Settembre 2004

 

Indietro
Le Giravolte
AA.VV.  
 
 

 

 

Una nuova storia da narrare.
Un nuovo
rincorrersi nel tempo.
Un perdersi
nell’infinito, questa volta, nel silenzio tantrico tibetano.


 

Il dizionario delle diversità

Due milioni e mezzo di stranieri in Italia rappresentano una realtà che è destinata a dare molti frutti, più o meno belli, più o meno buoni, più o meno colorati. Ma pur sempre nuovi e sconosciuti. Ecco allora uno strumento importante per imparare a decifrare quello che sta accadendo intorno a noi, senza lasciarsi sopraffare da luoghi comuni e definizioni errate. Il “Dizionario delle diversità” propone delle basi comuni per affrontare serenamente l’incontro con lo “straniero” e con il suo bagaglio di esperienze.
In che Paese vivremo tra venti o trent’anni? Come sarà cambiata l’Italia? A domande di questo tipo è difficile pensare di poter dare una risposta certa; troppe le variabili in gioco. Di sicuro, c’è un unico dato: l’Italia non sarà più il Paese degli Italiani. O meglio, lo sarà ancora, ma non saranno più gli stessi “italiani” .

Sono cambiati, infatti, – e cambieranno ancora – i concetti fondamentali di “razza”, “etnicità” e “cultura”. Non potrebbe essere altrimenti, del resto, in un pianeta che è sempre più cosmopolita e multietnico. Un mondo in cui la migrazione è un fenomeno che interessa tutti i Paesi più industrializzati, dal momento che tutti, prima o poi, a partire dalla seconda Guerra mondiale, hanno avuto bisogno di manodopera più di quanta non ne generassero in patria. E allora, per stare al passo coi tempi, è indispensabile fare chiarezza sui nuovi concetti che servono ad esprimere la società in cui ci muoviamo.
Attraverso la comprensione di oltre 300 lemmi vengono presi in considerazione le polemiche e gli assunti infondati che caratterizzano il dibattito sociale, politico, economico, – e perché no – anche statistico, sull’immigrazione e sulla profonda trasformazione che essa comporta in ogni ambito del vivere comune.

I numerosi temi connessi al fenomeno migratorio vengono affrontati nel Dizionario in maniera multidisciplinare, così da fornire al “semplice” lettore, agli studiosi e agli addetti ai lavori un quadro a 360 gradi. I curatori e gli autori, specialisti nel campo normativo (come Guido Bolaffi, già capo Dipartimento presso il ministero del Lavoro e del Welfare e oggi segretario generale di Confartigianato) o nelle scienze psicanalitiche e sociali (come Raffaele Bracalenti, Peter Braham e Sandro Gindro), sono riusciti a trattare le voci del Dizionario inserendo i singoli argomenti nelle prospettive complementari della psicologia, della psicoanalisi e dell’antropologia sociale, nonché della corrente giurisprudenza nazionale e internazionale. Ad impreziosire l’opera il contributo di autori quali l’antropologa Matilde Callari Galli, il sociologo Umberto Melotti, il demografo Antonio Golino.

Il dibattito politico in atto sull’immigrazione e il modo in cui i media affrontano l’argomento non sono facilmente comprensibili da parte dell’opinione pubblica e lo dimostra chiaramente il dissidio profondo che la società italiana vive tra rifiuto del diverso, dell’estraneo alla propria “cultura”, lo spirito d’accoglienza e di compassione verso l’esule, e la diffidenza generata da certe “sparate” demagogiche. E lo dimostrano bene alcuni esempi: la mobilitazione spontanea e la gara di solidarietà sorta all’epoca degli sbarchi in massa di fuoriusciti albanesi sulle coste meridionali-orientali del Paese o in occasione dell’arrivo dei “profughi” kossovari; l’introduzione di una normativa che interpreta l’immigrato esclusivamente come “forza lavoro”; il pensiero diffuso che il richiedente asilo sia in realtà un migrante “economico” che vuole approfittare del buon cuore degli italiani; il timore di una “invasione” musulmana; la necessità di sopperire al calo demografico nel Paese.

Le spiegazioni contenute nel “Dizionario delle diversità”, insomma, non servono solamente a fare chiarezza, ma anche a suscitare profondi dubbi. Spiegano sì in maniera sintetica, ma spingono anche all’approfondimento con la delicatezza del buon maestro, affiancando in ordine alfabetico parole quali “fenotipo”, “flussi” e “foglio di via”. Tre concetti presi a caso, che trovano però una curiosa sintesi alla voce “sadomasochismo”, quella che forse più di ogni altra ben sintetizza l’approccio dello Stato contemporaneo al fenomeno delle migrazioni, del multiculturalismo e della multietnicità.
Il “Dizionario delle diversità”, pubblicato dalla Edup, in una versione adattata alla situazione italiana, ha già conosciuto meritata fama in Inghilterra, dove è stato pubblicato dal prestigioso editore Sage, con il titolo di Dictionary of Race, Ethnicity & Culture, ed è stato presentato con successo alla House of Lords dal professore di origini indiane Bikhu Parekh, docente presso la London School of Economics.

