Dicembre 2004

Indagini & Rapporti

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Un risparmiatore
previdente
D.M.B. - M.B.  
 
 

 

 

La situazione
esistente rischia di creare un rilevante problema futuro, con alcune
generazioni che potrebbero
rientrare a pieno titolo nello
stereotipo del
“povero vecchio”.

 

Secondo la XXI indagine Centro Einaudi-Bnl, il risparmio italiano ha sofferto nel corso del 2003 per motivi sia internazionali sia nazionali. Dal punto di vista internazionale basta citare l’accentuata volatilità dei mercati finanziari legata alla guerra in Iraq e alla fine della recessione negli Usa. Dal punto di vista interno, occorre ricordare il clamoroso dissesto Cirio (cui è seguito quello Parmalat).
I risparmiatori fanno quindi sempre più fatica a trasformarsi in investitori attivi e in misura crescente scelgono di parcheggiare il risparmio in impieghi ad elevata sicurezza e liquidità. Infatti le alternative sembrano mancare: da una parte ci sono impieghi a redditività bassissima o addirittura negativa in termini reali; dall’altra ci sono strumenti sempre più rischiosi, che non si limitano ai titoli azionari ma anche alle obbligazioni, sia private (Cirio, Parmalat e altri gruppi) sia pubbliche (Argentina). Stretti fra la Scilla del rendimento nullo e la Cariddi del rischio, i risparmiatori decidono, comprensibilmente, di non investire le proprie disponibilità.
Oltretutto, il deficit di credibilità del settore finanziario si è aggravato, particolarmente negli Usa. Dopo gli scandali associati alla “ripartizione truccata” dei titoli offerti in sottoscrizione iniziale dalle aziende durante il periodo 1999-2000, emersa nel 2002, e dopo gli scandali legati alla cattiva gestione delle aziende che presentavano bilanci falsi, nel 2003 sono venuti a galla altri dettagli molto spiacevoli, il più clamoroso dei quali riguardava i fondi comuni stessi. Per capire la centralità di questo scandalo, basta pensare che i fondi comuni di investimento sono stati “l’invenzione del secolo scorso” negli Usa. Offrendo la possibilità di investire in Borsa in maniera diversificata, hanno aumentato la partecipazione del pubblico
alla detenzione di titoli azionari e hanno contribuito al forte aumento dei prezzi.
Nel 2003 è emerso che non tutti gli investitori erano in grado di avvantaggiarsi nello stesso modo della possibilità di acquisire fondi comuni. Alcuni investitori privilegiati potevano eseguire operazioni ai prezzi di chiusura, dopo la chiusura stessa dei fondi comuni. Altri avevano la possibilità di fare frequenti compravendite delle quote dei fondi stessi a discapito degli investitori di lungo periodo. Gli investitori americani non erano dunque tutti uguali: alcuni potevano guadagnare a spese degli altri, in maniera oscura e illegale. Questo scandalo ha minato al cuore la credibilità del sistema finanziario americano. La credibilità potrà essere riconquistata non con la buona volontà del settore degli intermediari finanziari, ma mediante una regolamentazione ampia e incisiva, che impedisca ai furbi di diventare ladri.
Fortunatamente l’Italia non è stata fino a questo momento coinvolta in questo disastro finanziario. Peraltro, molti ritengono che il vero motivo di questa diversa sorte del sistema finanziario italiano e americano sia legata alla diversa capacità dei regolamentatori più che alla diversa realtà istituzionale. Per fortuna, dunque, i risparmiatori italiani continuano a risparmiare.
E non potrebbe essere altrimenti, data la mole di preoccupazioni che grava su di loro: da un senso di generale timore verso il futuro, dimostrato dal peggioramento sulle aspettative di reddito, a uno specifico senso di consapevolezza sul deficit di ricchezza (e quindi di reddito) nell’età della pensione, alla consapevolezza che la capacità di risparmio è un fenomeno forzato e non una scelta da parte di individui che decidono di comportarsi da cicale. In queste condizioni, la “materia prima” non può mancare. Il problema è che senza un corretto funzionamento del sistema finanziario la materia prima non può essere trasformata in un servizio per il sistema economico in maniera efficiente.

