Dicembre 2004

Ricordando gioacchino murat

Indietro
La rivoluzione mancata
della borghesia e del Sud
Ada Provenzano - Ennio Nurra Sebasti - Edda Cantalupo
 
 

 

Il Regno di Napoli portò a
maturazione la
rivoluzione
illuministica, per poi appendere
il fior fiore delle
intelligenze alle forche innalzate nella partenopea Piazza del
Mercato.

 

Si discute molto, in questi tempi, di rivoluzione borghese dimezzata e di rivoluzione mancata in Italia. Dimezzata fu certamente quella dei primi anni ‘60, quando il boom economico fece registrare un balzo all’Italia del Nord, mentre in quella del Sud spopolò le campagne senza che vi fosse realizzato un tessuto industriale che contribuisse a trasformare radicalmente l’economia e la società meridionale. Mancata è quella dei nostri giorni: nel momento in cui si chiedono sacrifici per ridurre il debito pubblico del Paese e per rispettare i parametri di Maastricht, primo atto canonico, secondo insana consuetudine, è stato quello dei tagli agli investimenti al Sud. Il che ha fatto gridare a qualcuno, non proprio disinteressato, che proprio dal Mezzogiorno si deve ripartire, se si vuole che tutto il Paese si agganci alla ripresa e venga fuori dalle secche della stagnazione.
Aridi ma non peregrini riferimenti all’attualità a parte, di rivoluzioni mancate il Sud ha fatto incetta, dai giorni dell’Unità e della guerra civile al primo e al secondo dopoguerra del secolo scorso: imputati, la politica nazionale, gli interessi delle lobbies, i cinici egoismi territoriali, e altro ancora, ma anche l’incapacità della borghesia terriera meridionale di trasformarsi e di spostare il baricentro delle attività produttive, trasformando le rendite parassitarie in investimenti, in occupazione, in sviluppo. Ma c’è stata, nella storia del Mezzogiorno, anche una fase in cui interessi interni e internazionali coincisero nella determinazione di stroncare di netto la nascita di uno Stato del Sud moderno, incentrato sulla formazione di una piccola e media borghesia guidata da un monarca illuminato quanto coraggioso, e per molti versi persino spregiudicato: il cognato di Napoleone, vale a dire Gioacchino Murat.

Chi fu Murat, insediato nel più antico Regno d’Italia, di volta in volta di Puglia, di Napoli, delle Due Sicilie, che ebbe vita per otto secoli, e nel quale tra i sovrani che regnarono non ci fu che il solo Federico II che più di lui si raccomandò alla memoria degli uomini? Un personaggio di complessa antropologia umana e di geniale creatività politica: spirito ribelle, eroico in battaglia fino a rasentare un’intrepida follia, combattente più che diplomatico, di sentimenti istintivamente repubblicani, certamente alieno a vincoli di subordinazione, altrettanto sicuramente portatore di una moderna visione del mondo. Re del Regno del Sud su mandato napoleonico dal luglio 1808, (non è solo il ventre delle regine a partorire dei re; c’è anche la forza delle armi), con un decisionismo degno di miglior fortuna mise mano a un coacervo di riforme radicali: eversione della feudalità, introduzione del Codice napoleonico, soppressione dei tribunali speciali e ampliamento degli spazi di discrezionalità dei giudici, diffusione di opere pubbliche, particolarmente delle strade di collegamento tra centri urbani, fino allora quasi del tutto inesistenti nel Sud, impulso alla sanità, potenziamento dell’agricoltura anche con la redenzione di vasti territori incolti e persino inesplorati, distribuzione di terre confiscate al latifondo parassitario, riordino del sistema tributario, creazione del Banco di Napoli, diffusione dell’istruzione elementare, creazione di interi quartieri urbani, come quello a ridosso dell’allora inerte borgo di Bari… Tutto questo, e altro ancora, in direzione di un progetto ambizioso: la creazione di una piccola e media borghesia produttiva e mercantile, grazie alla quale, dopo secoli di arretratezza, il Regno avrebbe potuto aprirsi un varco nel futuro.
Quel che fece Murat, forse, fu troppo, o troppo di tutto, in un arco di tempo forse troppo breve e in una terra e in una società che quasi un millennio di scirocco politico, economico e sociale aveva fatto crepare come una melagrana. E troppo, soprattutto, per non mettere in allarme gli altri Stati, italiani ed europei. La sua opera riformatrice scardinava l’ordine costituito, era preludio all’inversione degli antichi valori, esiliava i principii giurassici sui quali, di fatto, oltre che per un diritto spesso invocato come “divino”, quell’ordine si era retto prima dell’onda d’urto napoleonica, e sarebbe tornato a reggersi subito dopo l’avvitamento continentale determinato dal Congresso di Vienna. Sicché, pure amandolo, Napoleone intimamente lo aveva temuto; diffidandone, la Francia lo sospettava di doppiogiochismo, se non di tradimento; guardandolo a vista, Inghilterra e Austria ne auspicavano l’eclissi politica; odiandolo, i Borbone ne avrebbero reclamato la morte per mano del plotone d’esecuzione.