stefan leszczynski

 

Voyage autour de mon lit

Xavier de Maistre (Chambéry 1763-Pietroburgo 1852) mi era sempre piaciuto: non scrisse cercando notorietà, fu letterato occasionale, discontinuo, mutevole, autore di opere immediate e personali, delicatissime per fine ironia e sottile indagine; autore delizioso, di amabile lettura; uomo e artista d’indole aggraziata, dalla dolcezza malinconica e discreta, caratterizzata da sottile vena umoristica. Che fosse un’affinità elettiva?
Mi era, inoltre, piaciuto il fatto che la critica definissse “scarne” le sue prose, dovendo poi ammettere che si trattava di “miniature”, resistenti al tempo e alle mode, molto più di certi scritti di grande ambizione e proporzione.
Voyage autour de ma chambre, ispirato al “Viaggio sentimentale” dello Sterne, era stato la mia lettura francese preferita, durante una lunga malattia dell’adolescenza; era stato anche il modello di quel gusto e di quello stile che, un giorno, avrei voluto possedere...
Trascorse una vita intera; e non avevo dimenticato quel testo elegante. Oggi che, per usare l’autoironia cara al suo Autore, «di casa ormai esco poco», voglio divertirmi a tentarne una parodia in formato ridotto, intitolata sempliemente “Voyage autour de mon lit”.

Mi si perdoni l’arbitrio. Scopo: dimostrare quasi per scherzo che non tutto ciò che è “macro” (vana dimensione, cara ai nostri deformati giorni) si adatta allo studio dell’uomo. La descrizione di un “micro-cosmo”, quale ad esempio può essere il buio intimo in cui, puntualmente mattino e sera, apro gli occhi alla paura e li chiudo alla speranza, servirà a farmi meglio conoscere; è ciò che voglio.
Devo, comunque, avvertire che il grande letto in cui dormo è un antico letto cinese, posto nella grande camera d’un castello; un letto a baldacchino in ciliegio lucido, «della Cina povera», dice Siou-Wan. Lo portai dall’Indonesia, non in quanto oggetto, bensì come un trattato di vita orientale da studiare in vecchiaia.

