Dicembre 2004

Il lungo studio e il grande amore di croce per Giosue Carducci

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“Il poeta
della mia giovinezza”
Nicola Carducci
 
 

 

 

 

“Solo uno spiegò in quel tempo ali d’aquila, e traeva dietro a sé noi
giovani, e non fu un pensatore, ma un poeta, Giosue Carducci, che, sorto al confine
di due età, accolse l’intimo spirito dell’una e lo
trasfuse e fece
vivere in seno
all’altra”.

 

«Il poeta della mia giovinezza»: così Benedetto Croce ricorderà, nel suo lungo studio e grande amore durato una vita, l’autore delle Rime nuove e delle Odi barbare. Aveva infatti, studentello ginnasial-liceale, cominciato a leggere e a mandare a memoria non soltanto sue liriche ma anche alcune sulfuree Confessioni e battaglie e Ceneri e faville, esaltandosi anch’egli nel “furore” del polemista, più avanti, tra le conversazioni con i cugini Spaventa e le lezioni di Antonio Labriola.
Sono gli anni della prima ancora acerba incubazione del critico; ne scrive così, nel Contributo alla critica di me stesso: «Lessi e rilessi in quel tempo i volumi del De Sanctis e del Carducci; ma, se dal De Sanctis appresi alcune idee direttive del giudizio letterario, poco allora mi fermò la sua temperata e squisita disposizione morale, e più invece mi attrassero gli atteggiamenti violenti e battaglieri del Carducci». L’entusiasmo giovanile per il poeta e per il polemista gli impedisce, per ora, di accostarsi toto corde al maestro irpino, del quale fra qualche anno sarà editore (1897) e in difesa del quale, con perfetta cognizione di causa, non arretrerà nello scontro, metodologico ed estetico, col maestro di Bologna.
E’ che il giovanissimo Croce, per la sua inclinazione agli studi, deve più al Carducci che al De Sanctis. Non gli era sfuggito l’appello carducciano ai «giovani volenterosi» del 1874: «Entrate nelle biblioteche e negli archivi d’Italia; sentirete come quell’aria e quella solitudine siano sane e piene di visioni da quanto l’aria e l’orror sacro delle foreste»; e il Croce: «E noi entravamo palpitanti in quei vecchi depositi di carte, in quegli antichi palazzi principeschi o ex-conventi tappezzati di libri, di codici e di filze» 3. Non meno gli risuonavano nella mente e nel cuore le parole che il Carducci rivolse ai suoi scolari, in occasione del primo giubileo del suo magistero, nel 1896: «Della parte della mia vita spesa con voi non ho da pentirmi, non ho da farmi rimprovero, se non qualche volta di troppa passione, ma non mai di cosa che fosse contro la purità della vostra mente e del vostro cuore […]. Io ho voluto ispirar me e innalzare voi sempre a questo concetto: di anteporre sempre nella vita, spogliando i vecchi abiti di una società guasta, l’essere al parere, il dovere al piacere, di mirare alto nell’arte, dico, anzi alla semplicità che all’artifizio, anzi alla grazia che alla maniera, anzi alla forza che alla pompa, anzi alla verità ed alla giustizia che alla gloria».


Dalle “Memorie di un critico”

Il terreno del primo incontro, anche affettivo, tra Croce e Carducci è quello della erudizione, e si svolge epistolarmente. Il giovane studioso napoletano aveva appena vent’anni ma le sue ricerche erudite sui teatri partenopei avevano già varcato i confini della provincia: «Fu per me – rievoca nelle sue Memorie di un critico – un giorno memorando (si era nel 1887) quello che mi portò una cartolina in cui il Carducci, di suo pugno, con la larga e slanciata sua scrittura, il Carducci, al quale erano venuti sott’occhio certi miei scrittarelli di storia napoletana, si rivolgeva a me per pormi quesiti e chiedermi notizie […]. Negli anni seguenti, egli continuò ad adoperarmi di tanto in tanto a questi piccoli servizi, e a lodarmi per le mie fatiche erudite, che gli inviavo in devoto omaggio». Quando poi uscì l’Estetica nel 1902, e il Croce gliene inviò copia, fu grande la sua sorpresa nel constatare che l’arcigno e scostante maestro della critica storica plaudiva al suo autore, riconoscendone la decisiva importanza.
Ricorda in proposito Croce: «E chi poteva immaginare che il Carducci avrebbe finito col riverire l’Estetica, quell’Estetica alla quale aveva un tempo rivolto tanti sfregi e ingiurie? Eppure, quando io ebbi pubblicato l’Estetica, egli, già infermo, già costretto a contentarsi di poche righe di lettura e di lavoro, mi scriveva, il 26 luglio 1902: “Importante mi pare il suo libro delle relazioni dei napoletani col primo risorgimento italiano. L’altro libro di Estetica mi è una rivelazione ed una guida”». Non diremmo che gli sia stata proprio “una guida”, quanto, invece, senz’altro “una rivelazione”; troppo radicato nel suo abito mentale il metodo storico, che lo stesso Croce gli riconoscerà, implicitamente, nel suo primo tentativo di definizione critica quale «poeta della storia».
A interessare vivamente il vecchio professore bolognese era il Croce erudito, tanto da volerlo avere «componente della nuova società che sosteneva la ristampa dei Rerum italicarum scriptores», poco dopo compiacendosi con lui e ringraziandolo dell’“aiuto” ottenutone.

