Dicembre 2004

Per recuperare produttività

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Trentacinque ore addio?
Alessandro Sinibaldi  
 
 

Questa è
la situazione
dell’Italia, dove meno lavoro nelle imprese pubbliche e private significa anche più lavoro nero e più cospicua evasione fiscale.

 

Stiamo meglio della Spagna, della Germania e della Francia, ma molto peggio della Gran Bretagna, del Giappone e della Svizzera: è l’indice di “rischio-povertà” dell’Italia che, sebbene abbia registrato un calo negli ultimi anni, tuttavia continua ad essere alto, attestato al 10,5 per cento nel 2004. Il dato emerge da una ricerca sugli indici di rischio-povertà nei Paesi industrializzati, che ci vede al quarto posto dopo la Spagna (13,5 per cento), la Francia e la Germania (entrambe all’11,2 per cento) e, ultima, la Svizzera (3,5 per cento).
La metodologia adottata ricalca quella effettuata dal prestigioso settimanale Economist, che annualmente calcola l’indice della miseria dei Paesi del Terzo e del Quarto Mondo, prendendo in considerazione l’inflazione e il tasso di disoccupazione. Tutto ciò non può non avere riflessi sul Prodotto interno lordo e su quello pro-capite dei cittadini dei singoli Paesi, Italia ovviamente compresa. E chiama in causa l’orario di lavoro e tutti i vincoli che ne condizionano il costo. Ebbene: soltanto sei anni fa la politica europea discuteva la novità francese cripticamente chiamata Rtt, “Réduction du temps de travail”: trentacinque ore la settimana per tutti a salario invariato che sembrava finalmente rimettere in circolo un vecchio slogan, “lavorare meno, lavorare tutti”. Oggi un nuovo fantasma si aggira per l’Europa e pare una sorta di condanna, più che un paradosso: più ore di lavoro, sempre a salario invariato. Se qualcuno avesse il coraggio di tradurlo, appunto, in slogan, suonerebbe così: lavorare di più per lavorare tutti.
Hanno incominciato i tedeschi della Siemens nello stabilimento di Bocholt (nella Renania), dove è passato con un estenuante accordo siglato dal potente sindacato Ig Metall questo preciso principio: stesso salario, ma più ore di lavoro (quaranta la settimana), in cambio del salvataggio di duemila posti di lavoro nella telefonia mobile che si sarebbero persi nella minacciata delocalizzazione dello stabilimento in Ungheria, dove il costo del lavoro è pari esattamente alla metà. E lavoratori e sindacato hanno accettato.
A Liegi, in Belgio, invece, i dipendenti della fonderia Marichal Ketin (azionista di maggioranza il gruppo tedesco Gontermann Peipers) hanno bocciato la proposta della direzione di passare – sempre a salario invariato – da trentasei a quaranta ore di lavoro. Lo stabilimento perde oggi – secondo dati della direzione – 250 mila euro al mese. La proprietà ha taciuto, ma l’associazione degli imprenditori belgi ha preso la palla al balzo e al rientro dalle ferie ha posto ufficialmente al governo la questione dell’aumento dell’orario di lavoro per evitare il rischio di trasferimento degli impianti in un’altra area dell’Europa.