Il suo legno non ha mai perso uno strano profumo, «di sandalo», dice ancora Siou-Wan. Ignora chiodi e viti; è costruito ad incastro; non ha tirato crepe, smentendo gli esperti che dal mutamento di clima pronosticavano irreparabili guasti e tarme varie.
Il suo colore, i suoi pannelli laccati mantengono da anni quella tonalità rosso-scura, detta in Asia sangue di piccione. Non scricchiola, pur essendo privo di molle e di rete; una stuoia vegetale, stesa sulle sue non flessibili tavole, funge da materasso europeo. E’ munito di cassetti, che scivolano nel suo ventre, profondi e comodi. La sua altezza da terra è quella di quattro sacchi di riso cinese sovrapposti, da antico giaciglio-ripostiglio che era.
Vi si accede per un solo lato, poiché dall’altro è appoggiato al muro, come un grosso mobile.
Gli angoli della parte superiore, da dove sporgono aste destinate – laggiù – a reggere pesanti quanto indispensabili zanzariere, sono ornati da intarsi rituali, composti a mano da artigiani che non esistono più.
Il mio letto cinese è una piccola casa nella grande casa, giusto come fu concepito. Vi si dorme in posizione longitudinale rispetto al lato “aperto”, dove si sale e si scende, servendosi d’un piccolo sgabello, scolpito nello stesso legno duro di questo austero testimone di remote civiltà contadine. Il capo di chi vi è disteso supino guarda un drago sacro, intarsiato sul soffitto-coperchio, in mezzo a motivi floreali. Pensi ad altra gente, lontana e misteriosa. Senti arrivare il nulla, senza fatica, e dimentichi ogni tua contingenza.
Contrario come sono agli spazi vuoti, agli arredamenti sporadici, ho riempito, anzi occupato il bianco delle due pareti che fanno angolo; cosicché dormo con una pesante collana d’ambra appesa sopra la nuca. Una preziosa stampa romana, raffigurante la navata centrale della Basilica di San Pietro (!) mi fa, come si dice qui, “da testiera”. Vi sono ancora: il telefono, poggiato sopra un tam-tam verticale africano, una Madonna bizantina acquistata ad Istanbul, una croce copta che tutti scambiano per una grande chiave d’ottone, “trovata” a Nairobi; nonché sparsi feticci “gri-gri”, cioè portafortuna, che, per la verità, in questa foto non si vedono dato che li regalai!
Resistono, invece, tre “esercitazioni in bianco e nero” degli allievi della Scuola d’Arte di Dakar, orgoglio del mio poeta preferito, L.S. Senghor. Assieme ad una piccola incisione del Pinelli, fanno corona ad un originale olio di anonimo, invaso dal verde-savana dove due donne, altrettanto africane, scendono a lavare verso il fiume…
Visto? Il giro si fa ampio, tutto si trasforma in paesaggio.
Il “Voyage autour de mon lit” continua e cambia in continuazione, come un documentario ben fornito. Ecco: i cuscini di seta ricamata li portammo da Singapore; la coperta di lana all’uncinetto, autentica eresia nell’esotico insieme, è opera paziente di Siou-Wan, quando al primo inverno del rientro in Italia ci trovammo freddolosi e soli, senza conoscere anima viva. Purtroppo, una fotografia taglierebbe fuori il fregio che circonda, in alto, il baldacchino; e ignorerebbe gli intarsi che, in basso, ornano i portagioie, ricavati nel legno delle due larghe gambe frontali; ma invisibili e introvabili.
Sì, perché, come dicevo prima, questo letto-pensatoio, per me, è una stanza segreta da abitare gelosamente. Non è facile concettualizzarla nei particolari e tutta insieme. L’importante è che lasci via libera alle fantasie, le quali sono appunto basate su cose che non si vedono. O meglio, che non vedete voi, mentre io, che in quel letto dormo, ne ricavo di che scrivere a iosa articoli sulla convivenza multi-razziale, richiestimi fino alla noia da chi mai viaggiò.
Basta sporga la testa di traverso dal baldacchino cinese e guardi “a picco” la salentinissima volta a stella, che subito il mio pensiero, pur dentro il mio letto, se ne va allegramente in giro. Apro i contatti e parto, più comodo certamente che in un sedile di classe cabina, a bordo d’un aereo di linea.
Le due donne nere del grande quadro colorato, specialmente, che scendono svolazzanti verso quel fiume azzurro (ma, forse, è un laghetto melmoso, oppure uno sporco stagno africano, di cui non conosco il nome anche perché non esiste), fanno dimenticare ogni senile stanchezza e venir voglia di ricominciar la stagione del nuovo.
Le vedo scendere, giovani, verso l’acqua, con grossi mucchi di panni da lavare in testa; non si voltano e, di colpo, m’addormento; anche se, per la verità, questo letto cinese non è proprio un rifugio fatto per dormire. Il che, fortunatamente, non sempre mi riesce; altrimenti m’abbrutirei di riposo.
Fortunatamente, infatti, accade che un gran tramestìo faccia oscillare quel mio bel lettone; è il notturno, trafelato arrivo di quattro ansimanti Terranova, dal fondo del ripostiglio del castello, dopo la vecchia cucina…
Giunge, quel tramestìo improvviso, come un fiducioso SOS animale. Sono grossi, i miei cani, ma hanno una paura folle del lampo e del tuono. Nella camera silenziosa, ora si sentono sicuri e prendono il posto dei sacchi di riso. Si accucciano, attendono tranquilli che spiova. Tanto, il loro “amico-padrone” è lì, sopra di loro, sognando ad occhi aperti. Nemmeno s’è accorto che fuori di quelle spesse mura fa tempesta...

florio santini

La cultura? Si fa nell’agorà

Conferenze, festival, best seller: ogni appuntamento culturale svoltosi negli ultimi mesi ha incontrato grande favore di pubblico, facendo riempire le piazze dove si dibatteva insieme a filosofi e letterati provenienti da ogni parte del mondo. E’ successo a Mantova, in occasione del Festival della letteratura, a Modena dove si sono sfiorate le cinquantamila presenze per uno scintillante festival della filosofia dedicato alla vita. Afflussi record anche a Rimini, dove si parlava di felicità al tradizionale meeting organizzato da Cl; a Bari invece Arnoldo Foà si è cimentato con la lettura delle poesie di García Lorca, a Milano Vittorio Sermonti ha fatto altrettanto con la Commedia di Dante.
Al centro di tutto, lei: la piazza. Sì, perché, accanto ad una crescente domanda di senso e di complessità che sta investendo la nostra società, la vecchia agorà sta cercando di riprendersi prepotentemente quel ruolo che le spetta; infatti, come già sottolineato dal sociologo barese Franco Cassano, «la filosofia sembra ritornare alle origini, all’agorà, lì dove essa nacque parallelamente alla democrazia».