Mercati finanziari ed economia reale

Il primo semestre 2003 è stato un periodo estremamente volatile dal punto di vista dei mercati finanziari globali. L’unica isola di relativa stabilità è stata rappresentata dai tassi di interesse, che si sono mossi gradualmente in un unico senso, e come risultato hanno raggiunto i valori minimi da svariati decenni a questa parte; la Federal Reserve negli Usa ha ridotto il tasso sui federal funds al livello dell’1%, la Banca centrale europea ha abbassato il costo del denaro al 2%.
Le valute sono state caratterizzate da qualche stabilità nel contesto di un trend di indebolimento del dollaro. Il cambio fra euro e dollaro aveva chiuso il 2002 a un livello di circa 1,05 per portarsi a 1,15 alla fine di giugno 2003, ma dopo aver toccato punte superiori a 1,18 durante lo stesso mese. Al contrario, i tassi di interesse a lungo termine e i prezzi di Borsa hanno fluttuato in maniera estrema, sia in Europa sia negli Usa. Il tasso di interesse offerto dal titolo decennale tedesco è sceso dal 4,2 al 3,8% tra l’inizio di gennaio e la fine di giugno, per tornare al 4,1% verso la metà di luglio. Il tasso di interesse del decennale americano tra la metà di giugno e la metà di luglio è salito di quasi 100 punti base, raggiungendo il 4,14%. Il differenziale fra il tasso di interesse sui titoli obbligazionari a dieci anni tedeschi e americani, pari a circa zero a inizio 2003, si è ampliato a 40 punti base in maggio, per diventare negativo a luglio.
Le quotazioni dei titoli azionari hanno fluttuato in modo rilevante. L’indice S&P500 della Borsa americana ha iniziato il 2003 a un livello di 880 per scendere a 800 a metà marzo e superare quota 1.000 a metà giugno. L’indice Nasdaq ha iniziato il 2003 a 1.400 per arrivare a 1.270 a metà marzo e superare quota 1.700 a luglio. Nelle stesse date il Mibtel ha toccato rispettivamente quota 17.485, 15.125, 18.700, e l’indice Dax della Borsa tedesca è passato da 2.892 a 3.200.
Si tratta di movimenti molto ampi. Un aumento di 100 punti base nel tasso di interesse pagato da un titolo decennale equivale a una diminuzione del 10% circa del valore dell’investimento. I movimenti dell’indice S&P500 equivalgono a una diminuzione del 10% e a un aumento del 25% dai minimi. Per l’indice Dax le cifre sono addirittura -23% e +45%.

Al contrario, l’economia reale si è mostrata relativamente stabile, purtroppo con un’intonazione di fondo relativamente debole. Le previsioni di ripresa sono state sistematicamente spostate in avanti, verso la seconda metà del 2003 da qualcuno, e verso il 2004 da altri. Il Pil negli Usa è cresciuto a tassi superiori a quelli europei, ma insufficienti a consentire un riassorbimento della disoccupazione, che infatti è costantemente aumentata sino a toccare il 6,4% alla fine del primo semestre 2003. In Europa si è molto vicini alla crescita zero. La produzione industriale in Italia ha accusato battute d’arresto preoccupanti, e ha motivato un dibattito sulla competitività del Paese e sulla necessità di riforme strutturali. L’inflazione è bassa ovunque, dall’1% della Germania al 2% di Eurolandia e degli Usa. Gli utili delle imprese americane sono cresciuti, ma soprattutto grazie ai tagli occupazionali e al contenimento dei costi, non certo grazie a un aumento dei ricavi. In queste condizioni, l’aumento dell’utile aziendale equivale ad addossare al bilancio pubblico una parte dei costi. Infatti, i disavanzi pubblici sono esplosi ovunque, sia negli Usa, su valori vicini al 4% del Pil, sia in Europa, dove gli scostamenti del rapporto disavanzo-Pil da parte dei grandi Paesi, rispetto al valore fissato dal Patto di Stabilità, sono ormai la norma più che l’eccezione.

