Dicembre 2004

Il Corsivo

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Buio in Europa
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

Ho avuto modo di conoscere (e di parlare con) persone nate alla fine del secolo XIX, quelle che allo scoppio della Grande Guerra avevano vent’anni o poco più, e che avevano visto morire sugli altopiani del Nord-Est italiano decine di migliaia di coetanei, in armi per “redimere” le terre e le città dominate dagli austro-ungarici. E poiché queste decine (alla fine centinaia) di migliaia di gioventù bruciate erano in buona parte originarie del Centro e del Sud d’Italia, a quella sulle basi storiografiche si aggiungeva un’altra mia domanda: – Com’è stato possibile che si sia entrati quasi freneticamente in quel mattatoio spalancato, quando da Vienna giungevano segnali di trattative per risolvere pacificamente, in cambio della neutralità italiana, le nostre rivendicazioni territoriali? –.

Sarajevo 1914: l’attentato del 28 giugno di Gavrilo Princip, i funerali a Trieste dell’Arciduca e della moglie, gli strappi cardiaci del luglio successivo, la corsa affannosa di mezza Europa alla mobilitazione... Quei giorni e quegli avvenimenti restano un enigma. Le vere, profonde, cause sono ancora oggi immerse in un cono d’ombra. Qualcuno ha paradossalmente ipotizzato: forse c’era un eccesso di “cultura della pace”, e c’erano troppa letteratura, troppa arte, troppa scienza, troppo cosmopolitismo, troppe meravigliose Esposizioni Universali. Questa saturazione da bellezza, prosperità, eleganza (le donne della Belle Epoque: funeree, sublimi, freudiane, di cui sarebbe valsa la pena occuparsi) può aver marcato su tutto il ben noto ai Greci “oltrepassamento della misura”, colmato l’Europa di peccato di Hybris imperdonabile, e costretto Nemesis a mettere la pistola nelle mani dell’attentatore serbo, il quale non avrebbe mai immaginato, spegnendo due vite simboliche, che cosa stava per far succedere, l’incendio del mondo?
Quando l’abisso chiama, con voci misteriose che trovano echi e interpreti nella parola, nell’immagine e nei suoni, l’obbedienza è inevitabile? Certo, il suicidio dell’Europa fu esemplare. E fu agevolato dai Trattati. La Russia proteggeva la Serbia. Nel 1912 la Francia aveva stretto un patto segreto con Mosca-San Pietroburgo per riprendersi Alsazia e Lorena perdute nel 1870. Il kaiser Guglielmo smaniava di arrivare a Parigi sperimentando sulla pelle umana le migliori artiglierie del mondo e portando al fronte le truppe grazie a una rete ferroviaria che non aveva uguali in Europa. Guerra-lampo (“blitzkrieg”) uguale vittoria certa. Bastava passare attraverso il Belgio, piombando sulla Marna. Ma alle spalle del Belgio c’era l’Inghilterra di Giorgio V al suo apogeo: era il caso di sfidarla, per poi dissiparsi nelle ignobili trincee delle Fiandre? Era il caso di far macellare la meglio gioventù continentale? Ed era il caso che l’Europa attirasse nella pania delle sue turpitudini un’America refrattaria, che poi non sarebbe più riuscita a togliersi dai suoi tentacoli?

Nel 1914 cominciò il secolo breve. Un anno dopo, a guerra mondiale dispiegata, Reiner Maria Rilke scriveva alla principessa Marie von Thurn Taxis-Hohenlohe: «Era questo, mi chiedo cento volte, era questo il peso che premeva orribile su di noi negli ultimi anni, questo futuro spaventoso che è ora il nostro crudele presente? Qualsiasi cosa succeda, il peggio è che quell’innocenza di vita in cui siamo cresciuti non tornerà mai più per nessuno di noi».