C’è, oltre alla voglia di stare insieme fuori del salotto di casa e del cerchio luminoso dell’abat-jour, un “ritorno alle origini”, un rinnovato legame che, fin dalla civiltà greca, unisce la città alla cultura, facendo della piazza la sede privilegiata per dibattere questioni culturali e politiche d’interesse generale.
La civiltà greca, da Omero fino a Platone e Aristotele, ha visto il lento e progressivo processo di formazione dell’idea di polis, perennemente oscillante tra realtà e utopia, tra storia e mito.
Se vogliamo spiegarci meglio il crescente legame che oggi lega la cultura alla città (di cui la piazza si pone come il centro e il cuore pulsante) dobbiamo necessariamente tener presente che nella civiltà greca, più di ogni altra, esisteva uno stretto legame tra polis e cultura: l’una influenzava l’altra e viceversa, in diverse scansioni che hanno dato vita ad opere grandiose che non cessano di nutrire la cultura europea.

E’ interessante notare, tra l’altro, che la letteratura greca, accanto alla riflessione sulla città, propone anche quella sul modello contrario, sul mondo della natura considerato spesso come fuga o evasione, fino a sfiorare l’utopia, da una situazione oramai divenuta insostenibile e difficoltosa: fin dall’epos di Omero, infatti, viene postulata come necessaria la convivenza civile, ma sembra quasi che se ne avvertano le difficoltà e i problemi.
E dobbiamo constatare come i problemi legati alla pacifica e civile convivenza, così brillantemente approfonditi già all’ombra del Partenone alcuni secoli fa, oggi siano di drammatica attualità, in tempi in cui si vagheggiano laceranti conflitti di civiltà e ognuno di noi si trova alle prese col multiculturalismo, a convivere con culture e civiltà differenti dalle nostre.
Ecco quindi che le nostre piazze si riempiono per capire meglio e sperimentare – perché no? – nuove vie di dialogo e di tolleranza.
Presso i greci la riflessione sulla città è sempre stata preponderante: la polis, destinata a diventare il centro e il simbolo della civiltà ellenica, fu pensata come “un luogo della coscienza comune”, come un meson, uno schema spaziale omogeneo, realizzato, secondo J. P. Vernant (Mito e pensiero, pag. 142 e segg.), soprattutto dalla riforma di Clistene.
M. Detienne, parlando della società aristocratica e guerriera dei poemi omerici, afferma che i giochi funebri, la spartizione del bottino e le assemblee deliberative sono istituzioni che formano un piano di pensiero prepolitico e che proprio il meson, spazio centrale e simmetrico, è anticipazione della città e, più precisamente, dello spazio politico dell’agorà.
Se in Omero e, più in generale, in tutta la letteratura dell’età arcaica possiamo vedere la città come entità che ancora si sta formando nelle coscienze e nelle idee, nell’età classica il mito della città diviene, sia pure parzialmente, realtà sotto il governo di Pericle, eccezionale uomo politico, ma anche grande amante e intenditore di cultura.
Tuttavia, è opportuno sottolineare come il mito sopravanzi la realtà effettiva: la città come modello irripetibile, come utopia e come simbolo di democrazia e di libertà è anche creazione degli intellettuali, è un mito pensato ed espresso nella letteratura che, pur non realizzatosi mai completamente nella storia, si pone come stimolo e ideale al quale l’uomo politico può e deve ispirarsi nella sua azione.
La città è lo spazio nel quale si realizzano libertà, giustizia e uguaglianza, in un ordine garantito dalla legge che assicura il bene di tutta la collettività: è il mito della democrazia di Atene, paradigma, secondo lo storico Tucidide, per gli altri Greci. Fuori da questo spazio ci sono empietà, illegalità e prepotenza, mancanza di leggi e di libertà, ricerca dell’utile individuale: in altre parole, la ferinità o la barbarie o la tirannide, figure tutte della negazione della polis.

E’ indiscutibile quindi il reciproco condizionamento che lega polis e cultura: ogni evoluzione della prima è “controllata” dalla seconda, ed entrambe si danno vita reciprocamente in una grandiosa fioritura di pensiero.
All’inizio dell’età classica il mito della città è presente in Eschilo, che crede fortemente nella polis e s’impegna a creare consenso intorno ad essa; alla fine di questa età, ormai alle soglie dell’ellenismo, il mito è subìto da Isocrate, che evita la realtà della storia rifugiandosi nel passato, oppure è studiato da Aristotele, emotivamente ormai staccato dall’idea della città, uomo di un tempo nuovo nel quale la polis non è più un ideale da realizzare o da discutere, ma è diventata una specie di reperto archeologico da analizzare.
Tra i due estremi, che sono cronologici e ideologici insieme, tutti gli intellettuali affrontano e trattano il mito della città. Profondamente politico è il teatro, sia tragico, con Eschilo, Sofocle ed Euripide che, da posizioni ideologiche diverse, celebrano l’idea della polis quale essi la vedono, sia comico, con Aristofane, che sceglie il genere della commedia, legandolo certamente all’attualità politica, ma da questa prendendo le mosse per una fuga nell’utopia: la politica e la città sono interpretate con la fantasia che deforma il reale nell’assurdo e nel sogno. Aristofane non riesce ad accettare la decadenza della città, si accorge dell’impossibilità di realizzare nella storia lo splendido mito della polis e si rifugia nell’utopia, in un atteggiamento di fuga di fronte al divenire della storia.
Anche la filosofia e la storiografia (Erodoto e Tucidide su tutti) analizzano la struttura e le vicende della polis così come l’oratoria, che fornisce strumenti adeguati per il dibattito ideologico e politico.
Tutto quindi è in rapporto con la città. Ma il filo che legava insieme polis e cultura è destinato a spezzarsi: la fine della polis – di cui il testo anonimo della Costituzione degli Ateniesi dà ampia testimonianza, ponendosi in direzione decisamente contraria all’idea della città – segna anche un profondo cambiamento della cultura.
Dopo il tramonto della polis la letteratura muta, e di molto, i suoi caratteri e le sue finalità, così come di molto si modifica il ruolo degli intellettuali, destinati a diventare sempre più “professionisti” della cultura, e sempre meno “cittadini”, interpreti e creatori di idee politiche.
La disaffezione degli intellettuali verso la politica sarà una costante che, a cicli alterni, si ripeterà sempre nella storia.

