Dicembre 2004

Le cifre dell’italia

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Daniele Puppo  
 
 

 

 

Le notizie
britanniche sulle riduzioni dei
dipendenti delle pubbliche
amministrazioni sono state da noi accolte con un
silenzio assordante.

 

In genere, quando si pensa alla Giamaica sono le spiagge e la musica reggae a venire in mente, non certo l’innovazione tecnologica. Allo stesso modo, se qualcosa caratterizza il Costa Rica oppure la Namibia pensiamo subito che non si tratti dell’esemplarità della pubblica amministrazione di questi due Paesi. Eppure, nell’ultimo Rapporto sulla competitività del World Economic Forum l’Italia è al 50° posto, dietro la Giamaica, per competitività tecnologica, e al 48° posto, dietro il Costa Rica e la Namibia, per la sua pubblica amministrazione. Se a questi dati aggiungiamo il 47° posto per potenziale di crescita e il 34° nella competitività economica, abbiamo un quadro che ci lascia increduli. Possibile che l’Italia che abbiamo davanti vada così male? Queste stime saranno veritiere e rappresentative della nostra realtà economica?
Non è possibile fare comparazioni con gli anni precedenti su molti dati. Uno significativo, però, c’è. E’ quello sul potenziale di crescita che ha visto l’Italia perdere in due anni ben quattordici posti, passando dal 33° del 2002 al 47° attuale. Si potrebbe dubitare dell’attendibilità metodologica dell’analisi del World Economic Forum, basata su interviste fatte a imprenditori e operatori economici dei rispettivi Paesi. Ma essa può segnalare un indice di fiducia sul futuro economico che si sta progressivamente deteriorando tra i membri della comunità degli affari. D’altra parte, se si analizzano i più importanti Rapporti sulla competitività, sull’innovazione e sulla libertà economica, (da quelli dell’Ocse e dell’Ue a quello dell’Imd), e si fa una media di tutte le graduatorie, l’Italia non se la passa molto meglio. Infatti finisce al 30° posto, con un continuo peggioramento negli ultimi cinque anni.

A parte le battute sul Botswana (siamo preceduti anche da questo splendido Paese), dobbiamo sinceramente chiederci che cosa fare quando, anno dopo anno, un folto gruppo di business leader, che governa investimenti molto rilevanti, sentenzia che la competitività del Belpaese procede col passo del gambero. E innanzitutto dobbiamo convincerci che il problema è reale, anche se questa o quella posizione nella classifica può sembrarci alquanto ingenerosa: basta vedere lo spazio decrescente che le nostre vicende economiche conquistano sulla stampa internazionale, o parlare con manager di imprese multinazionali, o infine girare per congressi e università, per rendersi conto della deriva di cui soffre – non da oggi soltanto – la nostra economia.
L’Italia è vista in misura crescente come un mercato di vendita, più che come un luogo di produzione; come una nebbiosa palude amministrativa e un inferno di rapina fiscale, più che come un esempio moderno di legislazione snella e di rigorosi comportamenti antispreco; come una meta turistica, più che un’autentica fucina d’innovazione.
I problemi sono dunque reali (e vitali), e irridere chi ce li indica non è particolarmente utile.
Oltre tutto, è il caso di aver chiaro che larga parte del problema-competitività risiede nel quadro normativo e nelle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, cui dobbiamo far risalire buona parte della responsabilità di alcuni punteggi molto poco lusinghieri che il nostro Paese quest’anno si è meritato: dissipazione di risorse pubbliche, favoritismi nella loro allocazione, fisco onnivoro, legalità troppe volte ferita o elusa.
Il settore privato sembrerebbe cavarsela assai meglio, con alcune punte di eccellenza, tuttavia oscurate da giganteschi imbrogli che danneggiano l’immagine dell’Italia a livello planetario.

La centralità delle istituzioni e dell’amministrazione nel nodo-competitività è un aspetto particolarmente critico del problema, piuttosto difficile da affrontare per motivi culturali (la permanente sottovalutazione di ogni aspetto organizzativo, assai diffusa nel nostro Paese). Aspetto difficile da affrontare anche per motivi politici (l’ormai abituale riduzione a slogan di ogni dibattito su questi temi).
Il problema, però, deve essere affrontato a tutti i livelli in cui si presenta. Sul piano normativo, stupisce infatti osservare Paesi – come gli Stati Uniti o il Regno Unito – che hanno problemi di gran lunga minori dei nostri, ma dedicano risorse e attenzioni all’esame dell’efficienza delle norme e alla valutazione dei costi che esse impongono a imprese e cittadini. Seguendo il loro esempio, il nostro Parlamento dovrebbe condurre analisi periodiche sui costi delle nuove leggi che esso discute, e il Governo dovrebbe condurre annualmente analisi sull’impatto economico degli apparati normativi e regolamentari.
Sul piano più strettamente amministrativo, sono probabilmente necessari interventi di ridisegno complessivo di procedure ormai forse automatizzate, ma il cui impianto risale agli anni Cinquanta e Sessanta.
E’ insomma necessario un colpo di reni nell’efficienza della macchina amministrativa: nessuno ne vuole parlare, e le notizie britanniche sulle riduzioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono state da noi accolte con un silenzio assordante.
Parlarne però è necessario, in chiave operativa e a tutti i livelli, altrimenti il prossimo anno saremo ancora qui a commentare il nostro sorpasso ad opera di qualche altro, colorito ma più intraprendente, Paese in via di sviluppo.

   
   
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