L’illusione inquieta della Belle Epoque si prolungava allora nei “folli” anni Venti, lungo i quali sembrava che molti smottassero incauti e volontariamente ciechi per un mutamento senza ritorno e foriero di nuove catastrofi. Sedi geografiche di questo clima culturale, politico e psicologico tanto complesso, Parigi libertina, la Vienna della “finis Austriae”, la Germania di Weimar. A Montmartre ancora oggi c’è il “Lapin agile”, locale degli anni Dieci celebre per essere stato anche raffigurato da Utrillo: era un ritrovo di artisti, uno dei luoghi tipici della Belle Epoque di stile francese, taverna e luogo d’incontro di pittori, scrittori, intellettuali, da Modigliani a Francis Carco, dallo stesso Utrillo a sua madre Suzanne Valadon.
Era il periodo, prima della guerra del ‘14, in cui trionfavano nell’arte e nella vita mondana le “prime donne” del palcoscenico, la cantante Lina Cavalieri, l’attrice Sarah Bernhardt che Proust immortalerà nella “Recherche” col nome “la Berma”, Eleonora Duse interprete del teatro di CŠechov, di Shaw, di D’Annunzio. Le Esposizioni Universali avevano già creato il mito del progresso tecnico senza soste e senza confini: nelle metropoli circolavano le prime auto, le vetrine dei primi Magazzini Generali erano l’esempio tattile di una distribuzione commerciale che realizzava il salto di qualità verso una più ampia società di consumatori già bombardata dalla pubblicità.
Anni ‘30. Il musicista-scrittore Bruno Barilli, che a Parigi visse a lungo negli anni finali del secondo decennio del secolo scorso, come molti intellettuali di quell’epoca, offre memorie vivaci della Belle Epoque, del suo tramonto e della crisi dopo il primo dopoguerra, descrivendo la trasformazione subita dalla sala del Moulin Rouge: «La storia di questo stabilimento è scritta da un pittore umorista sui muri... La sala che venne rinnovata pochi anni fa era più ristretta a quei tempi... la spavalderia francese s’impegnava, come in una mischia, nei “lancieri” che allora eran di moda. Ai comandi di un direttore di “quadriglia” gli ampi mantelli scarlatti degli spahis fluttuavano, e gli zuavi dai lunghi baffi a punta e dal pizzo alla Napoleone III avanzavano a scaglioni tenendo per la mano le loro belle dai cappelli di paglia. Sciami di brillanti ufficiali dal petto coperto di medaglie portavano là dentro un soffio di gloria coloniale. Irresistibili megere, tra uno sfolgorio di guerrieri, tiravan su le gonne e si abbandonavano ai parossismi del cancan… Fu dopo l’armistizio che capitai per la prima volta in questo luogo. C’era passata la guerra, la febbre spagnuola, poi s’era abbattuto il fuoco bianco, la nevicata leggera degli stupefacenti… Un’angoscia solenne regnava nella casa. Colavano tutti con una acquiescenza collettiva verso l’orlo di un mondo che finisce, quei danzatori, e sembravano poeti condannati a morte, spoglie di preti che vanno alla deriva… Oggi la mise en scène è la stessa… ma la clientela è cambiata… Il “dopoguerra” è finito con tutte le sue prodigalità e i suoi vizi… La grandezza, lo stoicismo pauroso di quella folla che un impeto di distruzione trasfigurava, tutto è scomparso. Adesso si vivacchia là dentro. Il piccolo ceto trionfa... Un ordine borghese e una rigorosa economia presiedono quei festini... Il cancan è finito».
Una nostalgia analogamente disincantata nelle pagine che Joseph Roth dedica alla Vienna della Belle Epoque: «Regnava allora sul mondo una pace profonda e insolente. Sui giornali della monarchia si leggevano notizie della corte e notizie mondane...». Il valzer, le operette, la musica degli Strauss inducevano a pensare che il vecchio imperatore Francesco Giuseppe regnasse su dei sudditi impegnati solo nelle danze. Ma basta leggere i libri di Musil e le poesie di Rilke per rendersi conto dell’inquietudine generale; e tuttavia nessun centro internazionale indicava meglio di Vienna la vera “sociologia” del primo quindicennio del secolo: fu allora che si realizzò il passaggio da una società aristocratica a una società capitalistica, con l’adozione da parte della seconda delle abitudini della prima. Ciò fu possibile in un clima di euforia dovuto a una vasta circolazione di denaro, alla sensazione generale di aver trovato un equilibrio durevole nei rapporti internazionali. La facilità dei trasporti, i grandi alberghi, lo sport, la passione per il teatro e per le feste avvicinavano gruppi sociali assai diversi per educazione e origine. Si creò per la prima volta su scala planetaria una sorta di “internazionale” dei gusti e del piacere facilitata dalla diffusione dei settimanali illustrati con fotografie: l’inaccessibilità della vita di corte lasciò il posto alla vita del grande albergo internazionale, della metropoli o della stazione di villeggiatura, dove si sfoggiavano automobili e abiti di grande sartoria: i creatori di moda, soprattutto parigini, divennero personaggi del bel mondo, e, come il celebre Paul Poiret, davano feste da mille e una notte.

Ovunque, ormai, a Parigi, a Vienna, a Berlino, come a Londra e a New York, «piaceva il superuomo e la natura bruta, si adorava la salute e il sole, ma anche la delicatezza delle fanciulle minate dal mal sottile; ci si entusiasmava per il credo eroico e per il credo sociale della piccola gente; si era credenti, scettici, naturalisti, ricercati, forti e malaticci; si sognavano i viali di un vecchio castello, giardini autunnali, stagni vitrei, pietre preziose, hascisc, malattie, nature demoniache, ma anche praterie, orizzonti grandiosi, officine di fabbro e di fabbrica, lottatori nudi, rivolte di schiavi, coppie umane primigenie e la distruzione della società». Secondo queste parole di Musil (da “L’uomo senza qualità”), c’è dunque un’unità nella molteplicità contraddittoria, una “febbre” comune piena di impulsi confliggenti.
La Belle Epoque venne prima della Grande Guerra, prima della Rivoluzione Russa, prima del periodo d’oro del cinema e del boom dei mass media: in seguito, con l’esplosione di questi eventi, le attese e le contraddizioni si polarizzarono. Non mutò totalmente il clima: gli anni Venti “folli” e nostalgici somigliavano all’età che li aveva preceduti, con questa differenza: mentre prima nessuno sapeva veramente che cosa stesse per succedere, dopo l’indirizzo del futuro era segnato. Si leggano le pagine con le quali Svevo conclude “La coscienza di Zeno”, scritto dopo il primo conflitto mondiale, tenendo presente che il tempo della narrazione apparteneva al 1916: «La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria e impedito il libero spazio. Può avvenire il peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere nell’aria. Ne seguirà una grande ricchezza nel numero degli uomini... Chi ci seguirà dalla mancanza di aria e di spazio?... L’occhialuto uomo inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole... La legge del più forte sparì e predomina la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie». Questa, l’eredità che gli anni Venti lasciarono al secolo XX e, per echi non spenti, ai nostri giorni.

