Dicembre 2004

Per sostenere la concorrenza

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Cambiare Maastricht?
Mabel  
 
 

 

 

 

 

Farsi trovare
impreparati alla
nuova domanda
mondiale di
indiani e cinesi
sarebbe un vero
e proprio delitto, per l’Europa
e per l’Italia.

 

Le antiche regole sembrano sovvertite. L’Europa passata da Quindici a Venticinque, che cresce poco, ha la moneta più forte, mentre l’economia americana che continua a crescere a tassi piuttosto alti ha una moneta che negli ultimi tempi si è deprezzata sull’euro. La debolezza della divisa statunitense ha trascinato con sé un’altra moneta, lo yuan cinese, nonostante che quell’immenso Paese cresca a tassi formidabili, mai inferiori al 7-8 per cento all’anno. Ma non è finita. L’Europa ha un’inflazione doppia di quella americana nonostante una moneta forte e una crescita bassa. In ultima analisi: da un lato moneta forte, economia debole e inflazione alta; dall’altro, moneta debole, economia forte e inflazione bassa. E’ esattamente questa la nuova realtà.

Fino a dieci o quindici anni fa, vale a dire all’epoca della pre-globalizzazione in cui non c’era la libera circolazione dei capitali, quegli indicatori (forza della moneta, tassi d’interesse, tasso d’inflazione) avevano un significato più preciso. Si prenda l’andamento dei tassi. Negli ultimi dieci anni il Giappone ha avuto saggi ufficiali prossimi allo zero e la sua economia è rimasta, solo fino a pochissimo tempo fa, al palo, con rischi addirittura di deflazione. Ciò dimostra che l’andamento dei tassi di interesse può influenzare la crescita e l’inflazione, ma molto meno di quanto si possa pensare. Nello stesso confronto Europa-Stati Uniti la differenza tra i tassi nominali è di uno a due a favore degli americani, ma se valutiamo quelli reali vediamo che l’area dell’euro ha saggi più bassi: in Europa, il costo medio del denaro è inferiore al tasso d’inflazione, mentre in America il tasso reale è leggermente positivo. Nonostante ciò, l’economia americana ha ripreso a correre, mentre quella europea resta in affanno.
Da tempo, ormai, altri elementi concorrono a determinare la forza di un’economia e della relativa moneta. La crescita della produttività e la flessibilità del mercato del lavoro, per esempio, sono due componenti fondamentali per mettere il turbo a un’economia industrializzata. E gli Stati Uniti sono imbattibili su questo versante, avendo fra l’altro una domanda pubblica per spese militari sensibilmente cresciuta con la guerra planetaria al terrorismo (e con la guerra guerreggiata in Iraq), che attiva a sua volta processi innovativi che a cascata si riversano sulla produzione di beni e di servizi. Quest’anno, però, il forte disavanzo commerciale e quello di bilancio hanno indebolito quel dollaro che l’amministrazione statunitense, almeno fino all’inizio del 2005, non intende rafforzare, al fine di favorire crescita e di conseguenza occupazione. Ovviamente, ci sono anche elementi geopolitici, quali la menzionata minaccia terroristica, ma anche il passaggio dal dollaro all’euro di ingenti risorse dei Paesi del Vicino Oriente e dell’Est, che concorrono a tenere debole la divisa americana.

In questo scenario, per l’Europa c’è una sola strada da percorrere, tutta affidata alla politica, vale a dire al Consiglio dei ministri e non certamente alla Commissione. Ci si riferisce ad una rapida revisione delle regole del Patto di Maastricht, che venne scritto in un contesto storico diverso e che ha garantito la nascita della moneta unica europea. Oggi quel Patto deve necessariamente poter aiutare anche la crescita. E accanto ad esso vanno realizzate a stretto giro riforme strutturali della spesa corrente (il welfare) e del mercato del lavoro, potenziando la dotazione infrastrutturale dell’Europa, la ricerca e l’innovazione per accelerare la crescita della produttività. Crescita fondamentale per tenere il passo nella nuova divisione internazionale del lavoro, che vede Paesi come la Cina e l’India agguerriti concorrenti.
Pensare a dazi doganali sarebbe un grave errore, perché quei due miliardi e passa di indiani e di cinesi ben presto diventeranno grandi consumatori (in parte lo sono già), immettendo in questo modo combustibile di qualità nel motore dell’economia planetaria. Farsi trovare impreparati a quella nuova domanda mondiale sarebbe un vero e proprio delitto. Per l’Europa e per l’Italia.

   
   
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