Come tutti gli spiriti anticipatori, dunque, Murat si creò soprattutto dei nemici. E’ il destino assegnato agli idealisti. Così, in quella linea d’ombra indistinta e magmatica nella quale confluiscono le voci della storia e quelle della leggenda, culminò il valore militare suo e della sua travolgente cavalleria, che aveva assicurato all’Imperatore francese la vittoria ogni volta che era scesa in campo (mai sconfitta in oltre trenta battaglie, dalla campagna d’Italia all’Egitto, da Aboukir a Gaza e a San Giovanni d’Acri, da Ulm a Iena, da Eyilau a Friedland e a Mosca, dove entrò per prima), e che, quando per invidia o per incoscienza fu esclusa, come a Waterloo, lasciò un baratro aperto solo alla sconfitta; e culminò la visione politica di una sorta di rivoluzione italiana eccentrica (partiva dal Sud!), perché anche in questo Murat fu in tragico anticipo, sulla stimmung, cioè sulla temperie, sullo spirito dei tempi che sarebbero maturati molto più tardi. Tant’è che il Proclama di Rimini del marzo 1815, che chiamava gli italiani a un risorgimento nazionale, vide dissolversi nello spazio di un mattino ogni rispondenza, ogni eco, ogni reazione propositiva e, per contro, prender piede il vuoto dell’indifferenza, di un deserto di valori, e, insieme con l’atarassia di plebi analfabete e intonse, anche quella di forze intellettuali che sembravano paralizzate dalla grandezza di quella visione: allora, condizioni antropologiche che, pur non essendo esclusive del Sud, proprio nel Sud esausto e virtualmente depotenziato, non avevano saputo trovare la forza di mettersi alla testa di un movimento preliminare alla nascita di una Nazione.
E, in questo contesto, ancora oggi rimane misteriosa, o quanto meno di difficilissima lettura, l’inerzia della Massoneria (che comunque all’epoca era filofrancese, dunque contraria alla nascita di una potenza protesa nel cuore del Mediterraneo) e di quella sorta di braccio eretico che fu la Carboneria, sebbene Murat fosse Gran Maestro da almeno un lustro; Massoneria e Carboneria che di lì a soli cinque anni, nel 1820, d’un tratto e come per miracolo, si sarebbero svegliate e avrebbero avviato la dirompente stagione dei moti risorgimentali, che, attraversata la linea di demarcazione del ‘48, sarebbe culminata nell’Unità conseguita alla rovescia, non avviata dal Mezzogiorno, con Napoli capitale nazionale (era dal Settecento una capitale di stampo europeo), e della saldatura della nostra politica internazionale con l’Europa, da una parte, e con l’universo mediterraneo sull’altro versante, come sarebbe stato naturale e sicuramente per il futuro del Meridione auspicabile, se quel nostro Regno fosse stato un po’ meno sanfedista e tardoguelfo, e un po’ più sensibile alle istanze libertarie che non erano state cancellate del tutto, neanche dopo lo sfacelo dell’Europa napoleonica. Fato e circostanze politiche continentali incrociate dai reticoli diplomatici, militari, di equilibri e di influenze complesse, vollero poi che quell’Unità si realizzasse solo quando, in funzione del militarismo del Nord-Ovest della Penisola e della rinuncia del Piemonte a gravitare con Nizza e con la Savoia nello scacchiere territoriale transalpino, si orchestrarono un monarca massone, Vittorio Emanuele II, un Primo ministro massone, il Conte di Cavour, un condottiero massone che si era inginocchiato, dichiarandosi figlio ideale di Murat, Garibaldi, un armatore massone, Raffaele Rubattino, che rifilò per furto la tacita consegna ai Mille delle sue due navi più veloci, i massoni toscani che a Talamone rifornirono i garibaldini di armi e di vettovaglie, i massoni siciliani che arruolarono duemila “picciotti”, i quali impegnarono il fior fiore dell’esercito borbonico operativo nell’isola, facendosi massacrare, pur di garantire all’Eroe dei Due Mondi lo sbarco a Marsala senza colpo ferire, i massoni infiltrati a corte, nell’amministrazione e soprattutto nell’esercito napoletano del Continente, che avvelenarono clima, fiducia e possibilità di difesa del Regno.