Era un universo che moriva. Nel passaggio fra ‘800 e ‘900 la fotografia si trasformava in cinematografo: simultaneamente, cambiava la percezione visiva e conoscitiva degli uomini. Per usare le parole di Bergson, il filosofo preferito da Proust, «dinanzi allo spettacolo di questa mobilità universale, alcuni di noi saranno presi da vertigini. Il fatto è che sono abituati alla terra ferma; non possono abituarsi al rollio e al beccheggio. Hanno bisogno di punti fissi ai quali appendere il pensiero e l’esistenza». Non era più possibile il riferimento a un oggetto statico della conoscenza nel senso positivistico del termine. Si scopriva allora che il dato e il documento non erano l’oggetto, ma il frutto di una determinata procedura di osservazione che poteva distruggere il conforto della certezza e dell’evidenza immediata. Di conseguenza, le scienze matematiche, la geometria in particolare, attraversarono la più grave crisi di identità della loro storia. La negazione del quinto postulato di Euclide (nel piano, per un punto esterno ad una retta “r” si può condurre una e una sola parallela a “r”) aprì la possibilità di ammettere molte geometrie “non euclidee”, tutte perfettamente funzionanti purché si rinunciasse alla intuizione sensibile normale.
Ma, come nel Rinascimento, era la sconvolgente “immagine del mondo” offerta dalla fisica a trasmettere ai non addetti ai lavori (ora diventati masse, non più gruppi ristretti e acculturati) il sentimento dell’instabilità, della problematicità del reale. Era capovolta l’idea di un universo, pur copernicano, ma sempre uguale a se stesso, indipendente dal sistema di riferimento scelto per guardarlo e dall’intervento dell’osservatore.
Nel novembre 1911, Ernest Solvay, l’industriale belga produttore della famosa soda, su suggerimento del fisico tedesco Walther Hermann Nernst, organizzò un consiglio di 21 eminenti fisici europei che si riunì a Bruxelles per dibattere sulla nuova “fisica quantistica”: si trattava di registrare una rivoluzione avvenuta. Nel 1878, anno in cui il tedesco Max Planck aveva scelto come argomento della sua tesi di laurea all’università di Monaco la “termodinamica”, (dottrina della conservazione, trasformazione e dissipazione dell’energia), il docente relatore poteva ancora sconsigliargli l’attività di fisico perché la scoperta dei principii termodinamici compiuta da Rudolf Casius e William Thompson nel 1850-70 «aveva posto la parola conclusiva all’edificio della fisica teorica». Erano bastati meno di trent’anni perché proprio Plank, dapprima deciso antiatomista, dimostrasse che non solo la materia era atomica, ma anche la luce. La natura, dunque, fa salti: l’irradiazione della luce non avviene in maniera continua, ma come a gocce, in singoli “quanti”, che si muovono con la velocità della luce e sono misurabili nella loro quantità di energia, nel peso e nelle dimensioni. La “differenza qualitativa” fra “etere” e “materia” lasciava il posto a una “differenza quantitativa”. D’altronde, a fare in modo che il nuovo universo fisico fosse sempre meno concepibile in immagini comuni, nel 1905 era comparsa la prima formulazione della teoria einsteiniana della relatività. E poco tempo prima, nel 1903, i coniugi Pierre Curie e Marie Sklodowska avevano isolato dalla pechblenda un nuovo elemento, il radio, e una misteriosa energia, la radioattività, che avrebbe colorato il secolo maturo con i suoi bagliori apocalittici.

