Dicembre 2004

CRONACHE DEL NON-RIFORMISMO

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I pronipotini
di Monsignor Della Casa
Aldo Bello  
 
 

Quando una classe dirigente cerca
di esorcizzare,
negandola, la realtà, rifugiandosi nel culto del
passato e nella
difesa dello statu quo, un Paese è condannato a
declinare in modo irreversibile.

 

«La Patria, signori, non si conserva come un vecchio monumento immobile, cingendolo di puntelli e di spranghe; la Patria è un essere vivente, un organismo che continuamente si sviluppa, che si conserva con il movimento ragionevole, con il giusto esercizio di tutte le sue naturali facoltà». Scriveva così, Massimo D’Azeglio, sottolineando nella Patria un elemento dinamico, da non imbalsamare una volta per sempre. Questo vale anche per l’identità nazionale: «Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia» (Benedetto Croce).

Argomenti del genere tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso apparvero del tutto marginali in un contesto culturale che invece discuteva, anche animosamente, sulla società civile, sulle classi sociali, sui movimenti collettivi, sui partiti. Fino a quando la deriva leghista allarmò chi vide il rischio del «cessare di essere nazione». Allora ebbe il sopravvento una concezione dell’identità nazionale come progetto da costruire nel tempo, artefice lo Stato. Un progetto da affidare agli strumenti della politica, che avrebbe dovuto tendere all’istituzione di “un grande ordine artificiale” sostitutivo del precedente “ordine naturale” fondato sulla “terra e il sangue”.
La realtà, oggi: la storia italiana continua ad essere una storia in cui la complementarità tra locale, regionale e nazionale è la soluzione adottata autonomamente dal basso per sopperire alle carenze dell’“artificialismo” statale. Le originarie identità locali, infatti, sono sopravvissute con spontanea vitalità, senza porsi in alternativa allo Stato unitario, ma mettendone in risalto i limiti nella capacità di mettere in moto un processo d’integrazione: ogni volta che si è profilata una rottura particolaristica, è emerso non tanto il rischio di «cessare di essere nazione», ma un deficit di azione politica, con la conseguenza di modifiche radicali e profonde del nostro sistema politico.
Così nel Ventidue. Per scampare all’attacco del Fascismo, lo Stato liberale avrebbe avuto bisogno di un consenso ben più ampio di quello che gli era garantito dalla asfittica partecipazione popolare al Risorgimento. Ma, com’è stato notato, c’era una sorta di tara genetica nel modo in cui si era giunti all’unità nazionale, una radicata diffidenza per ogni forma di apertura verso il basso, nei confronti dell’accelerazione di processi d’integrazione che avrebbero inevitabilmente comportato una crescita della partecipazione democratica. Prefetti, esercito, scuola, azioni repressive: tutto questo non bastava a “fare gli italiani”. Occorreva qualcosa di più sul piano della cultura e, soprattutto, su quello della politica, della capacità d’inventare idee-forza in grado di far sentire tutti parte di una legge comune, di una cittadinanza attiva e non neghittosa.

E così nel passaggio dalla dittatura all’Italia repubblicana (si ricordi di quegli anni la vicenda del separatismo siciliano), e, ovviamente, negli anni Novanta della transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica (con la Lega protagonista di una netta discontinuità nel nostro sistema politico). Dietro l’angolo c’è stata sempre la “Patria municipale” che Gioberti vedeva radicata lungo il percorso «casa, famiglia, parenti, amici, poderi, traffico, industria, clientele, cariche, reputazione».