Da un cruccio, tuttavia, Croce non riesce a liberarsi, a conferma di quanto poco l’Estetica abbia potuto servire, perché il Carducci stemperasse l’acre antipatia per il De Sanctis, che gli stava a cuore, come teorico dell’arte (e ne aveva ampiamente risentito l’Estetica) non meno del poeta della sua giovinezza. Cruccio che, ad posteros, si adopera a dileguare nella coscienza nazionale, al termine del suo lungo cammino di elaborazione teorica dell’arte, con la dedica del libro La poesia, del 1936: «Alla memoria di Francesco De Sanctis e di Giosue Carducci, due maestri che, per diverse vie e con diversi modi, concorsero a formare negli italiani una più schietta e severa coscienza di quel che è la poesia». Dedica, peraltro, non convenzionalmente sanatoria del contrasto fra i due, bensì dimostrativa della inconsistenza del contrasto tra critica storica e critica estetica, dal momento che, distinte nel fine, non si separavano nel lavorìo della ricerca, perché mirate entrambe alla determinazione del carattere dell’opera d’arte: l’una, indagando sul perché storico di quel carattere, individuato negli elementi del suo svolgimento nel tempo, e l’altra, non potendola escludere e dunque presupponendola per giungere ad un giudizio di merito.
Giosue Carducci, dunque, “poeta grande”, quale risalta dalle pagine a lui dedicate nelle citate Note sulla letteratura italiana della seconda metà del secolo XIX, che sono una rapida ricognizione critica di segno negativo della letteratura italiana «dopo il primo terzo del secolo XIX», ma dalla quale esce indenne l’esperienza del Carducci, «commosso poeta della storia, della civiltà e della cultura», potenzialmente poeta-vate per la natura eroica della sua ispirazione: «L’Italia non ha avuto epos, la poesia del Carducci, nata al chiudersi della vecchia vita italiana e al cominciare della nuova, può dirsi un vero epos riflesso della storia d’Italia nella storia del mondo».
Si capisce sin d’ora che tra il giovane critico e il vecchio poeta si è già instaurata una consonanza ideologica ed etico-politica che in modo solenne risalta nell’ennesimo richiamo al poeta della sua giovinezza, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, in termini di fiducioso presagio: «Solo uno spiegò in quel tempo (tra il 1871 e il 1890) ali d’aquila, e traeva dietro a sé noi giovani, e non fu un pensatore, ma un poeta, Giosue Carducci, che, sorto al confine di due età, accolse l’intimo spirito dell’una e lo trasfuse e fece vivere in seno all’altra. Romantico nella partecipe contemplazione del passato e della storia […]; romantico all’italiana o alla latina nel culto della libertà […]; italiano nell’affetto col quale, nella visione della storia universale, si stringeva a quella particolare […]; epico cantore, e pur tragico ed elagiaco, soffrente l’umana passione, sdegnoso dell’umana viltà […]. A quella poesia, come a fonte di etico vigore, si dovrà tornare e si tornerà […]; a quella poesia, che è fin oggi l’ultima e classica – classica nel suo romanticismo – grande poesia italiana».