Era ormai al tramonto definitivo anche la fede nell’esistenza di norme fisse, naturali, a cui, come la conoscenza, anche i comportamenti umani dovessero far capo: nel passato, la nascita di “nuovi mondi” e nuovi sensi comuni dalla crisi dei vecchi era stata il prodotto di uno sforzo di risistemazione lento nel tempo, tale da apparire quasi immobile a chi non avesse una diretta e specifica pratica intellettuale. Nei primi vent’anni del ‘900, invece, i cambiamenti, sempre più veloci e macroscopici, erano sotto gli occhi di tutti: la scienza era ancora un’avanguardia del senso comune, ma la sua distanza dal volgo era pressoché cancellata dall’informazione di massa.
Qualche testimonianza diretta. Stephan Zweig sottolineava in “Il mondo di ieri” l’età d’oro della sicurezza borghese-aristocratica nella Vienna Belle Epoque: «Tutto sembrava destinato a durare in eterno nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria... La nostra valuta, la corona austriaca, circolava sotto forma di lucenti monete d’oro, e appariva così assolutamente inalterabile. Ognuno conosceva l’ammontare del proprio patrimonio, sapeva quanto gli spettasse, che cosa era permesso e che cosa proibito. Ogni cosa aveva norma, misura e peso ben definiti… Tutto era saldo e inamovibile, al posto giusto in quel vasto regno, e al posto più alto c’era il vegliardo imperatore… Nessuno pensava a guerre, rivoluzioni e sovvertimenti. Radicalismo e violenza sembravano ormai impossibili nell’era della ragione».
Ma dietro la facciata borghese di quella che poi sarà definita “finis Austriae”, Musil vedeva qualcosa di più: «Nessuno sapeva veramente che cosa stesse per succedere; doveva nascere forse un’arte nuova, un uomo nuovo, o sarebbe avvenuto un capovolgimento dell’ordine sociale?... Dovunque insorgevano gli uomini per lottare contro ciò che era antiquato... Fiorivano ingegni che in altri tempi soffocavano sul nascere, e individui che in altri tempi non avrebbero partecipato alla vita pubblica». E se il ministro francese dell’industria, inaugurando l’Esposizione del ‘900, poteva affermare: «Le forze della natura furono domate e disciplinate; il vapore e l’elettricità diventarono servi docili; la macchina divenne regina del mondo; l’organismo di ferro e d’acciaio ha scacciato il lavoratore di carne e d’ossa facendolo suo ausiliare... La scienza moltiplica i suoi servigi e trionfa dell’ignoranza e della miseria»; era anche ben fondato quanto diceva ancora Musil: «Attraverso il groviglio delle fedi alitava, come un solo vento che piega tanti alberi, uno spirito di setta e di riformazione, la coscienza felice di una rottura e di un nuovo inizio...». Uno spirito diffuso, alla ricerca di un nucleo intorno al quale aggregarsi, prima che si delineasse l’aspetto più vistoso del «risveglio del mondo dall’incantesimo» di cui avrebbe parlato Max Weber, il quale, lucidamente scettico, avrebbe tentato di limitare la crisi dell’egemonia borghese. Non a caso la sua ricerca rigorosa di un fondamento scientifico per la sociologia è stata spesso paragonata al pensiero e alla filosofia negativa di Nietzsche, mentre l’ipotesi freudiana dell’inconscio era certamente il punto focale di una più vasta e articolata riflessione di ordine psicologico.

In analogia con l’indagine scientifica della più intima dimensione dell’uomo, anche la letteratura e l’arte si interessavano sempre più di settori psichici fino ad allora trascurati anche dal filone tradizionale del romanzo psicologico: sogni, desideri, ansie, ricordi d’infanzia sepolti, conflitti e disagi interiori, nevrosi, fobie, psicosi divennero argomento privilegiato di una letteratura che abbandonava i grandi affreschi ottocenteschi (Manzoni, Hugo, Tolstoj di “Guerra e pace”, ecc.), per dedicarsi all’analisi di un individuo che non sapeva più di esistere come unità e forma continua nel tempo.
Al sorgere del secolo e lungo gli anni che avrebbero condotto alla Grande Guerra, i romanzi di Gide, e poi, con taglio molto diverso, di Proust, in Francia; il teatro di Joyce e “La coscienza di Zeno” di Svevo sconvolsero le coordinate psicologiche e l’architettura razionale della narrativa naturalista e verista. Il personaggio-uomo si deforma ed esplode, è il pirandelliano “Uno, nessuno e centomila”; la sua memoria è scissa in ricordo convenzionale e inutile, diventando illuminazione involontaria di una nuova “durata” psicologico-sensibile, un proustiano tempo ritrovato e perennemente reversibile. Egli è “inetto” (Svevo), incapace di scelte attive, malato di indecisione, e non comunica se non la coscienza di non poter comunicare.
Già nel 1902 Hugo von Hofmannsthal, scrivendo l’immaginaria Lettera di Lord Chandos all’anziano Francis Bacon, coglieva poeticamente il senso di una crisi definitiva del linguaggio: «Le parole astratte, di cui la mia lingua deve necessariamente servirsi per esprimere un giudizio, si sciolgono nella bocca come funghi marci... Tutto si rompe in frammenti, sempre più piccoli, e non posso afferrare più nulla con un solo termine. Le parole mi vagano attorno, si materializzano in occhi che mi guardano…». Del resto, l’insufficiente comunicabilità e l’impotenza conoscitiva e poetica della parola erano state dichiarate in anticipo sui tempi dal simbolismo francese dopo Baudelaire, soprattutto, negli anni Novanta del XIX secolo, da Valéry.

