Dicembre 2004

Che italia fa

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I conti della realpolitik
Mario Sarcinelli  
 
 

 

 

Per gestire entrate, spese e debito, la finanza pubblica deve fare
affidamento su un maggiore impegno politico e su una minore ricerca di progetti fantasiosi.

 

Prima delle vacanze, il Documento di programmazione economico-finanziaria 2005-2008 ha rappresentato una presa di coscienza della difficile situazione della finanza pubblica. E’ stato anche il battesimo del fuoco per il nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze che, forte della sua origine tecnica, è riuscito ad apparire quasi super partes. Settembre ci ha restituiti alle consuete cure; per il titolare dell’Economia si è trattato di dare esecuzione ai propositi manifestati, completando la manovra per l’anno in corso (2 miliardi di euro da risparmiare con provvedimenti amministrativi) e compiendo le scelte necessarie per riportare i rapporti critici su un trend negativo: l’indebitamento netto/Pil dal -2,9% al -1,2%, il debito/Pil dal 106,0% al 98,1% tra il 2004 e il 2008.
Possiamo farcela? Quali sono gli strumenti da usare e i vincoli da rispettare nel perseguire tali obiettivi? Nuove tecniche possono esserci d’aiuto?

1) Per chi ha vissuto la crisi di finanza pubblica e di cambio del 1992 non c’è dubbio che le nostre classi produttive hanno la capacità di fronteggiare situazioni difficili e da queste trarre il coraggio di slanciarsi in rincorse che negli anni Novanta produssero il “miracolo” dell’ingresso italiano nella moneta unica.
Certo, nel 1992 avevamo uno strumento in più, il cambio, di cui la moneta unica priva ciascuno dei Paesi che vi partecipano, ma politiche intese a migliorare la competitività, a liberalizzare i mercati dei prodotti e non solo dei fattori, a ridurre i grandi e i piccoli monopoli sono un’alternativa migliore, anche se necessariamente più lenta e difficoltosa, di una svalutazione del cambio che dà un respiro immediato, ma spesso lascia inalterate le condizioni che l’hanno determinata.
2) Negli anni Novanta, la finanza pubblica corresse gran parte del proprio squilibrio attraverso l’aumento della pressione fiscale; in fondo, nei decenni in cui il fabbisogno cresceva alimentando il debito, a causarlo era il rifiuto di aumentare l’imposizione in linea con le spese che lo Stato imprenditore, lo Stato provveditore di sicurezza sociale e lo Stato fornitore di beni pubblici congiuntamente richiedevano. La conseguenza fu la crescita del debito pubblico e della rendita finanziaria. L’inasprimento della tassazione non è oggi un’opzione perseguibile, prima di tutto perché la pressione fiscale italiana ha raggiunto da tempo livelli europei, quella sui redditi è molto più bassa in Paesi come il Regno Unito, l’attuale maggioranza è impegnata a perseguire nella riduzione delle imposte dirette.
Non resta quindi che la riduzione delle spese; questa vede concordi i fautori di un liberismo accentuato che considerano la spesa pubblica fonte di sprechi e, talvolta, di corruzione, molti accademici che pensano così di accrescere la competitività del sistema e salvaguardare l’equilibrio di bilancio, i pochissimi che non sono beneficiari di un qualche rivolo di pubblico denaro. Tutti gli altri, la quasi totalità della popolazione, sono favorevoli a patto che il proprio gruppo ne venga esentato, invocando di volta in volta la funzionalità dello Stato, la salvaguardia dei più deboli, l’equità intergenerazionale, e via dicendo. Tagliare le spese è un’operazione politica che richiede l’individuazione dei settori che possono uscire dall’ambito pubblico ed essere affidati al mercato; negli anni Novanta si ritenne correttamente che lo Stato non potesse più continuare a mantenere in vita imprese antieconomiche e a ripianarne le perdite; molte furono liquidate, le migliori alienate con profitto. Quelle oggi rimaste nel patrimonio pubblico sono in genere redditizie e appetite dal mercato; non mancano, però, le eccezioni…
Avendo fortemente ridotto lo Stato imprenditore, possiamo pensare di restringere lo Stato sociale? La spesa di questo tipo non è eccessiva in Italia nel confronto internazionale, ma solo sbilanciata in favore del comparto pensionistico; la recente legge delega prevede che le nuove regole si applichino dal 2008, cioè al termine del periodo coperto dal Dpef. Possiamo rivolgere attenzione allo Stato fornitore di beni pubblici? A me sembra molto difficile poiché il terrorismo interno e internazionale richiede crescenti risorse per la difesa, la sicurezza e l’intelligence. Infatti, il Dpef esenta da tagli scuola, sanità, sicurezza e servizi sociali. Considerato che il tasso dell’interesse non è una variabile controllata dal Governo e che il costo del debito è influenzabile solo marginalmente dalle tecniche di gestione, restano le sole spese di funzionamento e quelle d’investimento: le prime sono oggetto di continue limature che possono anche compromettere la funzionalità dei servizi, spostano la spesa da un esercizio a un altro, talvolta creano debito sommerso; sulle seconde si abbatte di solito la scure, con ricadute negative sulla crescita di lungo periodo, come negli anni Novanta.
Lo “zero-base budgeting”, le “comprehensive spending reviews” del Tesoro inglese, il “programme pour la rationalisation budgetaire” dell’esperienza francese sono tutte tecniche utili, ma in mancanza di una forte determinazione politica, come quella del Cancelliere dello Scacchiere, di tagliare centomila posti di lavoro pubblici, non producono grandi risultati e richiedono tempo: per il 2005 sono impraticabili.

