanto indispensabile – del caso.
La forma è il modo con cui il linguaggio si realizza nella sua compiutezza. E il linguaggio tenta, con quella disperazione che è propria di ogni condizione simbolica che vuole stringere il dicibile e l’indicibile del mondo, di ricomporre in unità la disgregazione di significati o la loro babelica confusione, di restituire alla parola la pregnanza di senso di cui è stata deprivata per uso improprio o per abuso.
Così la forma diventa sostanza: materia con cui costruire universi di possibile riferimento, sistema organico e organizzato, coerente e coeso entro i limiti del quale e sullo specchio del quale misurare e confrontare le forme spesso disorganiche, incoerenti e scomposte dell’esperienza dell’essere, dell’esistere, del comprendere, dell’ignorare.
Il contrario della forma consiste nell’informe. E l’artista si oppone all’informe anche a costo del parossismo, dell’ossessione, della follia di soffiare nella creta un alito di vita, come fosse Dio.
C’è un’opera di Pirandello che esprime l’esplosione di questa condizione mentale, esistenziale, poetica, etica, innaturale (ma l’arte non è natura: è proiezione, mimesi, distruzione e ricreazione della natura): “Diana e la Tuda”. Per rendere irripetibili le forme di una statua di Diana a cui sta lavorando, Sirio Dossi costringe la modella Tuda all’immobilità della posa, per ore e ore. Perché una forma di pietra deve nutrirsi di vita concreta: respiro, voce, angoscia, sudore, amore soffocato. Per impedire questa mortificazione della carne e del pensiero di Tuda, il vecchio scultore Nono Giuncano in un istante di cieca follia uccide Sirio.
Il dualismo di vita e forma, il contrasto tra la bellezza della natura e l’arte che pretende di impossessarsene per fare in modo che quella bellezza non muoia mai, si manifesta nei suoi aspetti tragici, paradossali, folli.


La scrittura è la stralucenza di uno specchio o è l’opacità di una rifrazione? E’ acqua di fonte limpida che riflette l’illusione di un Narciso o è il ristagno di una pozzanghera, uno scorrere torbido che rimanda immagini confuse di un sé e di un altro da sé che si contrastano, che combattono per conquistarsi un’identità, anche se provvisoria, incerta, indefinita?
E il racconto è l’unica realtà possibile, la sola testimonianza certa di un esistere, oppure è la maschera per la messinscena di una commedia tragica, una costante finzione, la moltiplicazione di tutte le possibili finzioni?
E poi: il soggetto che scrive, che narra, è l’anonimo copista che trascrive i codici di quella realtà o di quella finzione oppure è lo spavaldo giocatore che azzarda una rappresentazione del mondo con carte truccate? E ancora: oppure il trucco sta tutto nel mondo che pensiamo come concreta esistenza mentre esistono solamente rappresentazioni di esso che, in quanto rappresentazioni, sono una mistione di realtà e di finzione, di verità e di menzogna?

Tutto quello che accade, tutto quello che viene e che va, gli amori, i dolori, i ricordi e i colori delle stagioni, tutte le ansie del futuro e i resoconti dei sogni e delle azioni, si caricano di un senso nuovo solo se si trasformano in scrittura, in un universo generato da un caos di parole, in un racconto di esperienza e di avventura, di viaggi, di occasioni, di emozioni, di fughe, diserzioni, di ritorni. Perché nella scrittura tutto – o quasi tutto – ritorna: come un’ombra sul cuore, come una visione del sogno, come riflessione del pensiero, fantasma del tempo. Le parole si riprendono i giorni perduti, disorientano il caso, contaminano, falsificano, richiamano, seducono, illudono, strabiliano, affatturano. Raccontano verità irrilevanti e inutili, fantastiche finzioni e indispensabili menzogne che forse aiutano a salvarsi la vita. Oppure si estraniano, si separano dal mondo, seguono percorsi della mente che portano al deragliamento del pensiero, sono attratte dai labirinti della vita, dal groviglio delle passioni, dalle profondità della memoria, dalle zone d’ombra della storia.
Forse il motivo delle storie che corrono in ogni narrazione, forse il motivo dell’ansia che hanno dentro, tutte le continue domande che si portano dietro, forse, in fondo, vengono tutte da una sola ragione, da una pacata ossessione, da una passione per lo svelamento degli innumerevoli volti che la vita nasconde.
Un giorno o l’altro arriva sempre il tempo di fare i conti con la propria vita. A quattr’occhi. Senza finzioni. Senza mediazioni. Ad armi pari. Evitarlo è difficile, forse impossibile. Per chiunque. Chi ha una vita impastata di scrittura un giorno o l’altro si ritrova a fare il conto attraverso le parole, la scrittura. Quel giorno, a quel punto, le parole devono essere assolute, definitive, essenziali. Quelle parole che sono state favola e mestiere, sofferenza e fascinazione, a quel punto diventano il macigno di una confessione, inequivocabili come carta di notaio, precise come testamento.
La narrazione ha sempre lo sguardo rivolto all’indietro. E’ un ritorno all’esperienza che il tempo ha macinato e trasformato in conoscenza, in sapienza forse. E la conoscenza, o la sapienza, possono portare a due cose, solo a due cose: al silenzio o al racconto.
Il percorso non è mai orizzontale; è verticale, interiore, discende, scava, sprofonda.
La narrazione riavvolge l’esistenza, riporta all’origine ma non ripropone l’origine. Piuttosto la ricostruisce, la riconfigura. Il motivo o il movente del raccontare è tutto nel tentativo di coprire una distanza di tempo e di spazio, di gettare un ponte tra sé e il mondo, tra interno ed esterno, tra la propria storia e quella degli altri, di ricongiungere esistenze, di maturare coscienze dei fatti, degli accadimenti, delle storie che si ripetono, dei destini che si diramano, di ricomporre le fratture, rendere meno laceranti le lontananze. La memoria si sgomitola nel racconto con una modalità discontinua, frammentaria, perché discontinuo e frammentario è il flusso di coscienza.
Non c’è – non ci può essere mai, forse – una coincidenza del tempo della memoria e del tempo del racconto, perché il racconto si costituisce come riflesso, come indagine su quegli oggetti e su quei soggetti che emergono dal fondo, ritornano e domandano di essere detti, esposti, messi in scena da una identità narrante che li ritrova, li riconosce e li ricrea.
In questo processo, il pensiero memorante seleziona, rielabora, distingue la materia da destinare alla narrazione in base alla significatività emozionale degli eventi. Si chiede quali siano state le creature e le cose rimaste sulla pelle, nella mente, come una ferita, chi e cosa abbia dato una direzione diversa alla vita che poi volente o nolente uno ha dovuto seguire, si chiede chi o cosa lo porta qui, ora, a narrare.
Queste sono le domande. Mancano le risposte. Perché le risposte le custodisce tutte il grande libro dell’Eterno Narratore che scrive istante per istante le storie di ogni vita.
Noi facciamo solo il lavoro dello scriba.

   
   
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