Gli italiani non sono nati privi del senso dello Stato. Lo sono diventati. La svolta si ebbe tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento. Fu allora che l’Italia fallì l’ancoraggio alla storia della modernità politica incarnata nell’affermazione dei primi grandi Stati nazionali. Sazi di traffici e di ricchezze, i comuni italiani si ritennero appagati, dunque diffidenti nei confronti di concezioni politiche innovative, comunque tutti presi dalla concezione materialistica di uno sviluppo economico che sembrava inarrestabile. Fu un “vulnus” politico (aggravato dal consolidarsi del dominio spagnolo nella Penisola) e culturale che all’epoca vide i nostri intellettuali farsi interpreti di “virtù” tutte contraddistinte dall’indifferenza per la cosa pubblica, dall’affermazione individuale da perseguire con l’opportunismo, con il calcolo, con un pragmatismo tragicamente svuotato di ogni ideale. Giovanni Della Casa, con il suo “Galateo”, si propose come il massimo esponente di questa ideologia: il perno della sua argomentazione era emblematizzato in un terribile avverbio: “mezzanamente”. Neanche la discrezione aveva diritto di cittadinanza. Obiettivo dichiarato era quello di mimetizzarsi tra gli altri, di «temperare e ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali tu usi».
Fecero eccezione, in quel contesto, il Piemonte e Venezia, l’uno e l’altra non a caso geograficamente marginali rispetto al resto della Penisola. I Savoia e la Serenissima avviarono l’unico esperimento riuscito di fusione virtuosa tra interessi privati e bene comune all’interno di una cornice istituzionale. I Savoia seppero imbrigliare ben settemila feudatari con una rigida politica centralistica il cui presupposto portante era una “fiducia” che i “Signori” delle Città-Stato (schiavi di un egocentrismo sfrenato e di una concezione patrimoniale della cosa pubblica) non erano riusciti ad ispirare ai propri sudditi. Venezia, ancor di più, fu in grado di sottrarsi alla concorrenza devitalizzante della Chiesa temporale (tesa, sì, al monopolio delle coscienze, ma anche delle identità politiche), di legittimarsi sulla base di leggi condivise, di norme di polizia, di apparati di difesa e di offesa, di politiche fiscali, di organi burocratici efficienti.

La nostra annosa incapacità di ritenere il gesto individuale in relazione a un contesto di valori più generali non è quindi un dato uniforme e meno che mai scontato: il Piemonte eretico nei confronti dell’“altra Italia” e Venezia con il suo laico “spirito del capitalismo” testimoniano una realtà più complessa e articolata.
Oggi, mentre la statualità si ritrae, mentre lo Stato si snellisce di compiti e di funzioni, ma anche di credibilità e di “fiducia”, mentre a costruire identità nazionale sono quasi esclusivamente il mercato e il sistema dei media, nella maggioranza degli italiani riaffiora un modello identitario fondato su un’opprimente sovrapposizione tra valori e interessi economici: quasi la riproposizione postmoderna delle gesta dei “Signori” delle nostre città rinascimentali. E tutto questo, quando non abbiamo ancora finito di pagare il prezzo di scelte vecchie ormai di cinque secoli.