3) Una gestione attiva delle attività e passività pubbliche per aumentare la redditività delle prime e ridurre l’onere delle seconde è altamente commendevole; inoltre, la realizzazione delle une sul mercato per ridurre la consistenza delle seconde può essere finanziariamente conveniente. La stima del patrimonio pubblico pari a 1.771 miliardi di euro, cioè al 137% del Pil, sembra infondere un senso di fiducia nel lettore sino a quando non scopre che sono stati inclusi nel calcolo l’aria, i ghiacciai e altre amenità al “fair value…”. E dire che si pagano dei compensi a delle società di consulenza per dare un valore a beni che non sono economici o che non sono commerciabili.
Scendendo dall’empireo delle astrattezze, il Dpef afferma che «nel medio periodo circa il 40% dell’attivo patrimoniale possa giudicarsi potenzialmente disponibile», cioè poco più di 700 miliardi. Per ridurre il debito pubblico dal 106,0% del Pil a fine 2004 al 98,1% nel 2008 sono necessarie secondo il ministro dell’Economia operazioni di privatizzazione e di cessione di crediti, immobili e altri attivi per circa 100 miliardi di euro nel quadriennio. Alienare un settimo del patrimonio non è cosa facile, dopo le disavventure di Scip 2, ma non impossibile.

Tuttavia, le grandi operazioni di privatizzazione sono spesso fonti di lucri immeritati. Ad esempio, siamo proprio convinti che l’operazione di vendita e connesso “lease-back” di immobili pubblici con destinazione funzionale sia economicamente e finanziariamente giustificata? Essa non spinge a una più efficiente gestione degli spazi, non riduce le spese di manutenzione, richiede una remunerazione del capitale investito in immobili da parte dei risparmiatori che acquistano le quote del fondo immobiliare più elevate, forse di poco, del costo del debito pubblico. Per di più, istituisce un monopolio-monopsonio, aumenta le spese correnti che tutti vogliono ridurre, non abbatte il debito pubblico se il controvalore viene portato a riduzione del disavanzo, in base alle regole contabili del Sec 95. Domanda indiscreta: se abbiamo veramente tante attività disponibili, non si poteva pensare di alienare in maniera secca immobili o cedere crediti per 4 miliardi?
Concludendo: per gestire entrate, spese e debito, la finanza pubblica deve fare affidamento su un maggiore impegno politico e su una minore ricerca di progetti fantasiosi. Gli effetti d’immagine ci sono già costati…

   
   
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