Nella Francia, almeno fino a questo momento, nessuno ha seguito l’esempio della Bosch (ancora un’azienda tedesca) di Vénissieux, dove pochi mesi fa è stato firmato il primo accordo che ha rotto con il dogma nazionale delle trentacinque ore. Il 70 per cento degli 820 dipendenti ha approvato l’accordo firmato dal sindacato aziendale (contraria la Cgt, vale a dire la Cgil francese) per tornare a un orario di trentasei ore settimanali. Ovviamente a salario invariato, con in più la soppressione di due tradizionali giornate di congedo (nei ponti della Pentecoste e dell’Ascensione), e per sopramercato l’impegno a nessun aumento per i prossimi tre anni. In cambio, la Bosch ha accantonato il progetto di trasferire lo stabilimento nella Repubblica Ceca.
Insomma, la questione è posta a livello europeo. Ciascun Paese la affronta a proprio modo, ma dall’autunno sul tavolo del Vecchio Continente c’è l’aumento dell’orario del lavoro. Naturalmente a salari invariati. Per recuperare un gap di lavoro nudo e crudo che divide la vecchia Europa (in modo particolare la Germania, la Francia e l’Italia) dal Nord sgobbone, dagli Stati Uniti, e più che mai dai cinesi, dai giapponesi e dai coreani. Secondo gli ultimi dati, prendendo il concetto di “ore lavorate pro-capite a settimana”, nel 2002 un lavoratore francese o tedesco o italiano lavorava in media 14-15 ore la settimana, contro le diciotto della Danimarca, le venti della Svezia, della Svizzera e della Gran Bretagna, le ventidue degli Stati Uniti e le sconosciute, ma indubbiamente molte di più, della Cina e di numerosi altri Paesi dell’Estremo Oriente.
Ecco perché, come ha sintetizzato in un titolo di copertina il settimanale Der Spiegel, i tedeschi “devono di nuovo lavorare di più”. L’obiettivo è fissato nel sottotitolo: “Ritorno alla settimana di quaranta ore”. In Baviera, nelle imprese di Stato, si è già tornati a quarantadue ore. Vertenze sono aperte alla Nestlé e nei grandi magazzini Karstadt, nelle ferrovie e tra i lavoratori delle costruzioni.

Secondo Le Nouvel Observateur, il 56 per cento dei lavoratori tedeschi è d’accordo. Anche se molti analisti sono critici rispetto ad accordi quali quello della Siemens. Steffen Lehndorff, direttore dell’Institut Arbeit und Tecnik, ritiene che tra due anni il problema si riproporrà con forza, perché mantenere gli stabilimenti di assemblaggio in Germania nel medio periodo non è possibile. Va poi sottolineato che con l’accordo Siemens si è dato un durissimo colpo alla contrattazione collettiva.
Ed è, anche questo, un problema molto serio in Francia, dove l’attuale governo aveva promesso l’assouplissement (l’ammorbidimento) delle trentacinque ore non appena entrato in carica. Ma la questione è complessa, perché dalla “Réduction du temps de travail” (imposta per legge dal governo di sinistra di Lionel Jospin) gli imprenditori francesi hanno ottenuto in cambio il blocco dei salari e mano libera nella politica della flessibilità. E non sono intenzionati a rinunciarci.
D’altra parte, che le trentacinque ore non abbiano rappresentato una buona idea lo si è visto alle elezioni di due anni fa, quando gran parte della classe operaia non ha gradito e, naturalmente, non ha ringraziato. Tuttavia, nemmeno il Medef (la Confindustria transalpina) pensa di generalizzare l’esempio della Bosch. L’ideale, per i conservatori e per gli imprenditori, sarebbe quello di mantenere l’orario legale a trentacinque ore, ma eliminando in blocco tutti gli altri vincoli, e in modo particolare il tetto degli straordinari. In sostanza, così si svuoterebbe la legge.
Ed è, questo, un rompicapo che si va ad aggiungere all’altro paradosso in un Paese dove la crescita già si fa sentire (potrebbe arrivare quest’anno al 2,5 per cento), ma la disoccupazione continua a non demordere: più 2,1 per cento nell’anno.
Crescita minore, disoccupazione di gran lunga maggiore, soprattutto nelle aree meno favorite del Sud, salari inferiori (le “gabbie” non sono ufficializzate, ma esistono, eccome!, tra aree settentrionali e meridionali, servizi carenti, comunicazioni scompensate…: questa, la situazione dell’Italia, dove meno lavoro nelle imprese pubbliche e private significa anche più lavoro nero e più cospicua elusione ed evasione fiscale.
I problemi, si sa, da noi sono sempre più complicati che altrove, mentre il mondo va avanti ed esilia o abbatte i simulacri dell’immobilismo. Come sempre, la lezione la recepiremo dopo, semplicemente e tradizionalmente più tardi, forse ancora una volta quando sarà troppo tardi, perché altrove si saranno fatti altri passi avanti. Prepararsi ad una neoarcheologia industriale non è prospettiva gradevole. Ma da noi si sono mai anticipati i tempi? Abbiamo mai avuto un terreno di coltura (e di cultura) propenso alle pacifiche e radicali rivoluzioni? E se talora ciò è accaduto, quante energie, quali tempi, quanti condizionamenti si sono avuti? Alla memoria storica, e al presente, le ardue risposte.

   
   
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