antonio sanfrancesco

Arde la fòcara per il Santo

Erano le prime nebbie, insistenti e ricorrenti, che annunciavano l’incipienza dell’inverno. Il freddo iniziava a pungere la pelle, a raggiungere l’anima, e faceva desiderare un po’ di calduccio, anche un tepore temporaneo. Si affacciava l’idea del fuoco, cominciava a farsi largo tra i piccoli desideri. Il fuoco per i salentini di Novoli vuol dire soprattutto Sant’Antonio abate, significa fòcara e festa e 16 gennaio.
Da qualche giorno, in un tempo di trent’anni fa, nella piazza grande si iniziava a parlare del comitato festa per Sant’Antonio: da un bel po’ la torrida estate era alle spalle, era passata anche la vendemmia e in molti avevano addirittura assaggiato il vino nuovo, ancora troppo giovane. Di sera dopo aver scapulàtu, cioè dopo aver finito di lavorare, si trovavano alcuni dei più interessati, si incrociavano i loro passi nel largo davanti alla chiesa, sul marciapiede del bar dove lavorava Antonio.
Era un ragazzo allora e dal pomeriggio, dopo aver scritto e letto quanto necessario per non fare brutta figura all’indomani a scuola, faceva l’aiutante barista sino a quasi notte. Stava nel locale proprio all’angolo più vicino al santuario del patrono.
Una sera di metà novembre vi entrarono i componenti il nuovo comitato, avevano rinnovato le cariche, c’era già un presidente. Avevano anche assistito alla prima messa di ringraziamento, proprio lì vicino, in chiesa, con il parroco che avrebbe benedetto gli animali il vespro della festa. Entrarono in gruppo nel bar che aveva il nome del santo, contenti e chiesero da bere e brindarono alla riuscita dei giorni futuri e della festa.
Ci sono paesi e paesi, feste e feste, ma per i novolesi quella di Sant’Antonio abate è una malattia, antica come la sua devozione, che si perde nei secoli passati.
Il presidente del comitato aveva preso in fitto una piccola sede, giusto come punto d’appoggio per ritrovarsi con gli altri prima d’iniziare la raccolta delle offerte che si faceva bussando ad ogni uscio, in tutte le vie e nei vicoli più nascosti del paese. Avevano anche stabilito i turni per la raccolta festiva: di domenica due componenti del comitato si sarebbero preoccupati di chiedere un obolo ai passanti, nel passaggio stretto che c’è sotto il campanile della Matrice, sul lato di tramontana della piazza grande. Lo chiedevano con una certa umiltà, ma con altrettanta decisione, parando e scuotendo tra le mani lu cippu, la semplice cassetta di legno che presentava sul davanti il santino, un’antica stampa del protettore del fuoco tra gli animali da cortile.
Passarono i giorni e Antonio si accorse dell’imminenza della festa quando, un mattino proprio presto, sentì i colpi di mortaio che annunciavano l’inizio della novena e che fecero sobbalzare pure suo padre che aveva fatto la guerra. Antonio era terrorizzato al pensiero degli altri scoppi che avrebbe dovuto subire, specialmente di quelli che accendevano la sera del santo di fronte alla chiesa, quando spegnevano tutte le luci delle luminarie. La festa di Sant’Antonio giungeva per tutti, ma non per lui, per Antonio non era una bella ricorrenza. Poi la vigilia si cucinava di magro e a lui il pesce non scendeva proprio giù, non lo mangiava e sarebbe rimasto a digiuno.
Quell’anno era venuto a predicare un frate cappuccino con la barba grigia, il saio pesante di lana grezza e i piedi nudi nei sandali di cuoio risuolati. Era un rubicondo simpaticone e Antonio lo ricorda bene perché durante le nove sere non disdegnò di entrare nel bar per chiedere un bel punch caldo dopo aver gridato nella navata colma di fedeli.
Intanto la fòcara iniziava a farsi notare da lontano ben eretta, nella piazzetta dove si faceva allora, non molto lontano né dalla chiesa né dal luogo da dove Antonio la poteva addirittura vedere, seguire il suo svilupparsi in altezza e in potenza.
La raccolta della legna era iniziata qualche settimana prima e le fascine di vite appena potata erano sufficienti, e non c’era bisogno di comprarle, come si fa oggi, dai feudi dei paesi vicini. I tralci li offrivano i contadini, tutti legati e già sulla via d’accesso al podere, pronti per essere presi dai carrettieri che usavano donare ancora un loro viaggio gratis, a devozione del santo.