Forse l’utopia muratiana, tramontata fra le rosse pianure di Tolentino, era frutto di una visione sospesa tra azzardo e disperazione, fra il tentativo di scampare alla tabula rasa del sistema napoleonico perseguita poi dall’illiberale Santa Alleanza europea e il sogno di un’epopea estrema che, a sipario calato, al modo di quella delle streghe di Macbeth, si sarebbe rivelata un’opera senza più nome.
Può mutare la prospettiva storica, con il trascorrere del tempo, questo sì. Possono opporsi le angolazioni visuali, gli atteggiamenti critici, e di conseguenza i meriti e i metodi di un oggettivo revisionismo, questo anche. Lo si intuisce quando, esaminando i nuovi scenari, l’incipit di un’età che si stava schiudendo, si nota che passò soltanto qualche decennio, e l’Europa fu infiammata dal movimento romantico, dal delirio romantico, dal delirio logico dell’idealismo di Hegel, dallo spiritualismo come malinconia nebulosa e indefinita, con radici remotissime che sembravano perdute, ma che covando il calor bianco, portarono alle estreme conseguenze le premesse illuministiche: così si diffuse l’idea risorgimentale delle nazioni.
Non a caso Murat seppe coniugare ragione e passione. E se è vero che il gran re riformatore era diventato sovrano sulla punta delle sciabole francesi, è altrettanto incontestabile che ciò era già accaduto con Carlo, padre di Ferdinando IV di Borbone: la consacrazione o la desacralizzazione in virtù, appunto, delle armi.
Ma soltanto per lui, all’epoca, la caduta rovinosa e definitiva dopo lo sbarco a Pizzo Calabro, non per una guerra civile, che volle impedire, ma nel segno unilaterale dell’oltraggio, della rapina, della sordida prigionia, dell’odiosa esecuzione «un quarto d’ora dopo la sentenza», e della fossa comune. Con legittimo sospetto di complotti, di spionaggi, di viltà, di tradimenti ignobilmente preordinati e puntualmente consumati.