Se i cultori della parola letteraria erano sempre più consapevoli della inadeguatezza dello strumento, non meno profonda si rivelava la crisi espressiva degli altri linguaggi artistici, dalla musica alla pittura. Già Wagner, con il “Tristano e Isotta”, dopo aver frantumato lo schema dell’opera lirica, trasformando le sue creazioni in “Wort-Ton-Drama”, (dramma di musica e parole), cioè in rappresentazioni di teatro totale in cui l’elemento poetico fosse generatore della dimensione musicale e scenografica, aveva iniziato la deformazione del sistema tonale mediante l’uso del cromatismo e dell’enarmonia. Wagner moriva a Venezia nel 1883, mentre era di nuovo Vienna ad assumere il primato della tradizione e insieme della più ardita innovazione nella cultura musicale europea, anche se non va dimenticata, in Ungheria e fra Pietroburgo e Parigi, la presenza simultanea di altri due giganti del modernismo musicale, Bartók e Stravinskij.
Nel giro degli anni fra i due secoli, ma soprattutto dal 1906, si disegnarono i contorni della Scuola di Vienna. Animato da Schonberg, teorico dapprima della atonalità e poi della tecnica dodecafonica, e costituito da Berg e Webern, il cenacolo musicale austriaco impostò una rivoluzione proprio rileggendo la tradizione, di cui le grandi architetture sinfonico-corali di Mahler parvero portare all’estremo limite i tratti. Aleggiavano, alle spalle di questi nuovi protagonisti, i profili di Nietzsche e di Schopenhauer. La lezione mahleriana sulla funzione fondamentale del “silenzio” nella struttura della composizione sembra molto vicina alla concezione schopenhaueriana della “morte dell’arte”.
Un’analoga crisi di linguaggio attraversarono, nello scorcio tra i due secoli, le arti figurative, particolarmente la pittura. I centri dell’innovazione su scala europea saranno ancora la grande Vienna e la vulcanica Parigi. Nella “capitale dell’800” e dell’impressionismo era stato fondato nel 1903 il Salon d’Automne, nel quale, due anni dopo, si registrò la nascita del termine “fauves”, con uno dei primi scandali dell’avanguardia figurativa parigina. Nella sala in cui esponevano Matisse e Derain si trovava una piccola scultura accademica, davanti alla quale un critico tradizionalista esclamò: «Donatello parmi les fauves!». Il termine spregiativo venne accolto come una bandiera dai componenti del gruppo, che in realtà trovavano un terreno comune più nell’uso acceso e dissonante del colore che non in precise dichiarazioni programmatiche. E’ interessante notare che una fase fauve si manifestò anche nei maggiori cubisti, e che d’altra parte molti fauves finirono per approdare nel cubismo. Ma anche a proposito del più noto movimento rivoluzionario della pittura del ‘900 non è facile parlare di un preciso programma-manifesto. Picasso, infatti, amava ripetere: «Quando abbiamo fatto del cubismo, non avevamo alcuna intenzione di fare del cubismo, ma solo di esprimere ciò che era in noi».

La visione impressionistica del grande ciclo franco-belga nelle sue vibrazioni luminose aveva colto – appunto – morbide impressioni sulle cose che apparivano al lampo balenante della luce: rendeva con grazia l’effimero, l’immediatezza passeggera delle emozioni, la frantumazione minuta delle cose lungo gli attimi dell’illuminazione. Ma già Cézanne, stanco dei fremiti istantanei di quella luce, ne aveva bloccato gli eccessi con una solidificazione geometrica, o per meglio dire, con una ricostruzione della forma per piani geometrici. Questa operazione mentale stava all’origine della scomposizione/ricomposizione cubista: così come l’intensa ricerca finale di Monet rivelava una tendenza all’astrattismo, che sarà guardata attentamente dal polo viennese di Kandinskij e del Cavaliere Azzurro (Der Blaue Reiter). Monet, infatti, con un progressivo distacco dagli elementi più naturalistici del paesaggio, giunse a una dissoluzione pressoché totale delle forme oggettuali e dei profili umani; il magma di colore fu una via lirica ed emotiva verso la distruzione dell’oggetto, una risposta di origine tardo-ottocentesca al problema che inquietava cubisti, astrattisti, avanguardie d’ogni tipo: come combattere la convenzionale, massificata e consumistica “civiltà dell’immagine” che la Belle Epoque fotografica, tecnologica, “rotocalchistica”, e poi cinematografica, aveva costruito come una gigantesca ragnatela di condizionamento culturale, impalpabile e inavvertito.

