Dicembre 2004

Federalismo e dintorni

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Che cosa sarà se mai sarà
M.B.  
 
 

 

 

Non è un caso che a manifestare per primi forti dubbi siano stati gli
imprenditori,
compresi quelli che accorsero
in soccorso ai
vincitori leghisti quando questi
registrarono un
vistoso successo elettorale.

 

Il progetto di riforma del Titolo V tratta della forma di Stato e di governo, dunque va al cuore dell’impianto costituzionale italiano. La riforma di governo è intermedia tra premierato e cancellierato. Il presidente del Consiglio diviene Primo ministro, è designato dagli elettori, nomina e dimette i ministri, scioglie la Camera dei Deputati. Qualche elemento del cancellierato è stato immesso nel premierato, perché il Presidente della Repubblica non scioglie la Camera se la stessa maggioranza parlamentare indica un altro presidente del Consiglio nel suo seno, al modo della “sfiducia costruttiva” vigente nella Costituzione tedesca. Il Capo dello Stato ha il potere di accertare le condizioni di scioglimento e ha la prerogativa di concedere la grazia senza alcun parere del ministro della Giustizia.
La Camera dei deputati diviene l’unica assemblea politica della Repubblica e decide in esclusiva tutte le questioni che la riforma riserva al potere centrale dello Stato. Il Senato è concepito in forma che ricorda il Senato federale americano (e quello federale tedesco), ma le sue competenze sono limitate alle sole questioni che interessano congiuntamente le competenze dello Stato e quelle dei poteri locali. Altra novità costituzionale è la predisposizione di un “corridoio” tra le due Camere in caso di mancato accordo su una materia di competenza mista o sulle questioni relative alla illegalità di una norma disposta da una regione.
Nelle intenzioni del governo, il progetto esprime un sistema originale che non ha precedenti in altre Costituzioni: lo scopo è di mantenere la connessione tra indicazioni elettorali e maggioranza politica della Camera dei Deputati, e di conservare l’omogeneità delle forze politiche al potere senza mortificare la dialettica interna all’assemblea stessa.

Il punto più delicato è il rapporto tra il Senato e il governo, che di fatto non esiste, e ciò ricorda piuttosto il Senato statunitense che i Senati europei. L’influenza americana è visibile nello stesso impianto costituzionale, che tende a mantenere la stabilità delle maggioranze e ad impedire crisi intra ed extra parlamentari.

In estrema sintesi, la riforma federale consiste soprattutto in una “riforma della riforma”, poiché distingue tassativamente tra competenze centrali e competenze regionali. E’ stato introdotto il diritto del governo di provvedere in caso di pubblica necessità e di intervenire anche in questioni che sarebbero ordinariamente di competenza delle regioni. Inoltre, molte attribuzioni significative (dall’energia ai trasporti) non sono più ritenute miste, essendo ritornate statali. Roma, distretto a sé, pienamente autonomo, diventerà capitale federale.
Alle certezze di chi vede in questa riforma la panacea di tutti i mali italiani ed esalta il bello del federalismo, sulla lezione di James Buchanan o di André Breton, fanno riscontro le perplessità di coloro i quali sostengono che non si tratta di fare confronti teorici, ma di valutare la praticabilità di una riforma del genere nel momento storico e nelle condizioni economiche che riguardano il nostro Paese. Domanda di rigore: il federalismo, oggi e allo stato delle cose, è una priorità? Risposta, è in posizione critica: addentrarsi nelle pagine di Carlo Cattaneo ha un sapore un poco retrò, comprensibilmente caro alle culture valligiane che, ossessionate dai campanili, si guardano bene dal coniugare localismo e globalizzazione. Non è un caso che a manifestare per primi forti dubbi siano stati gli imprenditori, compresi quelli che accorsero in soccorso ai vincitori leghisti quando questi registrarono un vistoso successo elettorale. Ora sono moltissimi gli industriali del Nord-Est, i quali sono convinti che sia «cambiato il calendario dei problemi, che sono sempre più nazionali e oltre». Ora costoro chiedono «certezze» per operare e investire, e nicchiano al cospetto di «venti piccole patrie che riproducono e amplificano costi e limiti dello Stato centrale».
In un’Italia che troppe volte sembra aver perso la memoria, d’improvviso emerge il ricordo di antiche illusioni. Nel Settanta si votò per l’istituzione delle Regioni e si sostenne che i nuovi organismi sarebbero stati fatti funzionare dalla vecchia burocrazia e che le Province, ormai inutili, sarebbero state abolite. Quel che è accaduto nella realtà italiana è ancora oggi sotto gli occhi di tutti: doppioni, sovrapposizioni, elefantiaco impiego pubblico, competenze incrociate, politiche consociative... E’ il caso di ricordare la vicenda del vecchio ministero dell’Agricoltura, risorto con altro nome? E’ il caso di ricordare che alcune regioni (la Toscana, la Sicilia) hanno già inventato gli “assessori supplenti”. Altre si sono dotate di “ambasciate all’estero” (come la Campania a New York). Moltissime sono travolte da una marea di assunzioni clientelari e di esotiche trasferte “per rappresentanza”!
Unica speranza, sostengono i critici più intransigenti, è che il federalismo sia respinto con il referendum confermativo richiesto dalle riforme costituzionali. Altra relativa attesa consolatoria: tra doppia lettura parlamentare, lo stesso referendum e l’attuazione pratica delle leggi (che richiederebbe almeno una decina di anni), passerà molto tempo. E col tempo, si sa, o ci si augura... C’è persino chi sghignazza cinicamente: dal ‘47, anno della Costituzione, alla prima elezione regionale trascorsero ben ventitré anni; dal ‘70 alla riforma del Titolo V ne sono trascorsi altri trentuno. Si tratta di cose molto complicate, dunque ci vuole molta pazienza. Volete vedere che?… Ma chi vivrà, vedrà.

   
   
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