Dicembre 2004

L’europa utile

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La bella eccezione
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

 

 

L’apocalittica
previsione,
dichiarata in
parecchi milioni
di copie dai due diffusissimi
tabloid inglesi, non era stata
considerata oro colato dai governi dell’Unione.

 

Sono eccezioni: ma quando si verificano – cosa che purtroppo non accade tutti i giorni e neppure tutte le settimane e tutti i mesi – sono davvero belle e importanti. Parliamo dei casi in cui l’Europa politica e l’Europa utile vanno d’amore e d’accordo, procedono sullo stesso binario, mano nella mano.
Di solito, lo abbiamo più volte visto anche in questo nostro spazio, accade il contrario. L’Europa utile, quella che offre benefici concreti ai cittadini, procede spedita e sicura, registrando in ogni campo – dalla tutela della salute pubblica alla difesa dei diritti dei consumatori fino alla crescita dell’impegno nella ricerca scientifica – indubbi e rilevanti successi. Avanza anche l’Europa politica e arriva ad aggiudicarsi traguardi di grande dimensione e significato (basti ricordare l’euro e il Mercato Unico), ma ogni tanto, anzi spesso, sembra smarrire strada e bussola, rallenta il passo, a volte si ferma, inducendo i meno ottimisti a chiedersi se il processo d’integrazione abbia ancora un futuro.

Guardando ai fatti più recenti questo è successo, ad esempio, quando, al termine dell’ultima presidenza italiana dell’Unione (secondo semestre del 2003), il progetto di Costituzione europea è sembrato condannato al naufragio; o quando Germania e Francia, la scorsa primavera, hanno imposto all’Ecofin, il gruppo dei ministri finanziari, una particolare interpretazione – a loro favorevole – del Patto di Stabilità; o, peggio di tutto, quando, l’anno scorso, anche quest’anno, sul problema della guerra in Iraq è esplosa (come già era accaduto per i conflitti nei Balcani) la Babele delle diverse e a volte contrastanti posizioni dei governi della Comunità.
Meno male che, almeno ogni tanto, la mano destra (l’Europa politica) e la mano sinistra (l’Europa utile) non solo vanno d’accordo ma arrivano a lavorare insieme sia per il successo del processo d’integrazione sia per migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Sta accadendo, ad esempio, per quanto riguarda le conseguenze dell’ultimo allargamento, quello del primo maggio
del 2004.
E’ un esempio di particolare interesse. Soprattutto perché, prima che avvenisse, l’allargamento era visto con preoccupazioni e dubbi da parte di non pochi uomini e gruppi sia dell’Europa politica che dell’Europa utile nonostante l’enorme suggestione esercitata dai suoi numeri (la crescita dell’Unione da 15 a 25 Paesi e da 379 milioni a 453 milioni di abitanti), nonostante anche l’altrettanto rilevante significato storico e politico (l’incontro tra popoli che durante mezzo secolo di Guerra Fredda erano stati divisi non solo dall’incompatibilità tra i diversi regimi politici ma dal rischio stesso di uno scontro armato). Alcuni vedevano nell’Unione a venticinque la possibile sede di un aumento delle diversità, quindi dei paralizzanti contrasti in materia di scelte politiche, ad esempio sulle crisi internazionali, e altri non nascondevano e non tacevano il timore che la suddivisione delle risorse comunitarie tra un maggior numero di pretendenti potesse appesantire le difficoltà dei vecchi soci (i 15) senza fornire ai nuovi (i 10) mezzi adeguati per poter ottenere una crescita apprezzabile.

Bene, trascorsi alcuni mesi dall’evento, critici e pessimisti dell’una e dell’altra Europa sono oggi in sensibile diminuzione. E non manca tra loro chi, con franchezza, dichiara di aver cambiato idea. Avviene perché finora almeno l’ultimo allargamento non ha causato danni né all’Europa politica né a quella utile, promette invece interessanti e positive prospettive sia all’una che all’altra e sta diventando terreno per una reciprocamente utile collaborazione tra di esse.