Ci si chiede, oggi: al momento dell’esecuzione era re, oppure no? L’uomo che aveva intuito il valore decisivo delle riforme e che aveva messo al centro degli interessi vitali del Regno la nascita di un ceto medio produttivo e mercantile, quando sbarcò per la riconquista del trono era ancora il sovrano “par la grace de Dieu et par la constitution de l’Etat”? Sì, rispondono alcuni, perché dopo la sconfitta di Tolentino egli non era stato deposto, né era stata sancita una sua abdicazione nel trattato di resa. No, controbattono altri, perché il carattere personale ed eterno dell’attributo della regalità non è seriamente sostenibile. Dunque: Murat sopraggiunto a Pizzo, proveniente dalla Corsica, non esercitava più concretamente la funzione reale. Sicché gli sgomenti sudditi del luogo, colti di sorpresa e coinvolti nelle vicende di quella convulsa domenica di mercato, oggettivamente potevano vedere in lui l’usurpatore, il simbolo della nuova tirannia, lo straniero oppressore, il partigiano francese che sfidava i legittimisti, i quali avevano accolto di buon grado il ritorno del Borbone. Pertanto, non di regicidio si trattò, bensì di assassinio comune. Tentativo di rimozione e di transfert di un antico, macerante rimorso che ancora ai nostri giorni, a poco meno di due secoli dalla fucilazione dello “stalliere diventato sovrano bonapartista”, angoscia le coscienze più lucide dei pizzitani. Re o non re, comunque, visse con regale orgoglio anche il tragico epilogo della sua vita, comandando il plotone d’esecuzione. E’ il destino di tanti ribelli e rivoluzionari della storia che si serve di loro e della loro azione, nel processo di speranza e di emancipazione dei popoli, per il loro sviluppo, secondo l’imperscrutabile, misterioso disegno del progresso umano e civile.

La storia non giustifica e non deplora. E, malgrado una nota espressione, sebbene a volte quasi meccanicamente si ripeta, sembra insegnare poco, o nulla. E tuttavia, in prospettiva, rivisitata nelle sue pagine più complesse o nelle sedimentazioni meno esplorate, può aiutare a capire, e talora illumina. Interrogandola, si attendono risposte.
Fra l’altro, al cospetto di questa tragedia meridionale, ci si chiede: ma chi, ma che cos’erano il bucaniere maltese Barbarà, che abbandonò il re sulla spiaggia calabra, negandogli una via di salvezza, e prese il largo con a bordo 270 uomini arruolati per fomentare la rivolta, e soprattutto impossessandosi del forziere reale; l’ambiguo generale Franceschetti, che poi fece causa – perdendola – a Carolina Murat Bonaparte, reclamando un risarcimento per la ferita riportata sulla via della sua precipitosa fuga; l’eminenza grigia barone Melacrinis, che proprio in quei giorni ospitava – guarda caso! – un manipolo di soldati semplici “in licenza”; il caporione capitano Trentacapilli, anche lui acquartierato a palazzo Melacrinis, anche lui “in licenza”, ma stranamente in compagnia di quella ciurma armata fino ai denti, uno che nel breve percorso dalla dimora baronale alla Pietraia, il luogo in cui avvistò il re, acquistò il coraggio dell’arruffapopolo e perdette l’onore del soldato; il prete omicida don Citanna, che con una mano assolveva dai peccati terreni il re e con l’altra apriva il fuoco, causando l’unica vittima di quell’evento; il fabbro rapinatore Sardomeli, detto Balà, più che dall’amor patrio mosso dalla cupidigia suscitata dalla filiera di diamanti incastonati nel copricapo che strappò a Murat; e chi, che cosa rappresentavano la folla di un paio di centinaia di figuri malmostosi che formavano la muta sguinzagliata alla caccia del re diretto a Monteleone, e i pizzitani, o napitini, i quali, a vicenda conclusa, reclamarono e si ebbero medaglie, rendite, esenzioni fiscali, promozioni, nomine e prebende varie, e tutti indistintamente, nella città proclamata “Fedelissima”, guadagnarono “sei rotola di sale”, all’incirca dodici libbre a testa?
Furono solo strumenti accidentali, detriti umani risucchiati dai meccanismi giganteschi e freddi della Storia, guitti più che attori, che senza avere precisa coscienza ne incepparono il moto, riportando i ritmi della vita e della civiltà del Sud all’antico tempo lento, alimentando l’illusione che quella vita e quella civiltà potessero appagare il cuore viola degli uomini?
Certamente, in quella barbara temperie, furono anche questo. Ma non soltanto questo. Inespressa, ma sottesa come un filo rosso senza alcuna soluzione di continuità, e come riecheggiata anche ora da un sibillino coro magnogreco, è la condizione tutta meridionale che attraversa le latitudini della storia, della narrativa, della poesia, dell’arte, dunque dell’infelicità del Sud: la condizione dei vinti.
Come il lutto ad Elettra, come l’eterno tormento a Prometeo, questa condizione si addice al Sud e ne identifica tutte le genti. E’ la condizione per cui abbiamo sempre precorso i tempi, e – direi, fatalmente – nello spazio d’un mattino abbiamo dissipato esperienze, primati, vantaggi aurorali. E’ il risvolto catastrofico e frustrante della nostra agra commedia umana.