Arrivò gennaio e qualche giorno prima della vigilia della festa il bar improvvisamente si riempì di omaccioni dall’accento strano: Totò, il principale di Antonio, gli disse di aver riconosciuto che tra quelli c’erano baresi, foggiani, alcuni venivano dalla Basilicata e addirittura da Napoli. Erano arrivati per fissare il posto, erano giostrai, venditori ambulanti, bancarellai, e avevano passato la mattinata su al municipio con le guardie comunali che gli avevano fatto pagare l’occupazione del suolo pubblico. Con l’approssimarsi della data i preparativi nel bar si intensificarono. Era arrivata la festa e bisognava aver tutto per tutti, sempre. La sacralità del giorno per Antonio si trasformava in sacrificio, significava lavoro e poi ancora lavoro. Solo la processione, alla quale parteciparono quasi tutti, rappresentò una pausa; dopo, e per due giorni, non si capì più nulla. Febbricitante, ogni anno si ammalava, gli sbalzi di temperatura interna ed esterna al bar, l’umidità e poi le mani in acqua per tante ore occupate a lavare bicchieri e tazze da caffè.
Gente che entrava e usciva: chi voleva bere, chi aveva fame e voleva un panino imbottito con i mujatieddri, gli involtini di interiora d’agnello, chi giocava a carte pur di stare al caldo, chi chiedeva del bagno, e moltissimi che poggiavano in continuazione le mani ghiacciate sulla macchina da caffè per riceverne un po’ di calore. I venditori di piatti, di noccioline, i forestieri giunti in paese per vedere i fuochi d’artificio, la fòcara, i palloni aerostatici, la villa di luci, la bengalata, i pellegrini devoti del santo, tutti entravano e uscivano dal bar, ma soprattutto sentivano freddo, tanto freddo.
Anche quell’anno, alla fiera, era giunta un’intera famiglia: padre, madre e figlio, come sempre in bicicletta. Non vendevano nulla, solo il capofamiglia metteva, su una tavola di legno trovata poco prima per strada, un panno verdone sul quale faceva muovere due bicchieri capovolti che nascondevano un dado. Non avevano nulla e quella volta un venditore di ceramiche e sedie li volle riscattare e, con dignitosa carità, comprò e gli regalò una padella. Con quella, il giorno della festa, cucinarono e mangiarono un po’ di pasta e si scaldarono facendo il fuoco e riparandosi a ridosso di un muro vicino al falò.
Poi la notte più lunga, quella della festa: sembrò non avere tempo.
Non dormì nessuno, i curiosi che guardavano le lingue di fuoco della fòcara scendere nella galleria, nella sua stessa gola, spinte dal vento gelido, ma con loro c’era anche tanta gente che avrebbe passato la notte all’addiaccio, sotto i teloni delle baracche, su una coperta o su un telo di plastica per isolarsi dal pavimento ghiacciato della strada.
E i bambini, tanti bambini, figli degli ambulanti, si stringevano tra loro e con i genitori cercavano un po’ di caldo. Entrarono e uscirono anche loro dal bar per tutta la notte, per un bicchiere di anisetta, per bere caffè bollente ma anche cioccolato, e tanti erano proprio poveri: anche questo era la festa.
La notte la chiesa era chiusa, avrebbe aperto il suo portone in legno di secoli solo alle sei.
L’indomani giunse quasi inatteso, come la continuazione di un giorno lungo, senza ore e intenso. Era l’alba, il sole si fece largo nel cielo fresco e iniziarono a sentirsi i profumi delle mandorle tostate, dello zucchero filato, il vociare delle prime persone che giungevano nella piazza del santo, sul sagrato della chiesa, i rumori lontani delle giostre e delle loro carovane.
Nessuno si era ricordato che Antonio quel giorno avrebbe dovuto festeggiare il suo onomastico, nessuno ricordava più la notte appena trascorsa.
Era la mattina di una festa di trent’anni fa, come quella di tanti anni dopo, di quest’anno e di tutti gli anni che verranno.

dino levante

 

Poesia sottovetro

C’è del magico in questa mostra di Teresa Vella dal suggestivo titolo “Poesia Sottovetro”, fra le più ricche di fascino, fra tante che l’artista da tempo allestisce in Italia e all’estero. Ancora una volta, come nelle precedenti esposizioni, anche questa codifica e testimonia il fare artistico di Teresa, sempre in continuo e rigoroso evolversi. Evoluzione sempre più consolidata nel tempo e nelle diverse esperienze, che vanno dalla pittura, al design e alle installazioni.