Sostituiamo ora il termine “Signori” con “Ideologie”, cioè con i pensieri politici (e partitici) e con le posizioni culturali che hanno condizionato nel bene e nel male orientamento e sviluppo civile, economico e sociale dal secondo dopoguerra ai nostri giorni. E portiamo la riflessione sul piano della nostra Magna Charta, che del confronto-convergenza, vale a dire delle compromissioni di quelle ideologie, è stata frutto e motore primo della vicenda italiana dalla Costituente in poi. Due le posizioni sul tema: quella di chi ritiene che oggi si riveli illiberale, ovviamente nella sua prima parte – quella, appunto, più ideologizzata – e che pertanto, non trattandosi del Corano, può e deve essere emendata; e quella di chi, al contrario, ne esalta la formidabile spinta innovatrice, che ha consentito all’Italia di inserirsi tra i Paesi più evoluti dell’età contemporanea.
Contenuti della prima posizione: vige una forma di egemonia che mortifica il cittadino e rallenta la modernizzazione; a sessant’anni dalla caduta del Fascismo e a quindici dalla crisi del Comunismo internazionale, la cultura politica dominante, la natura dell’Ordinamento giuridico, la struttura socio-economica sono ancora collettiviste, stataliste, dirigiste, corporative e, in una parola, illiberali.
Scrive Piero Ostellino: «L’Italia conserva dell’autoritarismo fascista e del totalitarismo comunista il pregiudizio ideologico e le chiusure sociopolitiche e socioeconomiche nei confronti dei diritti soggettivi naturali della Persona. L’innesto, nell’immediato dopoguerra, della cultura collettivista marxista sul tronco corporativo fascista ha addirittura peggiorato le cose. I due estremi si sono incontrati in una concezione organicista della società».
In sintesi: l’Ordinamento giuridico non si fonda sull’individuo, ma su un’astrazione collettiva, “il lavoro” (art. 1 della Costituzione). Esso riconosce i diritti dell’uomo, al quale però chiede “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Il “diritto al lavoro” deve comportare “il dovere di svolgere... un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4) ed è vincolato ad “un esame di Stato... per l’abilitazione all’esercizio professionale” (art. 33). Persino la “libertà di emigrazione” è subordinata all’“interesse generale” (art. 35). “L’iniziativa economica privata è libera”, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale” (art. 41), così come “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che... ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale” (art. 42). E poiché è chi detiene il potere costituito a stabilire cosa siano il progresso della società, l’interesse generale, l’utilità e la funzione sociale, non è difficile coglierne le potenzialità illiberali. Al pari dell’edificazione del socialismo in Urss e del pensiero del Duce nel Ventennio, sono un limite che il potere pone all’esercizio delle libertà individuali.
Gli Ordini professionali sono la proiezione socio-economica, «il frutto avvelenato dell’incestuosa alleanza fra società politica e società civile, entrambe ostili al mercato. Mandati in soffitta Karl Marx e Giovanni Gentile, i postmarxisti e i postgentiliani si sono limitati a sostituire il Comunismo e il Fascismo con una sorta di Neocomunitarismo; il quale altro non è che la versione edulcorata, ma ugualmente anti-individualista, di entrambi».
Anche quel po’ di liberalismo che si è aperto un varco nell’egemonia autoritaria e totalitaria, (quello tradotto dal tedesco da Croce), è anti-individualista, permeato com’è di hegelismo. Per Croce, lo Stato non è il garante dei diritti individuali (compresa la proprietà), ma la sede di valori etico-politici che trascendono storicamente l’individuo. Sostiene Raimondo Cubeddu: «Nell’indifferenza crociana verso le istituzioni politiche entro le quali si sarebbe realizzata la libertà, e nell’affidarla a un processo storico – la “religione della libertà” – si assiste così a un’altra singolare estraniazione dalla tradizione liberale la quale, al contrario, ha da sempre posto l’attenzione sulle istituzioni intese come garanzie delle libertà individuali».
Così la Costituente, monopolio di marxisti, gentiliani e crociani, ha prodotto, ieri, la Costituzione che continuiamo anacronisticamente a celebrare, e alla cui riforma si oppongono, oggi, i postmarxisti e i postgentiliani, «accomunati nella teologica (e teleologica) avversione per il liberalismo».
La replica di chi ha scelto la seconda posizione. La Costituzione ha assecondato sessant’anni di un progresso senza precedenti nella storia dell’Italia moderna, e con pochi eguali al di fuori. Un progresso non limitato al campo economico, in cui, pure, ha rovesciato la precedente condizione della Penisola in quella di Paese fra i primi al mondo per struttura dell’economia e per prodotto nazionale e redditi individuali. Un progresso che ha visto un rapido passaggio dai costumi di una società tradizionalista, ancora molto immersa nella ruralità, a quelli di una società allineata alle più libere di oggi, con un formidabile incremento degli spazi di libertà individuale.