Ad un convegno-seminario sul futuro dell’Europa svoltosi a metà settembre a Bruxelles chi scrive quest’articolo ha sentito più volte ripetere da dirigenti delle istituzioni europee, studiosi dei problemi comunitari ed europeisti intervenuti nel dibattito, la seguente affermazione: non è pura coincidenza che la Costituzione sia stata approvata da un Consiglio europeo non un anno o dieci anni fa ma lo scorso giugno, un mese dopo l’allargamento, è semplicemente avvenuto come naturale seguito ed effetto di un evento, appunto l’allargamento, che ha ridato carica al processo d’integrazione.
Con queste parole, che riecheggiano giudizi detti e scritti in molte altre sedi, non si dichiara la fine o la riduzione delle tante divergenze politiche che esistevano e continuano a esistere tra i governi dell’Unione, si sottolinea invece la maggiore sicurezza, acquisita con l’allargamento, di poter continuare, nonostante le diversità, un percorso comune verso un obiettivo comune (anche se non del tutto preciso nei particolari). Non è cosa da poco. Come non è cosa da poco il fatto che stiano ormai chiaramente assumendo la forma e la sostanza di vere e proprie tigri di carta le catastrofi economiche temute, per l’Europa utile, come conseguenze dell’ammissione nella famiglia comunitaria di Paesi, come quelli dell’Europa centro-orientale, con basso reddito pro-capite (mediamente circa la metà di quello dei Paesi membri dell’Unione a 15).

Vediamo, per fermare l’attenzione su un esempio di grande significato, che cosa sta accadendo per l’esodo di manodopera dal Centro e dall’Est dell’Europa, annunciato all’inizio dell’anno dagli euroscettici e da giornali che – come alcuni quotidiani cosiddetti popolari del Regno Unito – vanno a nozze con gli allarmismi, oltreché con scandali e pettegolezzi. «Arriveranno in almeno 4 milioni – avevano scritto The Mirror e The Daily Express – e toglieranno pane e lavoro ad altrettanti padri di famiglia dei 15 Paesi dell’Unione». L’apocalittica previsione, dichiarata in parecchi milioni di copie dai due diffusissimi tabloid inglesi, non era stata considerata oro colato dai governi dell’Unione. Tra la maggior parte di essi, tuttavia, qualche forte timore si era diffuso: soprattutto di fronte alla drammatica eloquenza dei numeri sui disoccupati nell’Europa dei Quindici (4 milioni, pari al 10,5 per cento della popolazione attiva solo nella Germania federale). Il rischio che all’ondata di clandestini già in arrivo in molti Paesi (soprattutto l’Italia) si aggiungesse un esodo di disperati e affamati dal Centro e dall’Est dell’Europa era stato così ritenuto possibile e grave da molti governi: con la conseguenza di una clausola, negli accordi per l’allargamento, che consentiva di filtrare, quindi centellinare, l’afflusso di manodopera dai nuovi Paesi membri per alcuni anni (non oltre il 2011).

