Dicembre 2004

Grandangolo

Indietro
La sfida del terrore
Henry Kissinger  
 
 

 

 

 

 

La politica estera americana trova più facile
confrontarsi con le categorie del bene e del male
piuttosto che con i sottili calcoli dei Consigli dei
ministri europei.

 

Gli attacchi all’America dell’11 settembre 2001 hanno scosso dalle fondamenta il concetto di sovranità che fin dal Trattato di Westfalia del 1648 ha sorretto la legittimità del sistema internazionale. I suoi princìpi fondamentali attribuivano alla politica estera il ruolo di prerogativa di nazioni immaginate come pari fra loro e tenute a non interferire nelle rispettive politiche nazionali. Con l’11 settembre il mondo è entrato in una nuova era, nella quale organizzazioni private ed esterne al sistema statale si sono dimostrate capaci di minacciare la sicurezza nazionale e internazionale con attacchi a sorpresa. La polemica in corso sulla necessità della prevenzione è un sintomo dell’impatto di questo mutamento. Alla base c’è il conflitto tra la nozione tradizionale di sovranità e l’adattamento richiesto dalla tecnologia moderna e dalla natura della minaccia terroristica.
A mio parere la prevenzione è inseparabile dalla guerra contro il terrorismo, ma i casi in cui deve essere attivata richiedono un’analisi attenta e il dialogo nazionale e internazionale.

La base di Osama bin Laden era sul territorio di uno Stato sovrano, ma i suoi obiettivi trascendevano la sfera nazionale. Elementi addestrati e altamente specializzati erano stati infiltrati in tutto il mondo, alcuni nei territori dei più stretti alleati dell’America, altri persino all’interno della stessa America. Godevano di supporto finanziario e logistico da parte di un certo numero di Stati e soprattutto da parte di privati evidentemente non controllabili dai rispettivi governi di appartenenza. Le loro basi di addestramento erano dislocate in diversi Paesi, ma solitamente in aree non controllate e non controllabili dai governi nazionali, come nello Yemen, in Somalia, o magari in Indonesia.
In questo scenario, il sistema internazionale basato sulla sovranità dei singoli Stati era messo sotto scacco da una minaccia transnazionale che doveva essere combattuta sul territorio di diversi Paesi, per questioni che trascendevano il concetto di interesse nazionale.
Minacciando direttamente gli Stati Uniti, i terroristi si erano garantiti sul fatto che la battaglia si sarebbe svolta secondo le regole imposte dalla speciale natura dell’America. Perché l’America non ha mai pensato a se stessa semplicemente come a una nazione tra le altre. Il suo ethos nazionale si esprime come una causa universale perché identifica la chiave di volta della pace nell’espandersi della democrazia. La politica estera americana trova più facile confrontarsi con le categorie del bene e del male piuttosto che con i sottili calcoli sulla convenienza nazionale delle diplomazie dei Consigli dei ministri europei. In Europa le voci critiche che si rifanno al pensiero più tradizionale accusano gli americani di avere reagito in modo eccessivo perché, fondamentalmente, il terrorismo per loro è un fenomeno nuovo: gli europei negli anni Settanta e Ottanta lo sconfissero senza bandire crociate planetarie.
Ma il terrorismo di vent’anni fa era di tipo differente. Lo praticavano solo cittadini del Paese in cui avvenivano gli atti di terrorismo (o, nel caso dell’Ira, in Gran Bretagna, appartenenti a un gruppo che avanzava particolari rivendicazioni). Benché alcuni gruppi ricevessero aiuti da servizi segreti stranieri, le loro basi si trovavano nei Paesi in cui agivano. Le loro armi per lo più erano adatte soltanto ad attacchi individuali. Per contro, l’11 settembre i terroristi operano su base mondiale, sono motivati, più che da una specifica rivendicazione, da un odio generalizzato e hanno accesso ad armi che possono ben supportare la loro strategia di uccidere migliaia di persone, e anche più.
Subito dopo l’11 settembre questa sostanziale differenza svanì nello shock generale, che fece aprire gli occhi a molte nazioni sull’importanza degli Stati Uniti come garanti della stabilità internazionale nel senso tradizionale del termine. Gli aspetti di polizia e di intelligence internazionale della lotta al terrorismo – cioè quelli più compatibili con il principio della cooperazione fra Stati sovrani – ricevettero un appoggio pressoché universale da parte della comunità internazionale.

Poiché l’attacco agli Stati Uniti era stato lanciato dal territorio di uno Stato sovrano, la guerra contro al Qaeda e i talebani in Afghanistan registrò un consenso molto diffuso e ottenne piena collaborazione. Ma, avviata a conclusione l’operazione afghana, la fase successiva della campagna contro il terrorismo era destinata a porre l’accento su come affrontare la minaccia di un evento, piuttosto che la sua manifestazione. All’epoca del Trattato di Westfalia erano gli spostamenti degli eserciti a far presagire il pericolo, ma oggi la moderna tecnologia al servizio del terrore non concede avvisaglie e gli esecutori svaniscono nell’attuazione stessa dell’attacco. Ne discende che, se si profila la seria prospettiva di una minaccia terroristica dal territorio di un Paese sovrano, una certa opera di prevenzione – compresa l’azione militare – è parte integrante dell’allerta. E gli Stati che ospitano i covi dei terroristi o i loro centri di addestramento non possono invocare il concetto tradizionale di sovranità, perché la loro integrità nazionale è stata preventivamente violata dai terroristi. Ed è a questo punto che il tema della prevenzione in senso lato si fonde inevitabilmente con quanto riguarda l’Iraq.
Porre le regole per la prevenzione non è cosa che si possa risolvere da soli. Come nazione più potente al mondo noi abbiamo gli strumenti per sostenere i nostri punti di vista. Ma abbiamo anche lo speciale obbligo di basare le nostre scelte politiche su princìpi che trascendano l’imposizione del potere del più forte. Un ruolo di leadership mondiale richiede l’accettazione di alcuni vincoli anche sulle proprie azioni, per far sì che gli altri compiano sforzi analoghi. Non è nel nostro interesse, né in quello del mondo, aprire la strada a regole che garantiscano a ogni Stato un diritto insindacabile di prevenzione contro ciò che valuta soggettivamente come una minaccia alla propria sicurezza. Di conseguenza, il tema della prevenzione dovrebbe far parte di un serio sforzo di consultazione, al fine di stabilire princìpi generali che le altre nazioni possano trovare condivisibili.
Certo, la consultazione non è una pozione magica per tutti i mali: alcuni obiettano che è solo un espediente per procrastinare la decisione. E, alla resa dei conti, gli Stati Uniti si riservano il diritto di intervenire da soli. Ma è molto diverso se l’America agirà da sola come ultima risorsa, invece che per una preferenza strategica. Soprattutto, una volta che il Presidente statunitense abbia annunciato la sua decisione e fatto sì che l’Amministrazione si esprima con una sola voce e senza ambiguità, è difficile credere che i nostri più leali alleati potranno gettare a mare mezzo secolo di Alleanza atlantica.
Troppo, nei commenti europei in proposito, è pilotato dalle politiche nazionali. La preoccupazione degli americani non dovrebbe essere liquidata con accuse di avventurismo ed è improbabile che lo sia, una volta che l’orientamento degli Usa sia chiaro e le pressioni elettorali europee si siano acquietate.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2004