Dicembre 2004

Federalismo e dintorni

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Tutti convertiti
Pierluigi Siracusa  
 
 

 

 

E’ negli anni
Novanta che
l’Italia politica, sindacale,
confindustriale, editoriale, scoprì
il federalismo
all’italiana, senza sapere che cosa fosse: parlava del federalismo, ma non conosceva neanche le linee minime del
progetto.

 

Anni Ottanta del secolo scorso: nessuno era federalista. Alcuni non lo erano per convinzione ideologica (Pci e Msi, per definizione imperiale il primo e statalista il secondo); altri per realismo laico (il federalismo nasce per impulso dal basso, l’Italia non è un Paese di tradizione federalista, se si escludono figure di altissimo valore, quali Cattaneo, Calamandrei, Spinelli); altri ancora non lo erano per ignoranza o perché abituati a seguire la direzione del vento. Poi fu proprio il vento a girare, sebbene almeno all’inizio fosse cieco, cioè privo di pensiero.
Anni Novanta. La Lega si era affermata sull’onda di una forte contrapposizione tra Nord e Sud, di un antagonismo deciso con l’assistenzialismo di Stato, di un antipartitismo travolgente che il leader leghista aveva trasformato nella via italiana al federalismo, quella che avrebbe determinato la sua fortuna elettorale. Ma, a ben vedere, la stessa Lega era diventata federalista “soltanto dopo”: le leghe di pianura e di vallata erano germogliate campaniliste, egoiste, localiste, e soltanto dopo, appunto, erano state imbrigliate nell’unica Lega, divenuta antiromana, anticentralista, e rimasta antimeridionale.

E’ negli anni Novanta che l’Italia politica, sindacale, confindustriale, editoriale, scoprì il federalismo all’italiana, senza sapere che cosa fosse: parlava del federalismo, ma non conosceva neanche le linee minime di un progetto federalista. La politica si era innamorata di questo nobile concetto solo per inseguire il padano Bossi; il sindacato, per parte sua, aveva strizzato l’occhio, dimenticando che con il federalismo sopraggiungevano le gabbie salariali, e, con queste, si segnava la fine del potere contrattuale nazionale; anche gli imprenditori si erano adeguati, con velocità tutt’altro che sorprendente nel nostro Paese di opportunisti, alla ricerca di nuovi ripari partitici; e da par suo la cultura universitaria (con qualche eccezione di spicco a sinistra e a destra, da Gianfranco Pasquino a Domenico Fisichella) si era messa a ruota per conciliare strumentalmente dottrina e pratica.

Fine del secolo-millennio, nel Duemila. Il federalismo all’italiana ha ormai preso corpo in un confuso groviglio di regionalismo e di autonomismo, complici quelle forze politiche che avevano votato in fretta e furia una legge costituzionale poco prima di andare al voto nel 2001 con la speranza (delusa) di evitare la sconfitta e di recuperare “consensi federalisti” nelle regioni del Nord. E complici le opposte forze politiche che avevano compiaciuto l’alleato ritrovato, il Senatùr, il quale nel frattempo aveva scoperto e lanciato la devolution di poteri, del tipo di quella che Tony Blair aveva disegnato per la Scozia e l’Irlanda: il federalismo imposto dall’alto, non più emerso dal basso. Una sorta di tira e molla nel quale tutti o quasi tutti dovevano convertirsi al totem del federalismo, senza essere federalisti.
Ora, come esplicitamente sottolinea il saggio di Delgado, la legge dovrebbe offrire una precisa garanzia: il federalismo fiscale dovrà essere attuato senza oneri finanziari aggiuntivi. Ci pare di capire che non ci saranno oneri finanziari aggiuntivi per lo Stato, ma che per i cittadini e per le imprese sarà probabilmente un’altra musica. Basti pensare al costo della burocrazia, della diversa allocazione della responsabilità politica che il federalismo comporterà. Con il nuovo Titolo V della Costituzione e con la riformulazione degli Statuti, ad esempio, quasi tutte le regioni hanno optato per un aumento dei propri consiglieri. Cresciuti in media del 20 per cento. Come nel progetto di nuovo Statuto della Regione Marche: i consiglieri passerebbero da 40 a 50. Qualcuno si è anche divertito a fare i conti: tra i nuovi Statuti approvati e quelli ancora allo studio, ci sarebbero in tutta Italia ben 120 consiglieri regionali in più. E questo è un costo, magari strisciante, ma pur sempre un costo. Come quello delle nuove province. Quest’anno, con i capoluoghi di Monza e Brianza, di Fermo e di Barletta, le province italiane sono diventate 106. E molte altre sono in lista d’attesa.

Forse anche per questo il neo-presidente di Confindustria ha lanciato un attacco durissimo al federalismo italiano “a costo zero”: «L’autonomia fiscale avrebbe dovuto ridurre le tasse, alleggerendo l’amministrazione […]. Invece viene usata per drenare più risorse, per pagare apparati sempre più costosi e privilegiati […]. C’è confusione nelle competenze. C’è una rincorsa a occupare potere». Sottolineature che rimarcano ancor di più lo scetticismo nutrito nei confronti della devolution bossiana.
E’ un progetto che avanza nell’incertezza, sebbene di portata enorme. Per avere un’idea, basta leggere l’ultimo Rapporto Isae sul federalismo: se il Titolo V fosse attuato domani, le regioni avrebbero 61 miliardi di euro di spese in più, e avrebbero bisogno di 157 miliardi di maggiori spese, da recuperare con tributi locali o con la compartecipazione al gettito di altre imposte (che porterebbero il peso del fisco locale al 60 per cento sul totale, rispetto all’attuale 20 per cento). In ogni caso, le competenze trasferite alle regioni creano alle imprese più problemi che opportunità, con problemi anche nel settore dell’energia, in quello delle infrastrutture, in quello delle comunicazioni elettroniche. Ma neanche questo basta. Da tempo si sollecita una correzione, o quanto meno una nuova interpretazione, delle norme che attribuiscono alle Regioni competenze in materia di lavoro. Creano problemi anche i poteri attribuiti agli Enti locali sulla Sanità, e quelli che consentono di legiferare in materia di sicurezza alimentare.
Sembrano, e sono, problemi politici. Ma per i cittadini e per le imprese non saranno altro che costi. Costi striscianti, ma vivi. Forse per tutte queste ragioni questo tipo di federalismo, anzi di devolution a costo zero, non convince quasi per niente.

   
   
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