Se si fosse data un’occhiata attenta e obiettiva ad alcuni precedenti e se i risultati di un “Eurobarometro” della scorsa primavera fossero stati utilizzati come attendibili elementi di giudizio, tanta cautela e tanta prudenza (che indirettamente ma chiaramente assumevano il significato di atteggiamenti di scarsa fiducia verso i Paesi candidati all’allargamento) avrebbero potuto essere evitate. Sia nel 1980, in occasione dell’ammissione della Grecia, sia nel 1981, l’anno dell’allargamento a Spagna e Portogallo, i governi dei nove Paesi che in quel periodo componevano l’Europa comunitaria si erano inventati norme restrittive con cui, anche allora per sette anni, si era limitata l’emigrazione di lavoratori provenienti dai nuovi Stati membri. Tali norme si erano rivelate del tutto inutili.
Dopo i due allargamenti, i greci che si erano trasferiti in un altro Paese comunitario non avevano superato i 10 mila all’anno, i portoghesi erano stati 7.700, gli spagnoli anche meno. Non solo. Trascorsi pochi anni si era addirittura manifestata una controtendenza: una parte degli emigrati greci, portoghesi, spagnoli aveva ripreso la via di casa.
Dopo l’allargamento del maggio 2004 le esperienze di oltre vent’anni fa dovrebbero più o meno ripetersi, sia pure con quale differenza (questa volta, rispetto all’80-‘81, il gap tra il livello di vita nei vecchi e nei nuovi Stati membri è molto maggiore). L’aveva del resto già previsto l’Eurobarometro della scorsa primavera in cui s’indicava in una cifra tutt’altro che preoccupante, 220 mila all’anno, la quantità delle persone intenzionate a trasferirsi, per cercare un lavoro, dalla “nuova Europa” (quella dei 10 Paesi appena ammessi) alla “vecchia Europa” (dei 15). Considerato che nell’Unione ci sono oggi 192,8 milioni di persone occupate (di cui 164 nell’Europa dei 15) appariva chiaro che sarebbe stato grottesco definire esodo il modesto trasferimento di manodopera previsto dalla nuova alla vecchia Unione.
Un altro dato, sempre di Eurobarometro, riferito al tipo di emigrazione che era attesa, conteneva ulteriori elementi utili per dissipare ogni preoccupazione. Secondo questo dato, la gran parte dei 220 mila era costituita da giovani appena laureati o prossimi alla laurea o al diploma, dunque in grado di offrire manodopera qualificata o in procinto di qualificarsi. E’ il genere di manodopera che da tempo scarseggia sul mercato del lavoro europeo. Tanto è vero che nella sola Germania, il Paese europeo più colpito dalla disoccupazione, ogni anno 75 mila offerte di impiego qualificato cadono nel vuoto per mancanza di candidati idonei. In definitiva, l’afflusso della pattuglia centro-orientale prometteva di riempire un vuoto anziché di allargarlo.
Appare chiaro dunque che Margot Wallström, commissario europeo per l’Occupazione e gli Affari Sociali, era in possesso di ragioni da vendere quando, commentando i dati dell’Eurobarometro, aveva affermato: «Ogni allarme è ingiustificato» (a proposito del temuto esodo dal Centro e dall’Est europeo). Alcuni, anzi molti, non le avevano creduto. Si era arrivati così alle norme restrittive che, fino al 2011, regoleranno le immigrazioni dai Paesi centrorientali. Trascorsi diversi mesi dall’allargamento, alcuni, anzi molti, si stanno però ricredendo. Tra gli altri c’è la Germania, che pure era stata tra i più decisi e intransigenti sostenitori delle norme restrittive. Con una nuova legge sui “gastarbeiter” (lavoratori ospiti) il governo tedesco si prepara ora ad accogliere circa 200 mila immigrati all’anno, vale a dire poco meno di quanti, in base alle stime dell’Eurobarometro, sono attesi nell’insieme dell’Europa dei Quindici.

Cessato allarme, dunque? Pare proprio di sì, anche se sarà prudente aspettare qualche mese o qualche anno per annunciare con completa sicurezza che il pericolo dell’esodo è definitivamente scongiurato. E pare proprio che si possa dire, fin da ora, che questo sta avvenendo grazie a un’eccezionale prova di convergenza e di collaborazione tra Europa politica ed Europa utile. La prima, con un coraggioso atto politico, ha costruito e messo in funzione un ponte tra due sponde europee che fino al 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino, erano agli antipodi l’una dall’altra. La seconda, inizialmente con gli interventi di preadesione, poi con la politica di coesione (che sostiene i Paesi con un reddito inferiore al 75 per cento della media comunitaria e ha già avuto il merito di favorire la crescita dell’Irlanda, della Spagna, del Portogallo), ha permesso ai dieci nuovi membri dell’Unione di cominciare a curare i propri mali economici e sociali e di poter realisticamente promettere ai propri cittadini un futuro benessere nel Paese in cui risiedono.
E’ un esempio di produttiva concordia che a noi, e a tutti quelli che credono nell’Europa, piacerebbe vedere in campo più spesso. Sperando che avvenga, plaudiamo intanto alla bella eccezione.

   
   
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