Furono tuttavia Picasso e Braque a dar vita alla più radicale mutazione del linguaggio pittorico. Gli anni fatidici per i cubisti, come del resto per l’astrattismo, furono quelli tra il 1907 (data delle “Demoiselles d’Avignon” picassiane, “scandaloso” e già cubista ritratto di un gruppo di prostitute) e il 1910/12. La visione pittorica si solidificò intorno ai volumi “barbari” e primordiali da idolo africano: il clima si fece rituale, la deformazione dei tratti naturalistici divenne un’aspra ma grandiosa visione della vita. Anche in Braque l’oggetto, preso dal reale quotidiano, aperto dall’interno per scoprirne tutte le sfaccettature, venne vivisezionato, rischiò la totale frantumazione, ma resistette e rinacque come emblema di un modo inaudito di sperimentare la realtà. Come l’artista amava ripetere: «La scienza rassicura. L’arte è fatta per turbare».
Sul finire del XIX secolo, nella maggior parte dei Paesi a sviluppo avanzato, il campo teatrale sembrava, fra tutte le forme d’arte, quella maggiormente dominata da un gusto medio borghese: non senza le eccezioni, che finiscono per confermare la regola. La scena era lo strumento ancora centrale nella formazione dell’immaginario della middle class (sarà necessario giungere agli anni Venti/Trenta del secolo successivo perché subentrasse il cinema) e nell’organizzazione del divertimento serale. Palcoscenico e platea erano i due poli dialettici di un rito, insieme mondano ed estetico, di un segno di appartenenza a un ceto e a un’ideologia.
Non era più tempo di tragedie, ma di una commedia borghese che aveva per temi fondamentali avventure e disavventure di patrimonio o di cuore, espresse in un arco emozionale che oscillava fra il melodramma patetico e il grottesco di quella forma di rappresentazione tipicamente Belle Epoque che si usa definire “vaudeville”. Era ancora Parigi, infatti, a fornire il repertorio vincente per il gusto medio e convenzionale: mentre la critica dissacrante della società, la “malattia” dello spirito e della carne, il tramonto di un’epoca, la deformazione di inquietanti personaggi in cerca d’autore, erano i temi che al palcoscenico giungevano da Shaw, Ibsen, CŠechov, Pirandello, solo per citare i maggiori.
La scossa più violenta venne dalle proposte-manifesto del Futurismo. L’avanguardia iconoclasta, capeggiata da Marinetti, aggredì i palcoscenici con le “Grandi Serate Futuriste”: non più la riproduzione mimetica “normale” degli intrecci quotidiani, ma un approccio senza mediazioni “con la modernità e la contemporaneità” attraverso nuovi generi di recita: «Le battute in libertà, la simultaneità, la compenetrazione, il poemetto animato, la sensazione sceneggiata, l’ilarità dialogata, l’atto negativo, la battuta riecheggiata, la discussione extralogica, la deformazione sintetica, lo spiraglio scientifico, la coincidenza».
La guerra, i regimi rivoluzionari e quelli totalitari ridaranno alla quotidianità una dimensione spettacolare di masse in movimento, epico-eroica, in alcuni casi autentica, in altri di pura propaganda, contribuendo comunque alla maturazione di nuovi sperimentalismi, con Gor’kij, Majakovskij, Wedekind, Toller, Piscator, mentre all’orizzonte si profilavano la figura e l’opera di Brecht.

In quarant’anni era cambiato il colore del cielo e della terra. La seconda rivoluzione industriale non aveva riguardato solo le nazioni già industrializzate, ma anche Paesi come l’Italia, la Russia, l’Austria, la Scandinavia, e soprattutto gli Stati Uniti e il Giappone. Nuove fonti energetiche, come il petrolio e l’elettricità, prodotti come l’acciaio e l’alluminio, invenzioni quali il telefono, il telegrafo e il motore a scoppio, posero le basi del mondo moderno. Nuovi tipi di banche, aziende gigantesche e alleanze monopolistiche sostituirono le più tradizionali istituzioni economiche, di tipo familiare. I cicli positivi o negativi dell’economia divennero di respiro planetario. Le materie prime erano assicurate dai Paesi colonizzati. Il boom demografico favorì migrazioni di massa e inurbamento. Nacquero i conglomerati industriali e, per converso, i quartieri operai e proletari. Cambiò il volto delle città: dapprima fu liberty e déco, poi, per reazione, fu razionalismo architettonico con Le Corbusier, Loos, Gropius e la scuola del Bauhaus. Walter Benjamin parlò di «mutazione antropologica della nostra età», con le abitudini, il pensiero e i costumi imposti da treni più potenti e veloci, con la rete ferroviaria europea quadruplicata, con navi sempre più grandi, che solcavano tutti gli oceani, con giganteschi dirigibili, con biciclette, tramvie e automobili, e con gli aerei che accorciavano tempi e distanze.
Fu quest’Europa, ricca di pensiero e di scienza, a precipitare nel baratro della Grande Guerra, quando i proiettili di Sarajevo la colpirono alla testa. Al cuore sarebbe stata colpita con il secondo sterminio mondiale, quando, fatte le prove generali di strategia e di tecnologia nella guerra di Spagna, furono mobilitati 60 milioni di uomini per fare del Vecchio Continente terra bruciata. Dopo il ‘18 erano caduti gli Imperi Ottomano, di Germania e d’Austria-Ungheria. Dopo il ‘45 si disgregarono quelli coloniali inglese e francese. Quello sovietico, di stampo ottocentesco, si sarebbe avvitato da sé nell’89. L’asse della storia era inclinato a occidente, con gli Stati Uniti gendarmi del mondo.