Con “Poesia Sottovetro”, l’artista avvia un’audace operazione estetica, ricca di fascino, tendente a visualizzare il verso poetico incastonandolo nel vetro, materia da lei prediletta. Un tentativo ben riuscito di dare corposità quasi fisica al suono delle parole. I versi sottovetro già nella loro scelta indicano una sensibilità non comune da parte dell’artista e non perdono il fascino del loro suono: al contrario, esso diviene più coinvolgente, risultando in perfetta simbiosi con la materia che lo protegge.
Le opere in mostra scaturiscono dalla sintesi di un concetto creativo che tende a unificare diversi linguaggi, dal poetico al visivo, amalgamati con perizia alchemica. Diversi linguaggi che interagiscono fra loro, pur conservando ognuno le proprie peculiarità, a cui non potrebbero mai rinunciare. Ed è questa operazione che ci dà l’idea delle capacità mediatiche dell’artista, sempre attenta a percepire i misteriosi messaggi propri dei fenomeni artistici che, spesso, sfuggono all’osservatore. Pervenire a tali risultati è senz’altro traguardo ambizioso: Teresa vi riesce appieno in virtù di una sua particolare attitudine a dialogare con la materia, in questo caso, il vetro industriale fuso artigianalmente.
E’ questo suo dialogare che le consente di appropriarsi lentamente dei segreti che la materia gelosamente custodisce e che svela solo ad artisti muniti di particolare sensibilità, in grado, grazie alla loro mediazione creativa, di renderli fruibili agli altri.

nicola cesari

Viaggio intorno all’uomo

[Esp. - 19] La narrazione salva il mondo

Occorre aprire esperienza, aprire sprazzi di vissuto. Va salvaguardato il segreto professionale e al contempo garantita un’espressione di quanto giunge a maturare come dato reale nella relazione d’aiuto. Per reperire un affido ad un bambino in stato di necessità; per illustrare ad una maestra la condizione familiare di un bambino che attraversa una difficoltà; per dimostrare ad un amministratore pubblico la validità di una certa impresa o servizio, in riferimento ad un certo risultato ottenuto con un caso particolare. Sono queste alcune delle situazioni in cui, verosimilmente, si può rendere necessario rivelare alcune conoscenze di un caso che si sta trattando. E anche nello scrivere si rasenta talvolta la rivelazione di informazioni riservate; e occorre trovare il modo perché la descrizione rimanga attinente ai fatti, senza che si configuri in qualche modo la possibilità di risalire pur minimamente al soggetto direttamente interessato.
E’ vero che talvolta vi sono situazioni che è arduo poter descrivere con delle parole, siano esse esperienze liete o anche veri e propri drammi umani. Trattando argomenti di lavoro, inerente alla relazione d’aiuto e alla terapia psicologica, è più facile imbattersi comunque in esperienze di dolore, ma come riferimento assumiamo comunque l’esperienza umana nella sua globalità, con gli aspetti lieti e tristi, dolorosi e di gioia.
Non c’è aspetto dell’umana dimensione che si possa percepire come tale se non in ragione anche del suo complemento. Dolore e gioia, felicità e tristezza, odio e amore, limpidezza e oscuramento.
E’ importante, nel definire la dimensione di un problema, coglierlo nella complementarietà ad altri aspetti dell’esperienza del soggetto. Non si potrebbe comprendere un problema se non alla luce di quanto per la persona ha rappresentato, nella sua vita, quel problema.
Anche fra operatori di servizi diversi è frequente imbattersi in atteggiamenti di ritrosia a comunicare a dei colleghi problematiche relative ad un soggetto che si segua entrambi per motivi diversi.
Al consultorio perviene segnalazione dalla scuola per la condizione di un bambino disadattato socialmente: fa spesso assenze, non corrisponde impegno nello studio, si coalizza con altri bambini nel realizzare imprese non confacenti al vivere sociale, quali, ad esempio, dispetti di una certa gravità ad altri bambini fuori della scuola, danneggiare dei beni pubblici e altro. Il padre di questo bambino è a sua volta seguito dal SerT per problemi di tossicodipendenza. Ebbene, sarà molto improbabile un contatto fra il consultorio e il SerT per analizzare le due situazioni, che in pratica rappresentano due aspetti di un unico caso. Gli operatori del SerT, infatti, affermano di aver ricevuto disposizioni rigidissime sul non interloquire con alcuno dei casi clinici di loro competenza. Che poi è lo stesso segreto professionale a cui tutti, come operatori sanitari, siamo tenuti. Attivarsi in maniera critica rispetto ad un problema familiare e sociale estremamente complesso richiede di poter disporre di una rete di contatti fra tutte le figure professionali e le strutture d’aiuto che interagiscono con quella situazione: dal servizio sociale comunale, al consultorio, al SerT, la scuola, il volontariato sociale, ecc. Ma ciò richiede come indispensabile un superamento del concetto rigoroso di segreto professionale. Se ogni servizio o figura ritenesse inconciliabile il comunicare ad altri, compresi coloro che in altri servizi interagiscono con quel problema, allora viene meno ogni possibile discorso di sostenere in maniera adeguata quel carico problematico, e ogni possibilità di imprimergli eventualmente un’impronta pur minimamente risolutiva.