Per una monografia critica

Dopo le Note del 1903, l’interesse per il suo poeta non vien meno nel Croce ma si scaltrisce di più acuti strumenti ermeneutici, che il coevo sviluppo del suo pensiero estetico gli ha allestito e che penetrano più a fondo nella sostanza della poesia; la nuova formula dell’approccio ai testi non è il retorico e fuorviante artifex additus artifici, bensì il più comprensivo, totalizzante, philosophus additus artifici. Lo si riscontra nei due dei quattro studi del 1910, Le varie tendenze, e le armonie e disarmonie di Giosue Carducci e Lo svolgimento della poesia carducciana, nei quali sono criticamente cooperanti i due connotati metodologici, a quel tempo definiti dal Croce, nella conferenza di Heidelberg del 1908, L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte, dove leggiamo fra l’altro: «Ciò che piace e si cerca nell’arte, ciò che fa balzare il cuore e rapisce d’ammirazione è la vita, il movimento, la commozione, il calore, il sentimento dell’artista: questo soltanto dà il criterio supremo per distinguere le opere d’arte vera da quelle di arte falsa».
Connotati che intanto vanno preliminarmente esperimentati nel primo dei quattro studi, una specie di pars destruens, Anticarduccianesimo postumo, nel quale si demoliscono i fondamenti teorici e metodologici che si ritrovano alla radice delle più o meno pesanti riserve o delle più o meno ingiuste accuse al Carducci, poeta, pensatore e critico. I tre studi or ora indicati si muovono in un orizzonte ideale e ideologico comune, la ferma presa di posizione contro la «nuova corrente, mistica, aristocratica, estetizzante», della «trina bugia» (Fogazzaro, D’Annunzio, Pascoli); insomma contro la letteratura decadentistica, all’insegna della rinascita dell’idealismo, che «è, e dev’essere, la restaurazione dei valori dello spirito, e, in primo luogo, del valore del Pensiero; laddove la corrente, che abbiamo descritta, annulla i valori dello spirito e del pensiero nell’arbitrio, nella sensualità, nel sentimentalismo, nella fede all’inconoscibile e al miracolo, ed è nemica dell’idealismo, come è avversata ora e sempre da questo».
Come dunque ha carattere militante la sua Filosofia dello Spirito, lo è anche la sua critica letteraria, il cui bersaglio implicito, nella ricognizione della poesia del Carducci, è la degenerazione «novecentesca», di un’arte che nasce e si alimenta «d’insincerità», si pasce di egocentrismo e di superonismo, di angoscia velleitaria (il «vile muscolo del cuore»), in una vacuità di valori e di ideali, presenti, invece, ed efficienti nella ispirazione poetica del grande maremmano. Scendendo su qualche dettaglio, il classicismo carducciano è di segno antitetico a quello voluttuoso del poeta delle Landi: «La serena Ellade del Carducci, di provenienza foscoliana e goethiana, non era l’Ellade verso cui cupidamente guardavano i nuovi estetizzanti, neurastenica, iperbolica, trucemente barbarica, micenea piuttosto che fidiaca, veduta attraverso i fratricidi, i matricidi e gli incesti». Un classicismo che suona come radicale, assoluto antiromanticismo, perché per il Carducci (e ora anche per il suo critico) «il romanticismo significò i nervi che prevalgono sui muscoli, la femminilità che si sostituisce alla virilità, il lamento che prende il luogo del proposito, la vaga fantasticheria che infiacchisce e svoglia dal lavoro»; la donna divinizzata dai romantici, ridiventa, nel Carducci, «semplicemente, donna». Né il poeta arretra sgomento al pensiero della morte, ma «attende calmo il richiamo dell’ora sacra, perché (egli) sa che tutto trapassa e ritorna nei secoli e nella vita universale sente palpitare la sua individuale». Sono posizioni esegetiche che non verranno sostanzialmente smentite, ma, a volte, arricchite di nuovi elementi, negli scritti successivi, sino a quella Rilettura del Carducci del 1951, stesa a un anno dalla morte del filosofo.
Nella suddetta pars destruens, il Croce non spende molte argomentazioni per far fuori, tra gli avversari, i due ideologicamente più ambiziosi, Imbriani e Oriani, che rimproverano al cantore di Satana e del «femminino regale» (nell’ode Alla regina Margherita), di rinnegare i suoi ideali democratici e repubblicani; si sofferma invece con prolungata attenzione sul ponderoso libro di Enrico Thovez, Il pastore, il gregge e la zampogna (fresco di stampa); anche perché lo studioso torinese era cresciuto anche lui, da giovane, come Croce, nella “venerazione” del maestro di Bologna; sicché le sue “accuse” al Carducci sembrano nascere piuttosto da uno stato d’animo, non del tutto ingiustificabile, ma che presto trapassano il segno nei giudizi di valore. L’abbaglio critico si annida nella pretesa thovesiana “assurda”, di aspettarsi dal Carducci la prosecuzione della poetica leopardiana degli “idilli”, sottovalutando così – replica il Croce – l’incidenza del diverso clima storico e culturale, pur al di qua del concetto (tipicamente crociano) della “atemporalità” del fatto poetico.
«Nell’essersi attenuto al metodo della confessione, nell’avere esposto via via le sue impressioni, è, insieme col pregio, il difetto del lavoro del Thovez, e persino l’appicco a quel certo che di avvocatesco, che s'introduce in esso senza che egli se ne avveda, e gli prende la mano, e tramuta molto spesso la sua indagine in tesi e il suo ragionamento in sofismi». Manca al critico piemontese – incalza Croce – una solida teoria dell’arte che lo fa ricadere nell’errore del Fortebracci e dell’Oriani, che imputano alla poesia carducciana l’eccesso del classicismo quasi ricalcato sulle orme degli autori antichi, lasciandosi sfuggire gli aspetti della originalità. Con una punta impietosa il Croce gli rimbecca la presunzione di identificare «la poesia nuova», come non sarebbe quella del Carducci, con «la poesia sua» (del Thovez), la quale presunzione lo induce ad incolpare di «tradimento, di regresso artistico» sulla strada maestra della poesia italiana: l’autore delle Odi barbare sarebbe reo, agli occhi del Thovez, di avere sviato la lirica italiana «dalla via audacemente indicata da Leopardi».