E venne il tempo dei revisionismi, cioè delle nuove (e più veritiere) interpretazioni storiche. Se, tra gli anni Settanta e Ottanta, negli Usa, cinema e letteratura hanno del tutto modificato il giudizio generale sulla conquista del West, sulle sanguinose campagne contro i nativi e sulla guerra ispano-americana, nel Regno Unito sono emerse non poche feroci vicende che furono alla base del dominio britannico in India e nelle colonie africane, e si è attribuita a Londra la maggiore responsabilità dello scoppio della Grande Guerra. In Israele alcuni storici hanno affermato che la nascita dello Stato, nel ‘48, fu macchiata dalla violenza contro i palestinesi, costretti con la forza ad abbandonare i loro villaggi. In Germania sono stati ampiamente documentati i saccheggi e gli stupri di massa perpetrati dai “liberatori” dell’Armata Rossa. In Francia gli studiosi hanno messo in rilievo il consenso di una larga fascia della società al regime filonazista di Vichy. Alcuni personaggi che erano stati onorati (Churchill, Pio XII, e Stalin più di chiunque altro) ora sono visti in una luce diversa...
E in Italia? Dopo gli anni Sessanta, alcuni storici hanno riscritto la storia del Risorgimento e della nostra espansione coloniale in nome della quale si fece ricorso ai primi bombardamenti aerei della storia (in Libia, nel 1911), all’uso del gas (in Etiopia, nel 1936) e alla strategia delle rappresaglie. Abbiamo saputo delle insorgenze popolari nelle province italiane conquistate dalle armi bonapartiste. I testi sul primo conflitto mondiale offrono oggi versioni diverse e contraddittorie di uno stesso avvenimento. Si è alzato il velo sulle vicende delle foibe, in un’Istria che il presidente americano volle consegnare a Tito in cambio di una presa di distanza della Jugoslavia da Mosca.
Di più. Ci si è chiesti come mai solo da noi si sia costantemente verificata un’anomalia di alcuni fattori. Si sono date varie risposte, alcune oggettivamente realistiche. In primo luogo, l’Unità fu realizzata con una serie di annessioni e di ambigui plebisciti, e contro la volontà del più antico potere della Penisola, quello della Chiesa cattolica. In secondo luogo, il giovane Regno fu teatro, nelle province meridionali, di una vera e propria guerra di secessione che fu troppo lunga e accanita per essere definita semplicisticamente “lotta al brigantaggio”. In terzo luogo, fummo l’unico tra i Paesi vincitori a registrare, negli anni ‘20, una guerra civile che Sergio Romano ha definito “di bassa intensità”, che alla fine sfociò nella Marcia su Roma. Da ultimo, fra il ‘43 e il ‘45 abbiamo combattuto un’altra guerra civile, la terza in meno di cento anni. Come mai? Istruttivo il confronto con quanto si verificò negli Stati Uniti. Lì il Sud accettò la sconfitta, ma continuò a coltivare la memoria della propria identità, archiviando tuttavia i propri ricordi allorché capì che la vittoria del Nord e l’impetuosa crescita che ne seguì stavano distribuendo straordinari benefici a tutto il Paese. Non così da noi. La Grande Guerra aveva riacceso rancore sociale e dissenso politico, e la Seconda aveva riaperto tutte le piaghe. Sicché ancora oggi, Europa o non Europa, “la guerra continua”: in centocinquant’anni di Unità, generazione dopo generazione, ci si trascina dietro il ricordo di partite non ancora concluse e di conti non ancora regolati.

L’Europa che è venuta fuori dal secolo breve ha realizzato, come ai giorni della Belle Epoque, un formidabile progresso scientifico e tecnico, oltre che economico e sociale. L’uomo occidentale è sceso sulla Luna, ha accorciato il tempo aumentando la velocità delle comunicazioni, ha raggiunto progressi fino a poco fa impensabili nella medicina e nelle aspettative di vita, nei diritti umani, nella protezione sociale, nel complesso ventaglio delle libertà individuali e collettive. Disparità ci sono, e forse non può essere diversamente. Ma si è raggiunto un livello di benessere sconosciuto nel passato. Viaggiamo infinitamente di più, godiamo di maggior tempo libero, studiamo tutti quanti, spendiamo cifre consistenti in beni voluttuari, possediamo prime e seconde case, frequentiamo spiagge esotiche palestre cinema teatri stadi come mai nel passato, acquistiamo milioni di televisori, telefonini e computer... Possediamo tanto (troppo?) di tutto, mentre altri popoli (Giappone, Tigri asiatiche, Cina, India, Brasile, ecc.) realizzano spinte innovatrici potenti, venendo alla ribalta della storia contemporanea come protagonisti e comprimari, non più come masse informi di categorie subalterne.