Il patrimonio delle famiglie italiane

Questo il quadro di sintesi sull’evoluzione dei portafogli finanziari delle famiglie italiane. La quota destinata a liquidità, titoli a breve e a medio / lungo termine è passata dal 43,6% di fine 2001 al 49,4% di fine 2002. La quota destinata a fondi comuni, azioni e partecipazioni ha proseguito la discesa dal 36,5% del 2000 al 32,2% del 2001 e al 26,3% del 2002. Nel totale, le attività finanziarie salgono di circa il 2% rispetto al 2002.
La diversificazione internazionale di portafoglio scende ulteriormente: le attività sull’estero calano dal 9,7% al 7,7% del totale delle attività finanziarie e in valore il flusso è negativo per oltre 11 miliardi di euro, un profondo cambiamento dal flusso positivo di oltre 22 miliardi di euro nel 2001.
Occorre ovviamente ricordare la rilevanza dello scudo fiscale nelle scelte degli investitori italiani: per quanto la localizzazione del risparmio sia in linea di principio indipendente dalla destinazione dello stesso presso attività nazionali o estere, è ovvio che nel passaggio da intermediari finanziari esteri a italiani ci sia stata una tendenza all’aumento della domanda di attività interne.
Le cifre fornite dalla Banca d’Italia si riferiscono ai soli patrimoni finanziari. Per avere un’idea complessiva della ricchezza aggregata occorre stimare il valore del patrimonio immobiliare. Bankitalia, nella relazione sulla situazione economico-finanziaria delle famiglie italiane, a fine 1998 stimava un valore medio di ricchezza immobiliare pari a 218 milioni di lire per famiglia. Ipotizzando l’esistenza di 21.200.000 nuclei familiari alla fine del ‘98, e tenendo conto di un aumento medio del prezzo delle abitazioni del 9,5% per il ‘99, del 13,6% per il 2000, del 14,2% per il 2001 e del 15,1% per il 2002 (dati Nomisma), si ottiene un valore totale di patrimonio immobiliare pari a circa 3.713 miliardi di euro a fine 2002. Sommando le voci delle poste finanziarie della Relazione annuale di Bankitalia, pari a 2.519 miliardi di euro, al valore degli immobili, si ottiene quindi un dato della ricchezza patrimoniale (finanziaria e immobiliare) pari a circa 6.232 miliardi di euro a fine 2002, contro il valore di 5.862 a fine 2001. La ricchezza complessiva è quindi cresciuta del 6% nel 2002; il patrimonio immobiliare rappresenta ormai il 59% della ricchezza complessiva. La composizione del patrimonio complessivo è la seguente: 12% in liquidità, 17% in obbligazioni nazionali, 3% in obbligazioni internazionali, 6% in azioni nazionali, 2% in azioni internazionali, 59% in immobili, il resto nella categoria di altre e minori attività finanziarie.

Qual è il rischio e quale il rendimento atteso del patrimonio complessivo detenuto dalle famiglie italiane? Il calcolo è stato effettuato sulla base delle seguenti ipotesi. Il rendimento atteso delle obbligazioni italiane ed europee è stato posto pari al 3%, valore che tiene conto del rendimento delle obbligazioni europee con tre anni di vita residua. Per le obbligazioni internazionali, 2,5%, ottenuto dal tasso di interesse delle obbligazioni internazionali negli Usa e dall’ipotesi di stabilità del tasso di cambio fra euro e dollaro. Per i titoli azionari internazionali, 6,5%, stima coerente con una valutazione del premio al rischio compreso fra il 4 e il 4,5%. Per i titoli azionari italiani, 7,5% medio all’anno, che tiene conto di un ulteriore premio dell’1% legato alla maggiore rischiosità di un investimento poco diversificato. Per gli immobili, un prudente 4%, per tenere conto di una stabilizzazione dei prezzi degli immobili in una fase di possibile aumento dei tassi di interesse. Con queste ipotesi si ottiene un rendimento atteso del 3,6%.