Col tipico procedere critico del philosophus additus artifici, il Croce introduce il lettore ai due studi successivi (“Le varie tendenze” e “Lo svolgimento”) con un assioma, che in sé contiene gli elementi della sintesi del giudizio di valore, cui perverrà attraverso l’analisi dei testi: «Lo spirito umano è uno e diverso insieme; e quelle che si chiamano forze poetiche, intellettuali, passionali o pratiche sono tutte attive in ogni istante, tutte in una, e pur l’una distinta dall’altra: dalla quale distinzione nasce l’opposizione e la lotta, e dalla lotta lo svolgimento e la produttività spirituale. Perciò non vi ha poeta, che sia semplice poeta, come non vi ha uomo pratico, che sia soltanto uomo pratico: poeti e uomini pratici, in senso eminente, chiamiamo coloro il cui animo è accordato e disposto in modo che la poesia o l’azione dia come il fine principale, al quale gli altri tutti si subordinino e cospirino. Ma se un poeta non fosse insieme uomo pratico e passionale, se non fosse uomo, non sarebbe nemmeno poeta; se un uomo pratico non avesse del poeta, cioè non avesse fantasia, non sarebbe uomo pratico». Ne deriva il primo e fondamentale elemento di giudizio: «Il Carducci si sa da tutti che cosa fosse, oltre che poeta: fu, in prima linea, un uomo assai agitato dalla passione politica», sin dalla prima giovinezza. Su questo aspetto della figura del Carducci, l’indagine, fin troppo minuziosa e non scevra di psicologismo, che il maestro di Napoli ha appreso da Sainte-Beuve, si viene motivando l’altra definizione del Croce: del Carducci “poeta vate”, che «celebra o rampogna, animato da forte spirito etico, nel proporre ai concittadini, ai connazionali, o agli uomini tutti, un ideale da perseguire». Un ideale di patria che non abbia «nulla della boria di nazione e di razza», da coniugare con gli ideali di giustizia, di libertà e di «perpetua pace»; gli ideali appunto del suo «eroe massimo», Garibaldi, il quale «glorioso per fortunate imprese d’armi, in terra e sul mare, in patria e in lontani lidi, non parve mai cingesse la spada da guerriero o da conquistatore, ma la brandisse quale istrumento di giustizia e quale simbolo di futura perpetua pace». Ma ci chiediamo col suo critico: non sussiste il rischio che tali nobili sentimenti degenerino in un «pervertimento o vizio poetico» nella complessità degli ingredienti che confluiscono nell’ispirazione: dall’insoddisfatto, dolorosamente, bisogno d’azione (i modelli carducciani erano Eschilo e Mameli), alla cultura storico-letteraria, alla stessa propria vita, con le proprie sofferenze, delusioni, lotte, angosce e gioie? Il rischio cioè di cadere nella rettorica patriottarda (alla D’Annunzio), nell’iperbole parenetica (alla Pascoli), nel vieto intimismo decadente (alla Fogazzaro)? Per rispondere non c’è che da perseguire “lo svolgimento” dell’ispirazione poetica carducciana e della sua resa artistica lungo l’accidentato versante della «poesia e non poesia»; con la premessa che «non è da aspettare che la sua opera poetica, disseminata lungo un cinquantennio, sia tutta di pari pregio. Egli dové passare (e ciò accadde in realtà) per vicende di squilibri, equilibri e nuovi squilibri, e raggiungere faticosamente la poesia per perderla da capo e rimettersi a quella ricerca e a quella fatica, a cui solo la morte dà tregua».
Nel terzo studio (“Lo svolgimento della poesia carducciana”), si rafforza, con maggiore autorevolezza teorica, il convincimento, accennato nelle Note del 1903, che l’autore dei Juvenilia, dei Giambi ed epodi, delle Rime nuove e delle Odi Barbare (qui setacciate), appare come il simbolo di un’epoca storica (cui, anagraficamente, corrisponde la “generazione carducciana”, la sua propria): quella che dai fermenti prerisorgimentali è culminata nella epopea del Risorgimento compiuto, ma che poi è venuta corrompendosi, e dall’ideale di nazione, restituita a indipendenza e dignità, è tralignata nel nazionalismo imperialistico (cui, anagraficamente, corrisponde la “generazione dannunziana”).
La classificazione in sei “momenti ideali”, non cronologici, delle fasi di svolgimento della poesia del Carducci (il letterario, il pratico, il personale, il politico-epico, lo storico-epico, l’erudito) non tradisce soltanto una certa naturale preoccupazione didascalica, ma assai di più l’apriorismo delle sue categorie estetiche; il che poi ha lasciato supporre, che il Croce, nell’accostarsi ad un autore, abbia inteso, più soppesare la validità della sua dottrina dell’arte, che verificare la consistenza oggettiva dell’opera esaminata. Ma è giusto anche ammettere che questi studi crociani (ed altri cui accenneremo più avanti) son sempre riemersi nella storia della critica, come riferimenti con i quali confrontarsi (dal Petrini al Russo, dal Sapegno al Binni, per fare qualche nome). Non si può consentire, ad esempio, col Croce sulla liquidazione dei Giambi ed epodi nel limbo della “non poesia”, nel momento stesso in cui si sottolinea la congenita “passione politica” del loro autore, radicata in quel gagliardo “amor di patria” condiviso dal critico. Altre volte l’assenso è incondizionato, per le strofe di Avanti! Avanti!, una «prefazione alle nuove poesie e vero grido di ripresa e di rinvigorimento dell’arte del Carducci», per la Canzone di Legnano, Il comune rustico, Faida di comune, Alle fonti del Clitumno, dalle quali tutte erompe la poesia epica delle idealità della tradizione nazionale. Dal complesso dei rilievi, senza escludere gli stessi limiti “impoetici”, il critico ritiene di poter dedurre l’indiscutibile grandezza del poeta della sua giovinezza: «Fu più che poeta: e questo ci tocca come uomini del sentimento e in particolare come italiani, ammonendoci del dovere di ripigliare e proseguire la sua virile aspirazione alla vita, abbandonata, ahimé!, dalla generazione che gli successe. Fu poeta: e questo ci tocca come uomini della contemplazione, e, sotto questo rispetto, egli appartiene al mondo intero».
Dal filosofo dell’Estetica e dall’editore del De Sanctis non si può attendere un giudizio veramente obiettivo e fondato sul Carducci pensatore e critico, che dal confronto col critico irpino non può che uscire sminuito; e il maestro di Bologna si salva dalle angustie della “critica storica” – è opinione del Croce – quando, nei giudizi di merito, si rifà a quelli del De Sanctis, come nel caso del Parini. Il “pronunciamento” è drastico: proprio perché grande poeta il Carducci non può essere pensatore originale e critico attendibile, anzitutto perché sguarnito di una «salda dottrina estetica e di una filosofia dell’arte». Gli è tuttavia riconosciuto il pregio della precisione analitica delle strutture formali e metriche di un’opera d’arte. Se fallisce inoltre come critico – puntualizza poi il Croce – resiste egregiamente come storico della letteratura italiana, oltre che come filologo (il suo giovanile Poliziano) ed editore di testi: «Chiunque entri a studiare i fatti e i problemi di questa storia (della letteratura), s’imbatte in ogni passo nel Carducci; e profittando delle fatiche di lui, è portato a rendergli omaggio tanto più devoto e gratitudine tanto più commossa, in quanto non può non tornargli alla memoria quale uomo, quale poeta fosse colui che sapeva, dove occorresse, farsi modesto operaio […]. Percorse dall’un capo all’altro la letteratura italiana, e dappertutto lasciò i segni del suo studio e del suo acume».
Relegato nella schiera dei “grammatici”, gode però di un’attenuante suggerita al Croce dal suo «grande amore» per il poeta della sua giovinezza: De Sanctis e Carducci miravano insieme ad «una diretta e piena comprensione dell’opera d’arte», l’uno con coscienza filosofica, l’altro col buon senso e il buon gusto. Riconoscimento piuttosto striminzito appare ad un crociano non sempre allineato, Luigi Russo, che eccepiva: «Ma al di là di una semplice contrapposizione psicologico-teoretica De Sanctis-Carducci, oppure, peggiore e più fallace ancora, di una antitesi generica tra scuola storica e scuola estetica […], si trattava di contrapporre a un De Sanctis storico filosofo un Carducci critico tecnico della poesia», per concludere che «la critica del Carducci, pur nella sua modestia e nel suo limite, vive di una salda dottrina estetica e di una coerente filosofia dell’arte».
Nel pantheon dei massimi della letteratura europea del secolo decimonono che è il volume Poesia e non poesia del 1923, non poteva mancare il suo Carducci, e non per la presunta «tendenza propagandistica a magnificare il genio italiano», malignamente attribuitagli in una rivista straniera, ma «per riaffermare il posto e il grado che al Carducci spetta nel quadro di questa letteratura», tra Alfieri e Schiller, tra Leopardi e Heine, tra Manzoni e Baudelaire, sempre a norma del criterio di quel che sia schietta poesia, poesia classica; traguardo raggiunto da pochi, anche se lo millantano in molti.
E’ il Carducci “grande” o “divino”, come lo qualifica Charles Maurras: «acuto scopritore e persecutore del decandentismo e muliebrismo letterario». L’erudizione ingombra la sua ispirazione? Non sempre, ed anzi è più spesso «nutrimento della sua anima e della sua fantasia», sicché nel suo verso si sente «il respiro del suo petto possente, che ci solleva dal mondo pratico e ci trasporta nel mondo ideale». Più che mai pertinente, dunque, la definizione del 1910, di poeta-vate, poeta eroico, «un ultimo e schietto omerida».
Il critico «come un colto cicerone o un paziente e discreto maestro”