Solo qualche esempio. Avemmo con le Costituzioni Melfitane il maggior monumento legislativo del Medioevo, voluto da Federico II, e con gli Statuti di Trani il più antico codice marittimo italiano pervenutoci in un “volgare” che proprio al Sud aveva ricevuto il sigillo di lingua-madre della Penisola; e, per contro, abbiamo subìto la più durevole stagnazione feudale della storia europea. Gioacchino da Fiore, che pure ispirò San Bonaventura e Dante, esaltò l’utopia di un Cristianesimo spirituale avverso alla cattività babilonese del Papato, e un antistorico Stato Pontificio fu diaframma occludente, cortina imperforabile che impedì relazioni, comunicazione e conoscenza fra quelle che restano ancora oggi le due Italie. Il Regno di Napoli portò a maturazione la rivoluzione illuministica con la Repubblica del ‘99, per poi appendere il fior fiore delle proprie intelligenze alle forche innalzate nella partenopea Piazza del Mercato: perfetta, puntuale lobotomia che vietò ai sudditi di trasmutare in cittadini.
Il Sud annoverò con le età sveva e muratiana i momenti riformatori più alti mai registrati negli annali della Penisola, e ne schiantò il ciclo virtuoso con due regicidi, di Corradino ad opera di Carlo d’Angiò, di Gioacchino ad opera di Ferdinando IV, altrimenti noto come Re Nasone.
Vinti anche questi monarchi illuminati che avevano tentato di aprire varchi al futuro dei nostri padri. Ma vinti che, con il loro spirito predittivo e con la loro formidabile azione, seppero illuminare il mondo. Vinti come il Sud, con la sua storia negletta o stravolta, con le sue genti costrette per tanti versi ancora oggi, per colpe consumate allora, ad esportare materia grigia e cultura del lavoro. Vinti come i siciliani di Verga, di Pirandello, di De Roberto, di Dolci, di Vittorini, di Sciascia, i sardi della Deledda, di Dessì e di Lussu, i napoletani di Rea, di Prisco, di Bernari e di Compagnone, i calabresi di Alvaro, di Répaci e di Strati, i lucani di Scotellaro, del confinato Levi e di Nigro, i pugliesi della Corti, di Fiore, di Bernardini, di Palumbo e di Cassieri, i molisani di Jovine, gli abruzzesi di Silone, i giovani scrittori di tutte le nude sontuose estenuanti latitudini australi… Ma quale e quanta sublime grandezza sulle macerie della nostra storia e della nostra civiltà!
Allora Pizzo, anch’essa più che mai vinta, è metafora nucleare del Sud, proiezione di una costante storica, antropologica e culturale che macula i propri tracciati esistenziali forse proprio perché poi più marcata e riconoscibile possa emergere una sua primordiale innocenza. Al modo di tutto questo Sud carnefice e vittima, aristocratico e lazzarone, barbaro e raffinato, indulgente e feroce, fariseo e ghibellino: terra di albale chiarità e di sanguigna temperie; delta del coacervo degli italici malefici. Continente grande e amaro.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2004