La previdenza

I precedenti rapporti rilevavano una scarsa attenzione degli italiani per il tema della pensione privata. Ora il 52% afferma di pensare spesso al problema dell’insufficienza del livello di reddito al momento della pensione. Anche nel 2003 i fondi pensione di categoria o aperti presentano una diffusione inferiore a quella di strumenti tradizionali come veicolo scelto per l’investimento di lungo periodo: il 29% (in calo dal 35 dello scorso anno) ha una polizza sulla vita che garantirà un vitalizio, il 46% (dal 43) vuole investire solo per la vecchiaia, il 14,6% (dal 16) aderisce a un fondo pensione di categoria, il 5,7% (dal 6,5) a un fondo pensione aperto.
E’ globalmente stabile la disponibilità a risparmiare nei fondi pensione: se è vero che il 25,8% (dal 24% dell’anno precedente e dal 21% del 2001) afferma che non sarebbe disposto ad accantonare alcuna parte delle proprie entrate correnti per investire in un fondo pensione, e il 20% (dal 16) sino al 2% delle entrate correnti, è anche vero che il 20% (dal 23) accantonerebbe ogni anno tra il 2% e il 4% delle proprie entrate.

Alla domanda su quale sia il modo per ottenere il miglior rendimento dai contributi pensionistici dei lavoratori, con riferimento alle recenti discussioni sulla possibilità di impiegare il Tfr presso fondi di pensione, il 16% ritiene che sia preferibile mantenerlo nella versione attuale, il 3% che sia meglio lasciare i fondi presso le aziende, affidando a queste la gestione finanziaria, il 6,6% che sia meglio affidare le risorse a fondi di pensione liberi di effettuare la gestione finanziaria secondo le loro competenze, il 15,8% che sia bene lasciare agli individui la gestione dei contributi, il 48% che sia la cosa migliore lasciare ai singoli individui la scelta relativa non solo alla gestione finanziaria, ma anche alla somma da risparmiare.
In complesso, si tratta di un quadro poco entusiasmante. Gli italiani non sembrano prepararsi adeguatamente al problema pensionistico, che secondo gli esperti si presenterà tra qualche anno. Alcuni calcoli suggeriscono che, pur in presenza di un sistema pensionistico pubblico capace nelle varie ipotesi di pagare una pensione pari al 50% del salario medio dell’ultimo decennio di vita lavorativa, è necessario risparmiare il 10% del reddito per poter mantenere il livello di consumo. Neppure il solo aumento del rendimento medio ottenuto dall’investimento finanziario può fare molto per controbilanciare il declino del patrimonio. La variabile cruciale pare essere la propensione al risparmio e non il rendimento finanziario.
La scarsa propensione all’accumulazione di risorse pensionistiche può certamente essere inquadrata nel comportamento precedentemente descritto, caratterizzato per alcuni dall’assenza di progettualità futura a livello economico e per altri dalla difficoltà di procedere al mantenimento di un soddisfacente livello di risparmio in presenza di risorse scarse. La situazione esistente rischia di creare un rilevante problema futuro, con alcune generazioni che potrebbero rientrare a pieno titolo nello stereotipo del “povero vecchio”.