Ma nella riflessione teorico-estetica del Croce si avverte sempre di più il bisogno della distinzione tra «la poesia come opera di verità e la letteratura come opera di civiltà», e ne discute e disserta e documenta ampiamente nel libro La poesia del 1936, che può considerarsi l’approdo estremo del suo travaglio speculativo in relazione al problema dell’arte. Si definiscono i due momenti, peraltro di ascendenza classica del furor (la poesia) e dell’ars (la letteratura), dell’ispirazione, cioè, e della disciplina, con la formula conclusiva e liberamente più coinvolgente di «la poesia, la non poesia e l’antipoesia». Occorre, a mio giudizio, tener presenti questi concetti, per spiegarci il ritorno del Croce sul poeta della sua giovinezza, dopo gli studi del 1910: un ritorno metodologicamente differenziato, meno sintetico e più analitico, più puntuale, e talvolta più erudito, su singole liriche, riesaminate comparativamente con posizioni precedentemente assunte, o anche con testi di altri autori, italiani e stranieri (Goethe, Heine, Hugo, Platen, Uhland): sono le Note su alcune poesie del Carducci del 1941 (L’Inno a Satana, La Ninna nanna di Carlo V e la Sacra di Enrico V, Il sonetto “Il bove”, Poesie d’amore, Poesie impressionistiche, L’ode alla regina, L’epodo per Monti e Tognetti e il giambo per il processo Fadda”, L’ode a Ferrara).
Qui la critica del Croce, quale «interpretazione o comento», deve farsi «piccina innanzi alle opere d’arte», e si restringe «all’ufficio di chi spolvera, colloca in buona luce, fornisce ragguagli sul tempo in cui fu dipinto e sulle cose che rappresenta un quadro, e spiega le forme linguistiche, le allusioni storiche […]. Il critico, in questo caso, viene rappresentato come un colto cicerone o un paziente e discreto maestro».
Negli studi del 1910, invece, la critica si era fatta “grande” innanzi all’arte “grande” delle Rime nuove e delle Odi barbare, nella loro ispirazione, contemplativa e storica insieme.
Estrapoliamo cursoriamente. La rilettura dell’Inno a Satana ora espunge gli accenti polemici del 1910, e, pur ribadendone il carattere “praticistico”, “oratorio” («eloquenza e letteratura»), dovuto alle «infiammate letture» del Michelet, lo inquadra in un contesto ideale, che trascende la contingenza della occasione, e si innalza in una visione più articolata e serena del cristianesimo, nel quale «non scorse più unicamente l’ascetismo onde si legava alla decadenza del mondo antico, ma anche tutto l’altro di umanamente positivo che lo legò all’avvenire e all’eterno […]. Quale meraviglia che egli celebrasse l’incanto dell’avemaria nei versi della Chiesa di Polenta? o che all’occasione scrivesse versi gentili ed elevati sulla Santa Vergine Maria o al pie’ di un Crocefisso? Perché non avrebbe dovuto dare a quei sentimenti umani i nomi che storicamente portavano e che avevano meritato?».
Le acutissime pagine sulle due liriche storiche la Ninna nanna di Carlo V e La sacra di Enrico V valgono come un saggio di critica storica e di finissima esegesi critico-estetica, e qui non si può fornire che qualche cenno. L’accostamento fra i due testi serve a porre in risalto quanto la polemica ideologica (giacobina), sottesa a La sacra di Enrico V, pregiudichi gravemente il livello poetico, che resta invece costantemente elevato nella Ninna nanna di Carlo V. Osserva in ragione di principio: «L’origine vera e principale dell’errore del Carducci mi pare che sia nella ideologia rivoluzionaria che ho accennata e che suggerisce moti e immagini che offendono l’umana pietà e la verecondia della poesia: di che qualche traccia si nota anche in alcuno dei sonetti del Ça ira».