Le tappe di questa nuova Europa. 1951: nasce la Ceca, Comunità del carbone e dell’acciaio, fondata da sei Paesi, Belgio, Francia, Germania Federale, Italia, Olanda e Lussemburgo. 1957: il Trattato di Roma istituisce la Cee. 1973: ai Sei si aggiungono Danimarca e Regno Unito, seguiti dalla Grecia. 1986: entrano Spagna e Portogallo. 1995: è la volta di Austria, Finlandia e Svezia. 1992: il Trattato di Maastricht introduce nuove forme di cooperazione e severe regole finanziarie. 1994: libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali; con Schengen cadranno anche le frontiere. 2002: inizia l’era dell’Euro (restano fuori Inghilterra, Danimarca e Svezia). 2004: Ue a 25, con l’ingresso di Cipro, Malta, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Ungheria, Slovenia, Lituania, Slovacchia e Polonia. Future candidate, Romania, Bulgaria e (più problematica) Turchia. Sotto osservazione speciale la Croazia.
Ma, partita dagli ideali dei Fondatori, che Europa è, questa, a 25? In sintesi. Quando la “Patarina”, la campana del Campidoglio, annunciò la nascita del Mercato Comune, gli inglesi crearono un contraltare, l’Efta, zona europea di libero scambio, con Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera. Londra contava sul crollo del Mec, ma fu l’Efta ad avvitarsi. Allora gli inglesi chiesero di entrare nell’altra Europa, riservandosi in seguito la facoltà di “opt out”, cioè di restar fuori dall’Eurogruppo che aveva adottato la moneta unica. Erano convinti di rappresentare un polo portante dell’asse privilegiato Inghilterra-Stati Uniti, una partnership ostile a un futuro federale europeo. I francesi, dal canto loro, avevano già fatto colare a picco la Ced, la Comunità europea di difesa, poi erano usciti anche dalla Nato. Caduto nell’89 il Muro di Berlino, l’azione di Parigi volta a realizzare una leadership francese sull’Europa si trasformò nel “sogno renano” di un direttorio franco-tedesco, ma in perfetto stile napoleonico.
L’ideale europeo aveva radici antiche. Data almeno ai Piani di pace perpetua dell’Abbé de St. Pierre, e siamo nel 1700: l’unificazione del Vecchio Continente era anche allora la condizione per arrivarci. Ma l’idea d’Europa è ancora più antica della modernità. Com’è stato riconosciuto dalla ricerca storica, bisognerebbe ripartire da certi fremiti che percorsero popoli e culture nel Medioevo, quando l’Europa non era, come invece nel Seicento, una semplice indicazione geografica, ma era indicata con il termine “Christianitas”. Ma questa parola, Cristianità, che sembra così perentoria, ha irritato la sensibilità pelosa di politici e intellettuali continentali secolarizzati. E’ paradossale, ma storicamente e culturalmente Cristianità equivale a pluralismo. Rispetto all’Asia e al dispotismo orientale si è sempre contrapposta (mille volte contraddetta, ma sempre presente come aspirazione) la “way of life” europea, proprio per la sua essenza di libertà. E’ stato il pluralismo dei governi, a cominciare dagli anni della lotta per le investiture e delle tensioni fra Chiesa e Impero, a suscitare la nascita della libertà occidentale. Essa è il prodotto involontario della limitazione delle sovranità, che hanno sempre lasciato spazio ad altri attori.
I residui non secondari di quelle sovranità, tra i 25, sono rimasti inalterati, grazie alla conservazione del diritto di veto, che esalta lo spirito conservatore degli Stati-nazione. Coloro i quali lo hanno voluto sono prigionieri degli aspetti più fallimentari della storia europea, e non è facile ipotizzare che non lo sapessero. Si richiamano alla storia americana, ma in cuor loro sono convinti di imitare storie ben più nostrane, storie molto europee di dissoluzioni statuali. La libera e indipendente Polonia ci rimise libertà e spazio di manovra dal giorno in cui introdusse nella Costituzione il “liberum veto” e cominciò a farne, tra il ‘600 e il ‘700, un uso dapprima sistematico e poi autodistruttivo. La clausola consentiva ad ogni deputato di interrompere le sessioni parlamentari con la frase “Non permetto”: precisamente come possono fare oggi i Paesi dell’Ue. Ogni trattativa si interrompeva quando un deputato accampava il veto, e fu questa clausola che portò il Paese alla rovina, alla spartizione, infine alla scomparsa per oltre centovent’anni. Ed è significativo che le potenze che intendevano controllare i destini polacchi (Russia e Prussia) a tutto erano disposte, tranne che all’abolizione di quel veto immobilizzante. Il “liberum veto” aprì la strada a quella che il patriota Tadeusz Kosciusko chiamò “finis Poloniae”, la fine dell’indipendenza e poi della stessa nazione polacca.
Impressionante il silenzio di Varsavia, oggi, su questa norma che rischia di suggellare allo stesso modo la “finis Europae”. A conferma, questo, che vi sono potenze, dentro e fuori Europa, che vogliono indebolirla proprio ora che ha vinto la sua battaglia post-guerra fredda ed è cresciuta negli spazi. Non a caso esulta Parigi, che persegue la sua stolta politica di grandeur. Ed esulta Londra, sostenendo d’aver vinto la battaglia, come esultano gli Usa, che su Londra e Varsavia puntano per dominare su un continente nient’affatto marginale per loro, e tanto più prezioso quanto più diviso. Un continente senza visione politica, senza spada comune, senza moneta uguale per tutti. Ma con inno, bandiera e obbligo di unanimità. L’Europa, sebbene a 25, è ancora ferma qui.

   
   
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