Trasparenza ed efficienza del sistema bancario italiano

L’analisi, condotta a ottobre, ha riguardato 522 casi. La prima domanda riguardava le regole apparse sulla “Gazzetta Ufficiale” dell’agosto 2003 sulla trasparenza dei servizi bancari, ed era incentrata sul grado di conoscenza da parte degli intervistati. Il 78% ignorava le regole: dato sorprendentemente alto. La seconda domanda, rivolta solo a chi conosceva le regole, verteva sul grado di miglioramento dei servizi offerti dalle banche in virtù delle disposizioni di Bankitalia. Per il 35%, servizi molto migliorati; per il 40%, abbastanza migliorati; per il 5%, per niente migliorati. Tutto sommato, si può ritenere che il pubblico riponga grande fiducia in Bankitalia. Allo stesso tempo è importante notare come con questa iniziativa la Banca centrale italiana abbia inteso mettere sul piatto della bilancia tutta la sua reputazione e come l’efficacia delle nuove regole sarà cruciale per incrementare ulteriormente, o ridurre drasticamente, la fiducia dei risparmiatori.
La seconda domanda era legata a un altro tema caldo, quello dei “Patti Chiari”, che prevedono una serie di miglioramenti per quel che riguarda l’attenzione delle banche alle esigenze dei clienti (comunicazione dei tempi certi sulla decisione di concessione di prestiti, confrontabilità sui costi e condizioni dei conti correnti delle varie banche, ecc.). Il 22% dei risparmiatori sostiene che i risultati saranno «positivi, ma non in tempi brevi». Per il 37% saranno «positivi, ma solo fra alcuni anni». Per il 16% «risultati non positivi». Il 25% non ha voluto rispondere.
Altra domanda, sui prodotti finanziari che – come sostengono Bankitalia e Consob – devono essere venduti con corredo di dettagliati prospetti informativi che ne illustrino tutte le caratteristiche. Sull’ampiezza di informazione, 52% molto d’accordo, 32% abbastanza d’accordo, 7% poco d’accordo, 3% per niente d’accordo. Va tenuto conto che solo il 7% ritiene sufficienti le informazioni dei prospetti, mentre l’80% precisa che è necessaria la presenza di un esperto. Il ricorso a un consulente evidenzia la difficoltà dei clienti a interpretare la complessità dei prodotti esistenti sul mercato. L’interesse degli intermediari finanziari è ovviamente nel rapporto fiduciario e nella semplificazione. Quest’ultima dovrebbe contraddistinguere innanzitutto i prodotti, e dovrebbe riguardare anche la spiegazione del loro uso e delle loro proprietà, altrimenti si spingono i risparmiatori ad allontanarsi da questo tipo di acquisti.

Le caratteristiche degli investimenti finanziari

Intanto, la percentuale di chi sa quanto tempo dedica ogni settimana all’informazione finanziaria non dipende dall’età, ma sembra essere in relazione con la professione e con l’istruzione. Se è il 28% a sapere quanto tempo viene dedicato, la percentuale sale al 47% per dirigenti e funzionari, al 35% per imprenditori, liberi professionisti e insegnanti, al 28% per impiegati. Per quanto riguarda l’istruzione, le percentuali sono 33 e 32 per chi ha conseguito un diploma di scuola superiore e universitario, al 24 per chi ha un diploma di scuola media inferiore, al 21 per chi ha conseguito la licenza elementare.
Principali fonti d’informazione. La banca resta il canale più importante, con il 54%, seguita dal 16% di amici e familiari e dall’11% dei promotori finanziari. Giornali, televisione, televideo sommano al 10%, Internet è segnalato all’1,8%, in aumento dall’1,4% del 2002 ma in calo dal 2% del 2001.