Umana pietà e verecondia della poesia pervadono le quartine della Ninna nanna, rese più evidenti dal confronto instituito con le ballate storiche del Platen, nel quale la ispirazione è “letteraria”, perché riduce e rimpicciolisce il dramma della storia “aborrita” nell’angustia della vicenda individuale, «dà risalto a un sol momento, al momento in cui il personaggio esprime il suo personale sentire cadendo tragicamente»; nel Carducci, invece, si rappresenta il dramma non dell’individuo, nel suo privato soffrire o gioire, «ma dell’individuo come portatore di valori sopraindividuali cioè il dramma della storia nei vari momenti della vita dell’umanità […] Il Platen, nel quale domina la pallida mors, è pessimista; il Carducci, in cui si dispiega la vita infaticata dell’umano ideale, è epico ed eroico». Che è la prospettiva critica perseguita dal Croce nella valutazione delle altre liriche storiche del Carducci: Versaglia, Faida di Comune, Sui campi Marengo.
Ma l’attenzione del Croce non trascura quella che può apparire poesia di tono minore, d’ispirazione amorosa (in Poesie d’amore) o l’altra che nasce dalle “impressioni”, non per “riprodurle” ma per “superarle” (in Poesie impressionistiche). Nella prima, il Croce confuta la ricorrente accusa della artificiosità letteraria delle liriche nelle quali compaiono figure femminili, le Lalagi, le Lidie, le Livie, le Cloe, ritenute a lungo, non più che frusti topoi dotti, flatus vocis come se, al contrario (e lo ha documentato l’Epistolario), dietro di esse non si celi una «schietta e sincera passione» per la donna, contenuta entro i limiti della riservatezza (Primavera classica, Panteismo e, persino, con più dissimulazione, Ragini metriche): «La sua poesia d’amore è voluttuosa, semplice, con certa timidezza di rispetto e di sempre presente gratitudine verso colei che porta quella gioia nella sua vita». Una poesia nella quale si assomma «l’universo come per il Petrarca o a suo modo per il Leopardi», e che, con la sua schiettezza e gentilezza, «sfata nel paragone la fastosa e pur fredda lussuria erotica del D’Annunzio e che ridà il sentimento della piena umanità e paragone della poesia senza donna e senza amore del Pascoli». Non desiste, ad ogni occasione, la polemica crociana contro la degenerazione decadente della sfera della interiorità, l’inaridirsi delle vive fonti della vita, contro il malum mundi incombente sul destino della civiltà. Nel gruppo delle liriche d’amore può inserirsi anche Era un giorno di festa (intervento del 1936), per riconoscerle, al di là delle suggestioni di Heine, il più letto dal Carducci tra gli scrittori stranieri, e dell’eco prolungata del Cavalcanti (dall’epigrafe alla quarta lassa del componimento), genuina anima poetica; perché l’arte del Carducci – precisa il Croce – «contiene cultura quintessenziata e non ben s’intende senza questi necessari riferimenti», nulla detraendo all’«incanto della bellezza (della donna che prega) e dell’amore», a un tempo «con l’inesausto desiderio e con l’indivisibile dolore».
Non meno dense di pathos lirico le poesie impressionistiche (San Martino, Tedio invernale, Davanti una cattedrale) che ritraggono momenti della natura o aspetti di un paesaggio, da cui il poeta si muove per spaziare nel libero cielo e contemplare «l’individuale nell’universale nel quale soltanto può vederlo». Note del «poema eterno» fattesi «picciol verso», nel loro impressionismo, naturalistico ed esistenziale, quanto più, essenzialmente, esemplificativo di una generale condizione d’essere, resa con classica luminosa nitidezza.
