Dicembre 2004

Federalismo e dintorni

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Il labirinto italiano
Ferruccio Delgado  
 
 

 

 

I nostri federalisti si sono dimostrati fino ad oggi
allegre cicale, se è vero, com’è vero, che le strutture centrali dello Stato hanno visto aumentare in modo cospicuo
dipartimenti,
direzioni e altri
uffici centrali.

 

La questione del federalismo si sta caricando di una quantità di contraddizioni. Proviamo ad elencarle, perché riteniamo che sia utile appurare in quale ginepraio stiamo per infilarci.
Uno studioso americano ha osservato che gli Stati in Europa sono troppo grandi per gestire la vita di ogni giorno e troppo piccoli per curare gli affari internazionali. Al secondo problema si sta ponendo rimedio con il “federalismo esterno”, l’Unione europea, che dovrebbe avere presto un autentico ministro degli Esteri e affrontare unita la minaccia del terrorismo. Si è cercato di risolvere il primo, nel 2001, con la riforma costituzionale. Ma per la fretta ci si è dimenticati di assegnare allo Stato il controllo dell’esercizio del credito, si è divisa a metà la materia dei beni culturali e si è attribuito alla legislazione concorrente delle Regioni anche il compito di regolare vari aspetti della vita pubblica, come quelli delle comunicazioni. E’ un pasticcio dal quale nessuno sa se riusciranno a tirarci fuori la buona volontà della Corte costituzionale, sommersa da ricorsi regionali, e quella del Parlamento.

Il governo, a sua volta, è stretto tra un patto con gli elettori (non aumentare, anzi diminuire l’imposizione fiscale) e il Patto europeo di stabilità (non far crescere la spesa pubblica), ma non dispone di strumenti sufficienti per tenere realmente sotto controllo sia la spesa sia le imposte regionali e locali. Un recente, acuto studio sulle dimensioni degli Stati ha elevato un inno a quelli di superficie alquanto ridotta. Democratizzazione, liberalizzazione del commercio e riduzione delle guerre sono associate con la formazione di piccoli Paesi, mentre protezionismo, dittature e guerre sono associati a grandi dimensioni nazionali. Però i Paesi più piccoli registrano amministrazioni e prelievo fiscale più pesanti, per abitante, di quelli maggiori. In ultima analisi, più gli Stati sono piccoli, più costano. E allora occorre scegliere tra meno tasse e più decentramento.

Il Parlamento, poi, è al centro di tensioni tra la Lega, sostenitrice del Senato federale e di ulteriori “devoluzioni” di compiti alla periferia, e le Regioni, che sono insoddisfatte del modo in cui avviene il trasferimento e vogliono essere rappresentate direttamente nel futuro Senato. Di qui il paradosso della posizione della Lega, che corre il rischio di essere accusata di scarso impegno federalistico dalle stesse Regioni che dovrebbero beneficiare del suo federalismo.
Ultima contraddizione: più il Senato federale sarà rappresentativo delle Regioni e più potere esso avrà (anche sul bilancio e sulla legge finanziaria), più il governo centrale sarà condizionato dal peso di Regioni di destra e Regioni di sinistra in quel Senato. La maggioranza della Camera dei Deputati dovrà trovarsi d’accordo con la diversa (ed eventualmente opposta) maggioranza di un Senato federale. Ma l’esperienza tedesca dimostra che questo è un fattore di rallentamento o addirittura di blocco. Si corre il rischio, in questo modo, di dar vita ad una seconda fase di “consociativismo”.
Per venir fuori dalla prima contraddizione bisognerebbe fare un passo indietro rispetto al federalismo della prima ora. Per uscire dalla seconda, dovremmo accettare un maggior prelievo fiscale. Per sciogliere la terza e la quarta contraddizione si dovrebbe o rinunciare al Senato federale, (abrogandolo per referendum), oppure accettare i forti limiti che esso comporta al metodo maggioritario. Nient’altro può condurci fuori da questo complicato labirinto.

Altro problema. Recentemente il Capo dello Stato ha auspicato che, nel definire i compiti delle Regioni, si eviti «l’aumento degli oneri finanziari per la pubblica amministrazione che deriverebbe da una duplicazione di competenze o da una moltiplicazione delle strutture amministrative». Poco dopo, il ministro per le Riforme istituzionali (un leghista), parlando alla Camera, annunciò che, nelle norme finali della nuova versione di riforma costituzionale, era stato previsto che il trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni avvenisse «senza un aggravio di costi complessivi». E’ sufficiente una clausola generale di questo tipo per soddisfare il criterio enunciato dal Presidente Ciampi?
Si è molto scettici circa il valore effettivo delle proposizioni ministeriali, ancor più quando esse sono usate nel contesto dei rapporti Stato-Regioni. Innanzitutto, infatti, non c’è un’autorità competente a fare un calcolo complessivo dei costi. Le Regioni hanno autonomia di bilancio e la Ragioneria generale dello Stato ha da tempo perduto il controllo del quadro d’insieme, salvo ciò che riguarda il patto di stabilità interno. In secondo luogo, valutazioni dei costi vanno compiute prima, e non ex post, quando il danno si è già prodotto. E, purtroppo, i nostri federalisti si sono dimostrati fino ad oggi allegre cicale, se è vero, com’è vero, che nel 2002, mentre funzioni, uffici e personale statali dovevano essere trasferiti alle Regioni, le strutture centrali dello Stato hanno visto aumentare in modo cospicuo dipartimenti, direzioni generali e altri uffici centrali. E in periferia è accaduto anche di peggio: sono aumentate le direzioni generali periferiche e sono state ripristinate strutture statali prima confluite negli uffici territoriali del governo (presso questi ultimi hanno dovuto confluire i residui uffici decentrati dello Stato, in modo da limitare il numero dei doppioni).

Se si vogliono evitare sovrapposizioni, è necessario agire sulla mobilità del personale, trasferendo dipendenti alle Regioni cui vengono attribuite le funzioni. Ma questa è un’operazione difficile, di cui lo Stato si è dimostrato incapace. Basti ricordare che in Piemonte, in Veneto, in Lombardia, in Emilia-Romagna, in Friuli, negli uffici statali si registrano vuoti di organico del 60 per cento, mentre, all’opposto, in Campania, in Calabria e in Sicilia vi sono eccedenze di organico del 70 per cento. Nonostante questa situazione, il 98 per cento della mobilità è avvenuto in questi anni su richiesta dei dipendenti o sulla esclusiva base delle loro preferenze, senza che venissero stabiliti incentivi per avere una più razionale distribuzione del personale.
Per queste ragioni si è scettici circa l’efficacia di formule costituzionali di salvaguardia, che avranno un mero valore retorico. E si teme che i buoni intenti di chi governa l’economia, di introdurre lo “zero-base budgeting”, si scontreranno con una realtà amministrativa tutt’altro che razionale, ma di fronte alla quale si dovrà cedere, perché la macchina burocratica messa in moto nel 2002 ha un costo più alto e comporta impegni obbligatori che in un modo o nell’altro dovranno essere onorati.

   
   
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