Sotto il profilo delle decisioni, non è né più facile né più difficile investire rispetto all’anno precedente per il 39,2%, mentre è più semplice per il 6,2%. I principali elementi di difficoltà: la scelta fra azioni e obbligazioni per il 35,5%; seguire l’andamento degli investimenti e decidere il momento in cui investire, disinvestire o cambiare impiego (il “market timing”) per il 41,5%; la scelta di singoli titoli per il 21%; la comprensione delle caratteristiche delle proposte di investimento del mercato per il 26%.
Solo il 4,8% degli intervistati ha investito negli ultimi dodici mesi in prodotti del risparmio gestito (fondi comuni di investimento o servizi di gestione patrimoniale), in discesa dal 6,5% dell’anno precedente. La percentuale di chi ha acquistato fondi comuni è scesa al 18%, in lieve risalita dal 16% dell’anno precedente, ma ancora minore del 24% del periodo 1998-2000. Scende dal 72% al 67% la cifra di chi non ha acquistato e non ha mai esaminato materiale sui fondi.
Nella sezione relativa ai motivi per la sottoscrizione dei fondi comuni si nota la crescita della richiesta di diversificazione (59%), l’attenzione al gestore (di fiducia) e alla sua performance (rispettivamente 48% e 53%). In continuo aumento il dato relativo alla liquidabilità dell’investimento, pari al 62% (dal 44% dell’anno precedente). Emerge dunque una lieve ripresa della soddisfazione “media” dei risparmiatori per l’investimento in fondi. Quanto alla scelta dei singoli fondi, il 72% sostiene di avere sottoscritto quelli indicati dal venditore, il 28% di avere scelto personalmente. Infine, in questa fase di caduta dei mercati azionari, il 71% afferma che il venditore si è dimostrato attento alle esigenze, il 10% che è stato attento alle esigenze ma non è stato in grado di spiegare che cosa stava succedendo, il 19% che il venditore si è dimostrato disattento e non si è quasi mai fatto vedere o sentire nelle fasi di caduta dei mercati. Globalmente, in ultima analisi, un quadro con molte luci e altrettante ombre.
Per quel che riguarda i titoli azionari, si è ridotta la percentuale di chi li ha acquistati nell’ultimo anno. Si tratta di un fenomeno del tutto comprensibile, viste le forti diminuzioni dei livelli di prezzo nei mercati azionari di tutto il mondo, ma è anche necessario osservare che la tendenza a vendere i titoli azionari nei momenti di debolezza dei prezzi può essere associata a una fragilità emotiva e alla scarsa comprensione del concetto di rischio e di volatilità. Non va dimenticato che un rendimento atteso del 5% e una volatilità del 20% implicano che esiste una probabilità di oltre il 15% di conseguire un rendimento annuale inferiore a -15%. Gli eventi degli ultimi anni hanno quindi rappresentato un caso certamente inatteso, ma non tanto improbabile.
Il saldo tra la quota di quelli che si dichiarano molto o abbastanza soddisfatti e quella di coloro che sono poco o per nulla soddisfatti è diventato molto negativo, segnando un vero e proprio crollo. Aumenta in modo sensibile la percentuale dei per nulla soddisfatti, passata da 6 a 35 in soli tre anni. L’investimento azionario non ha dato, quindi, i risultati sperati. Gli italiani hanno mutato le loro opinioni in merito alla valutazione delle azioni nazionali: aumenta l’eterogeneità della valutazione, nel senso che quote crescenti di investitori pensano che il mercato sia sottovalutato e quote crescenti che sia sopravvalutato. Diminuisce la percentuale di indecisi e di chi ritiene che il mercato sia corretto.
E’ comunque interessante osservare come ancora oggi un quarto degli investitori in titoli azionari si aspettino un rendimento “a due cifre”, contrariamente alle opinioni dei professionisti e degli accademici, che si sono recentemente pronunciati a favore di rendimenti attesi dell’ordine del 5-6%.