Sinossi di Giuseppe Galasso:
1) Alla Costituente non operò solo un “trio” marx-gentilian-crociano. Ebbero un ruolo, in positivo e in negativo, i cattolici, che avevano il 40 per cento dei seggi della stessa Costituente.
2) Il contenuto di socialità non fu un anormale caso italiano; nacquero all’epoca altre Costituzioni europee, e in tutte vi fu la tendenza ad ampliare sul piano sociale il quadro tradizionale dei diritti, senza voler derogare dall’individualismo e dal liberalismo.
3) Questo ampliamento non era una novità europea. Era stato già percorso dalla liberaldemocrazia americana di Roosevelt (con il New Deal) e di Truman (con il Fair Deal).
4) Socialità e individualismo non si escludono necessariamente. Nella Costituzione ci sono relitti corporativi e d’altro genere, eredità del passato, (come ve ne sono nella liberalissima Inghilterra), che però non danno il tono all’insieme e possono essere eliminati con i referendum.
5) Le istituzioni italiane consentono ampie garanzie, molte di più delle celebri quattro di Roosevelt: bicameralismo, Corte costituzionale, habeas corpus, tre gradi di giustizia sia penale e civile che amministrativa e tributaria, diritto del lavoro, pubblicità delle procedure, referendum...
6) Il liberalismo, come del resto ogni altro regime, non deve mai riposare solo sul suo quadro istituzionale. Le garanzie non sono nulla se al loro interno non vive e vigila e opera uno spirito etico e politico della libertà, (si diceva un tempo che la monarchia inglese era più repubblicana di molte repubbliche; e questo, non altro, era il senso della posizione di Croce, il quale non era un mero scoliaste di Hegel e non traduceva, come liberale, dal tedesco, ma dal piemontese di Cavour e dal francese di Constant, di Guizot, di Tocqueville).
Non mancano le controrepliche. A parte il fatto che ci sono Stati che hanno cambiato la Costituzione per necessità (Spagna, Portogallo e Grecia dopo la fine delle dittature, la Germania dopo la riunificazione, la Cechia e la Slovacchia dopo la separazione, tutti i Paesi dell’Est europeo dopo il crollo dell’Urss...) o per mettersi al passo, se non al trotto con i tempi (la Francia insegnerà pure qualcosa!), senza alzare al cielo lamenti o scagliare anatemi, va rilevato un fenomeno tipico della cultura politica, e non soltanto politica, italiana. Da noi ci sono parole che il tempo ha logorato, e delle quali l’uso improprio ha deformato il significato originario. “Dialogo”, ad esempio: nel lessico della classe politica non è più disponibilità a conoscere le ragioni dell’altro, ma è diventato più o meno sinonimo di “appeasement”, cioè di inclinazione, per quieto vivere o per altre strumentali esigenze, a far concessioni all’altro (l’opportunismo passatista predicato dal Della Casa). E poi, “confronto”, al quale la classe politica, ma non soltanto politica, ricorre per rifiutare, o per surrogare, il conflitto sociale, impedendo così l’autentica forza propulsiva di ogni società aperta. Allo stesso modo: in nessuna lingua al mondo esiste la parola “liberismo”, che in italiano serve a distinguere il liberalismo economico da quello politico, come se le libertà economiche non siano una delle componenti di quelle politiche.
Conferma Ostellino: quando una classe dirigente, politica o no, «cerca di esorcizzare, negandola, la realtà, sostituendo il significato originario delle parole con una sorta di “neo-lingua di legno”, rifugiandosi nel culto del passato e nella difesa dello statu quo, un Paese è condannato a declinare e, quel che è peggio, rischia di declinare in modo irreversibile. E’ esattamente ciò che sta accadendo all’Italia».
Dunque: abbiamo una classe dirigente che, a tutti i livelli, “pensa vecchio”, perché è concettualmente prigioniera di una cultura che si chiede (filosoficamente) “perché” le cose avvengano, e non “come” (empiricamente) avvengano; una cultura, cioè, che giudica prima di “capire”, fatta “per filosofare” e non “per fare”. Ecco che cosa ci differenzia dagli anglosassoni: noi continuiamo a guardare al mondo per categorie ideologiche (giustizia, eguaglianza, sviluppo), sostanzialmente mutuate dal secolo dell’idealismo trionfante, dei totalitarismi d’ogni tipo che abbiamo combattuto e ripudiato, ma di cui conserviamo – singolarmente – il linguaggio. Gli anglosassoni non hanno mai smesso di guardare al mondo per problemi concreti (“issues”), ai quali conferiscono priorità politica a seconda delle circostanze.
Noi, al contrario, dopo non aver capito, ieri, che il Comunismo era una religione truccata da programma politico (un’eresia cristiana, venne definito), non capiamo, oggi, che l’integralismo islamico è un programma politico truccato da religione. Per inventare un moderno welfare (con Beveridge, un liberale), il Regno Unito non ebbe bisogno, come invece noi, di stravolgere le libertà “negative” del liberalismo (libertà da, come “non impedimento”), vincolandole e subordinandole alle libertà “positive” della democrazia (libertà di, come “opportunità”). Molto semplicemente, non ha confuso, anzi ha tenuto correttamente separati, il concetto di libertà e quello di benessere. L’incapacità di attuare una reale inversione di tendenza in politica interna; la passiva subordinazione agli interessi altrui in politica estera; il rifiuto di aggiornare alle domande del nuovo secolo (il secolo dell’individuo, del mercato, della globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni) le istituzioni e l’organizzazione sociale; il mantenimento di un sistema economico statalista e protezionista sono la prova del ritardo culturale, forse prima ancora che politico, della nostra classe dirigente nello stare al passo, o al trotto, con i tempi.
D’altra parte, all’inerzia della classe politica va sommata la quasi assoluta assenza di capacità di elaborazione teorica da parte del cosiddetto mondo intellettuale, che rimane la “musa cortigiana” del Principe, di cui canta i molti vizi più volentieri di quanto non coltivi le scarse virtù. Perciò nessuno sembra in grado di produrre un modello di organizzazione che simultaneamente garantisca le libertà individuali e la crescita economica.