In L’ode alla regina (composta dal Carducci nel 1878, quando il Croce era «un ragazzo presso che tredicenne»), tra le più discusse e fraintese, meritoriamente il critico, col suo immancabile corredo storico-erudito, libera il testo dalla taccia di “cortigiano”; per puntualizzare che «essa sorse da un improvviso ingenuo impeto di entusiasmo per un essere ideale che gli parve d’incontrare a un tratto nella realtà, una creatura di sogno, tessuta del sogno di quanto di più puro e gentile l’anima cerca desiderosa». Come, levando in alto da «tutto il mondo pratico” l’imperatrice Elisabetta d’Austria (nell’ode Alle Valchirie), il Carducci la trasporta e restituisce al mondo di sogno in cui ella visse, al mondo dei miti germanico ed ellenico, dell’epopea, della musica. E’ dunque ancora una volta riconosciuto «nell’ingenuo impeto di entusiasmo» il segreto della schietta e sicura ispirazione poetica, la quale, nell’Ode a Ferrara, è invece compromessa dagli eccessi polemici, pur storicamente ed emotivamente giustificabili dal lettore, «contro la curia romana, che spense la poesia, la cultura e la civiltà di Ferrara e piegò e soffocò l’anima di Torquato».
Gli ultimi due interventi del Croce tremano insieme di nostalgia «pel caro tempo giovanile» e di presentimento della fine non lontana: l’uno del 1950, Intorno a due liriche di Volfango Goethe e di Giosue Carducci, l’altro del 1951, Rilettura del Carducci. Nel primo si colgono analogie tematiche ed esistenziali tra il lied Ueber allen Gippeln e l’odicina Nevicata: motivo comune, la ineluttabilità della morte, che nella coscienza del critico si accompagna alla «antica sentenza, che per l’uomo la morte non esiste: non esiste quando è vivo perché è vivo, né quando è morto perché è morto». Il lied goethiano si chiude così: «Warte nur, balde Rehest du auch» («Aspetta un poco: presto riposerai pur tu», trad. Croce); l’odicina del Carducci: «In breve – tu càlmati indomito cuore, – qui al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò»; in entrambe le lirichette «c’è la verità che forma lo sfondo di ogni poesia: la vita che si abbraccia con la morte ed è vita in quell’abbraccio», sicché esse «possono con pari diritto essere definite poesie della Morte o poesie della Vita, perché la vita è in un sol atto affermazione e negazione e vive di questi contrari».
Il vecchio critico si predisponeva a varcare «il muro d’ombra» nel ricordo del poeta della sua giovinezza. Tanto più sentito allora, allo stremo delle forze, il bisogno di “rileggerlo”, tra una dotta fatica e l’altra, ancora, «risalendo così alle memorie di quel tempo in cui l’anima si apre all’amore e all’intelligenza della poesia», che è “vita”, e “verità”. E “rilegge” le cose dell’ultimo tempo del suo poeta, che alcuni critici consideravano «prova della sua maliconica decadenza», quando invece – prosegue il vecchio filosofo – non v’è altra malinconia che non sia quella della «non lontana fine, il presago verno degli anni, contro il quale egli, il Carducci, si abbraccia più forte alla divina poesia e al canto del padre Omero».
Né vien meno il solito impegno esegetico del grande critico, che qui si concentra su tre liriche, che avevano già suscitato, al loro apparire, «passioni e contrasti estranei all’arte»: Alla figlia di Francesco Crispi, del 1895, e due ispirate da Annie Vivanti: Ad Annie, anteriore di qualche anno, e Elegia del monte Spluga, del 1898. E’ indubbia la involuzione ideologico-politica del Carducci, da mazziniano a sabaudo a crispino, ma il Croce non la ritiene tale, e, comunque, nel carme in parola, egli rimarca l’afflato umano che anima l’ispirazione del poeta, inteso a liberare la «sicana Vergine» dalla «stridula procella d’onte» che ha investito il suo augusto genitore. Sui distici, poi, per la giovanissima poetessa Annie Vivanti (per la cui raccolta di liriche, del 1890, il Carducci aveva stilato un saggio introduttivo) il Croce taglia netto sulle dicerie circa i rapporti tra il vecchio poeta e maestro e Annie, affermando che «nella sua anima, e perciò nella realtà poetica, ella gli apparve nient’altro che una dolce fanciulla dai grandi occhi di fata, che aveva ricevuto l’aureo dono del canto»; e insomma, «è poesia gentilissima e castissima». E’ che prevale tra i due il vincolo più forte, quello della poesia, che ha anche generato il sentimento dell’amore.

   
   
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