E se il mercato crollasse del 30%? Il 4,7% ritiene che risalirebbe subito, il 24,1% che risalirebbe nel giro di sei-dodici mesi, il 37,5% nel giro di uno-tre anni, il 22% che potrebbe non risalire mai, il 12% non sa. Gli investitori stanno quindi assumendo un atteggiamento psicologico più vicino alla situazione di una crisi lunga anziché di breve durata. Molti ormai ritengono che una eventuale nuova forte discesa potrebbe richiedere vari anni prima di essere assorbita.
Paradossalmente, cresce la quota di investitori che ritiene le obbligazioni rischiose: il 22,4% le percepisce addirittura come un investimento molto rischioso e oltre il 30% non si esprime al riguardo; solo il 18% (dal 22% dell’anno precedente) le ritiene del tutto sicure. L’atteggiamento è paradossale perché trascura la possibilità di mantenere le obbligazioni in portafoglio e di percepire le cedole nominalmente stabilite, a meno che si faccia riferimento al rischio di mancato pagamento delle stesse cedole e/o del capitale.

Ancora molto modesta è la conoscenza delle obbligazioni strutturate: diminuisce dal 58 al 55% la quota di coloro che non ne hanno mai sentito parlare, e aumenta debolmente il numero di coloro che vorrebbero saperne di più. In compenso, aumenta la quota di individui che, pur avendo ricevuto una proposta di investimento su queste obbligazioni, hanno rifiutato o per ignoranza dello strumento (6,4%) o per timore di rischio eccessivo (6%).
Identici risultati per le obbligazioni di impresa (“corporate bonds”). Sale dal 37 al 40 la percentuale di chi afferma di non averne mai sentito parlare, sale dal 20 al 25 la percentuale di chi le giudica poco attraenti. E’ molto probabile che dopo i casi Cirio e Parmalat le opinioni siano ancora più sfavorevoli.
Il quadro è analogo per le obbligazioni a capitale garantito. Il 36% non ne ha mai sentito parlare, il 17% le ritiene poco attraenti, il 21% ne vorrebbe sapere di più, il 7% pensa che sia inutile acquistarle ora, dopo che i prezzi dei titoli azionari hanno già registrato forti ribassi. Solo il 6% ne detiene. Anche nel corso del 2002-2003 l’investimento immobiliare si è mantenuto a livelli elevati, toccando un nuovo massimo storico. La soddisfazione nei confronti dell’investimento in abitazioni è alta: il 56% afferma di essere molto soddisfatto (percentuale analoga a quella dell’anno precedente, corrispondente al massimo dal 1994) e il saldo tra vantaggi e difetti risulta accresciuto notevolmente. In generale, questo tipo di investimento viene visto come ottimo (il migliore possibile) e anche come il più sicuro. Da rilevare però il peso crescente assegnato all’elemento della liquidabilità, evidenziato già a proposito dei fondi. Viene quindi confermata l’ipotesi di un investimento che cerca protezione e immediata disponibilità di denaro liquido, anche se nel settore immobiliare la maggiore difficoltà di smobilizzazione di un immobile rispetto a un titolo azionario non è tanto penalizzante da portare a esprimere giudizi negativi.

Conclusioni

Il risparmio è indispensabile dal punto di vista individuale e aggregato. Il singolo deve accumulare un patrimonio per poter consumare durante la pensione, un’esigenza oggi ancora più sentita di un tempo a causa delle ristrettezze del bilancio pubblico e degli andamenti demografici. Il Paese deve bilanciare domanda e offerta aggregata e trovare le risorse per incrementare il patrimonio di capitale (fisico e umano) necessario per la produzione futura. I mercati finanziari sono indispensabili per consentire a tutti di attuare le decisioni in maniera efficiente e per far sì che le decisioni individuali di risparmio trovino un riscontro aggregato di accumulazione di capitale nei settori più utili.
I risparmiatori italiani mostrano vari punti di forza e di debolezza. Tra i primi si segnala soprattutto la consapevolezza della necessità del risparmio e il desiderio di risparmiare per motivi precauzionali. Anche la prudenza finanziaria, che suggerisce di continuare a privilegiare investimenti immobiliari, è un punto di forza in periodi difficili, come quelli attuali. Tra i secondi esiste in primo luogo la mancanza di progettualità, che non induce a risparmiare per uno scopo preciso. Questa mancanza di progettualità sembra coinvolgere il problema sempre più complesso del risparmio previdenziale. In secondo luogo si trova un’eccessiva mobilità negli obiettivi di investimento, che induce gli italiani a cercare il “profitto apparentemente facile” in periodi in cui i prezzi delle attività finanziarie sono elevati e a rifuggire dagli investimenti rischiosi in periodi in cui i prezzi sono bassi. In terzo luogo, un grande elemento di debolezza è la carenza di informazione finanziaria. Gli italiani non conoscono i meccanismi di determinazione dei prezzi delle obbligazioni, i costi dei fondi comuni, le differenze tra fondi comuni e fondi pensione, e non trovano il tempo per cercare questa informazione. Vorrebbero avere degli esperti a disposizione, ma non si fidano di quelli disponibili sul mercato e soprattutto non vorrebbero pagarli. Si fidano delle banche di piccole e medie dimensioni, e anche di quelle di grandi dimensioni, ma di queste ultime in maniera meno completa dopo la caduta dei mercati, che li ha colti di sorpresa, e dopo alcuni episodi discutibili.
Molto può quindi essere fatto per rifondare il sistema di formazione e utilizzo del risparmio nazionale. I risparmiatori devono cercare di acquisire conoscenze per prendere le giuste decisioni in tema di risparmio, di accumulazione previdenziale e di investimenti. Ma soprattutto gli intermediari finanziari devono cancellare quote di ignoranza che condizionano la maggior parte della clientela, proponendo prodotti e servizi utili e a costi ragionevoli. L’evidenza empirica alla fine del 2003 dimostra che c’è ancora molto da fare in tutti questi settori.

   
   
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