Non dico una radicale e pacifica rivoluzione borghese, ma neanche un accettabile riformismo sembra avere cittadinanza in Italia, perché sia i conservatori sia i progressisti hanno sottoscritto una sorta di armistizio con gli interessi organizzati. I conservatori ci hanno provato ad essere riformisti, ma si sono avvitati sulla loro vocazione corporativa. I progressisti non ci provano neppure, perché in cambio della propria legittimazione si sono eletti a rappresentanti degli interessi dell’establishment industriale, economico, finanziario e intellettuale che, per sua stessa natura, è conservatore. Gli uni e gli altri, anche se per ragioni e con culture diverse, sono convinti che compito della politica sia realizzare la convergenza fra quegli interessi, e non fra singoli individui dotati di razionalità e di libertà, e capaci di organizzare da sé i rapporti con i propri simili.
La libertà tanto più cresce quanto più si allargano gli ambiti dei diritti naturali soggettivi, all’interno dei quali ciascun individuo è libero di agire come preferisce, e quanto più si riducono i divieti.

E’ stato questo individualismo salutare a creare il “miracolo occidentale”. Ed è stata la libera competizione a infondere fiducia e vigore a società costituite da uomini liberi e intraprendenti.
Ed è con questa stessa logica di riformismo che dovrebbe aver luogo anche il processo di unificazione europea. Il quale pare invece limitarsi a sostituire con una nuova “sovranità europea” le vecchie “sovranità nazionali”, a loro volta sostitutive delle antiche “signorie” e “sovranità regali”. La tendenza è verso la negazione del pensiero di Montesquieu, secondo il quale «il potere arresta il potere», e verso l’enfatizzazione del pensiero di Rousseau, con una sorta di riemergente Volontà Generale, riattualizzata incarnazione del monarca assoluto, che dovrebbe governare la “Nazione Europea” come se questa non sia costituita da una moltitudine di individui, ma sia espressione di nuove “astrazioni collettive”, le stesse che hanno impedito agli Stati-nazione del Vecchio Continente, figli della Rivoluzione francese, e – prima ancora – di quelle inglese e americana, di essere economicamente e culturalmente liberali.

   
   
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