Dicembre 2004

Lo stato dell’economia

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Il cavallo non beve
D.M.B.  
 
 

 

 

 

Le condizioni
sfavorevoli hanno riguardato tutti
i Paesi, ma noi
abbiamo fatto peggio degli altri, mentre ci era stato promesso che
saremmo stati più veloci degli altri.

 

Il cavallo non beve, appunto. Era una frase di moda negli anni Cinquanta e Sessanta, stava a indicare che l’economia era debole, non aveva la forza di reagire e di crescere. Una frase che potrebbe essere usata in questi tempi nostri di congiuntura desolatamente piatta senza aver timore di esagerare.
Lo confermano tutti i dati della produzione industriale: con avanzamenti modestissimi, da tempo il profilo resta inferiore a quello del resto d’Europa. Si dibatte ormai se, e di quanti decimali, la crescita del prodotto nazionale quest’anno potrà superare l’uno per cento, dopo due anni di “zero virgola”.
E’ vero: alcuni dati, presi a sé, non fanno una stagione. Ma essi si aggiungono a tanti altri precedenti, dello stesso segno, e tutti insieme inducono a chiedersi se questa successione non si componga in una tendenza più lunga.
Nell’ultimo quadriennio la nostra crescita è sempre rimasta inferiore a quella dell’area dell’euro: superiore, sì, a quella della Germania, ma soltanto fino a ieri, perché in un anno che doveva essere di ripresa in realtà restiamo distanziati.
La diagnosi ufficiale, almeno fino a qualche tempo fa, era quella del destino cinico e baro: dall’11 settembre in poi una serie di shock senza precedenti; andamento esterno sfavorevole dell’economia mondiale; costo delle materie prime, petrolio in primis. Ma quegli shock (ammesso, ma poco concesso dai numeri, che abbiano avuto effetti fortemente recessivi) e quelle condizioni sfavorevoli sono stati comuni a tutti: noi abbiamo fatto peggio degli altri, mentre ci era stato promesso che saremmo stati più veloci degli altri. Ora cominciano a diffondersi diagnosi di più lungo periodo, con riferimento a dati non episodici: il continuo calo della nostra quota di esportazioni sul commercio mondiale e su quello europeo, soprattutto nei nostri settori di specializzazione; i peggioramenti di competitività; la stagnazione, quando non la diminuzione, della produttività del lavoro e soprattutto della produttività totale dei fattori, che è un indice di progresso tecnico.

Generalizzando su questi dati, e guardando quel che succede intorno a noi, si matura una convinzione. Nell’ultimo decennio si è manifestata nel mondo l’accelerazione di due fenomeni: globalizzazione, con inversione di parti fra Paesi maturi e Paesi emergenti, ora in posizione di punta; progresso delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. Queste sfide, come si è soliti definirle, e non altri eventi, ci hanno trovato impreparati. Come in Alice nel paese delle meraviglie, si doveva correre sempre più veloci soltanto per restare allo stesso posto; noi abbiamo mantenuto il passo, e per questa ragione siamo andati all’indietro. Ma perché?
Le analisi oramai abbondano, e tutte concordano nel ravvisare un impedimento nelle caratteristiche assunte dal nostro sistema produttivo: declino delle grandi imprese, e scomparsa di esse in settori di punta; nanismo e scarsa crescita delle dimensioni delle altre imprese; caduta di capacità innovativa, anche a motivo dell’accertata relazione fra ricerca e dimensione; ingessamento della nostra specializzazione in un modello non più consono ai tempi. Divergono tuttavia, queste analisi, nell’attribuzione delle responsabilità: alle mancate liberalizzazioni, per gli uni; alla mancanza di una politica industriale, per gli altri; a un calo di capacità e di iniziativa della nostra imprenditoria, per altri ancora. Ma in questo quadro, quale spazio resta per la politica economica che non si limiti al dibattito fra liberalizzatori e sostenitori di una politica industriale?

Le indicazioni che oggi si ascoltano si riassumono in due espressioni: “fare squadra” e “dare una scossa”. Della prima, esortativa, è possibile cogliere la spinta idealistica, ma è difficile capire il significato operativo. La seconda sembra riferirsi non altro che a sgravi fiscali, sulle persone o sulle imprese. Certamente opportuni e benvenuti questi tagli: ma, a parte la compatibilità con le condizioni di bilancio pubblico, può ad essi ridursi la risposta a problemi strutturali e di lungo periodo, se tali sono? Naturalmente no, si dirà: servono anche la riforma complessiva delle pensioni e quella del mercato del lavoro. Anche questa risposta pare almeno incompleta: la riforma delle pensioni, necessaria per motivi di sostenibilità finanziarie e di miglioramento del welfare, non costituisce di per sé una “scossa” al sistema; anche se forse non abbastanza, la flessibilità del lavoro è aumentata negli ultimi anni.

Cerchiamo di guardare oltre, anche per spiegare la riluttanza degli stranieri a investire in Italia. Quali che siano le colpe delle imprese, nulla è cambiato in meglio (essendo difficile, se non impossibile, cambiare in peggio) nell’ambiente in cui esse operano e in cui i cittadini lavorano: in quelle infrastrutture immateriali della società da cui non poco dipende la produttività del sistema. Per esemplificare: assetti rimasti ostili alla concorrenza, come denuncia l’Autorità Garante (anche perché in un Paese in cui mai è avvenuta una rivoluzione borghese e profitti e rendite hanno felicemente convissuto manca una “costituency” per abbatterli); tutela insufficiente dei diritti di proprietà, a motivo della durata dei processi civili, dei tempi occorrenti per il recupero delle garanzie, dell’arcaica inefficienza delle procedure amministrative fallimentari; complessità, tempi e conseguenti patologie delle procedure amministrative (abbiamo quasi un record europeo su quanto si richiede per l’inizio di un’attività d’impresa). E, per questo e per molto altro, finiamo così verso il trentasettesimo posto nelle classifiche internazionali delle condizioni favorevoli ad attrarre investimenti.
Dunque, si dia pure, se ci si riesce, qualche scossa fiscale, piccola o grande che possa essere. Ma non ci si illuda che essa, da sola o con debole compagnia, basti per rimettere il nostro sistema all’onor del mondo. Se il cavallo non beve, è indispensabile una cura da cavallo. Altrimenti avremo soltanto un effetto placebo.

   
   
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