Rispettare il segreto professionale significa anzitutto interagire in maniera onesta col problema col quale s’interagisce. Ad iniziare da come lo si vive con se stessi. Ho visto talvolta qualche operatore, durante incontri d’équipe, che nel parlare di un problema, nell’evidenziare qualche tratto particolarmente grave sotteso alla situazione narrata, facilmente sorridono.


Ci sarebbe in realtà da piangere per quell’evento grave, ma quel sorriso interviene come meccanismo difensivo, per evitare un coinvolgimento che potrebbe risultare eccessivamente foriero d’ansia. Il sorriso, nel frangente, può apparire una modalità per sentirsi superiore alla situazione problematica di cui ci si sta interessando. Guai, forse, se non ci si sentisse superiori; immedesimarsi in quella situazione potrebbe rappresentare un annientamento di sé. Ma alla fine questa difesa che si erge per non farsi invadere dall’angoscia potrebbe diventare l’ostacolo per una sana e proficua interazione col problema. Inizia da qui il rispetto del segreto professionale: non sorridere di un certo problema altrui, parlarne in maniera consapevole, all’interno di una revisione d’équipe.
E poi occorre trovare il modo per iniziare ad aprire degli spiragli allorquando si affronta fra servizi diversi la stessa situazione, per uno o più problemi che essa presenta. Occorre sfatare la convinzione che rispetto del segreto professionale significhi semplicemente non parlare con nessuno di quanto ci si trova ad affrontare in quella data situazione. Evidentemente, tale rispetto implica immediatamente il non parlare di argomenti riservati in ambiti indebiti. Rispettare il segreto professionale significa anche non utilizzare argomenti riservati per le relazioni di carattere personale; non farli cioè diventare usualmente argomenti di conversazione con dei familiari. Aprire anche qui degli sprazzi esperenziali può risultare utile ad un ampliamento del confronto su quanto giunge ad interessarci come dimensione umana nell’attività professionale.


[Esp. - 21] Realtà di immigrati

Fra gli sconvolgimenti attuali che interessano la società e la famiglia, uno va assumendo un’importanza alquanto rilevante. E’ quello attinente alla situazione delle famiglie immigrate.
Abbiamo invitato un bambino di dieci anni, e con lui i suoi genitori, provenienti dal Marocco. Problemi: varie segnalazioni di atti di microcriminalità compiuti dal piccolo e la sua inadempienza scolastica.
Al colloquio vengono la madre e il figlio. Il padre sta in Marocco; viene in Italia in primavera e ci resta anche in estate. L’autunno e l’inverno se ne torna al suo paese natale. Lì ha un’altra moglie e un’altra famiglia. Non c’è da fare affidamento su un suo coinvolgimento per il problema del figlio. La madre accenna a questa situazione molto di sfuggita.
Parlo del motivo per cui li abbiamo convocati (c’è con me anche l’Assistente sociale, che si era recata in casa per invitare la famiglia al colloquio). Madre e figlio sembrano cadere dalle nuvole su quanto vengo loro ad esporre. In realtà emerge il problema della lingua: a momenti sembrano non capire, ma non è chiaro se sia un problema di tipo linguistico, ovvero relativo alla comprensione di talune parole; oppure se è, come a momenti sembra, un non capire come noi possiamo affermare quelle cose relative ai comportamenti del bambino, e che in effetti non capiscono perché per loro non sono attinenti al vero.
Nel cercare di far presenti le segnalazioni che lo riguardano – provenienti sopratutto dai vigili urbani che le hanno raccolte da alcuni cittadini, e che loro hanno anche verificato –, il piccolo s’alza e se ne va. Lo chiamo, e vado fuori per raggiungerlo, ma è svanito.
Non sembra poter nascere alcun discorso. La madre continua a negare ogni responsabilità del figlio. Lei è costretta ad alzarsi prestissimo al mattino per andare nei campi; lascia da soli i suoi quattro figli per tutto il giorno.
Il colloquio non ha molte prospettive; e nel volgere di qualche raccomandazione generica che rivolgiamo alla madre, a prendersi maggiormente cura dei suoi figli, si conclude.
Alcune riflessioni di fondo: nel nostro lavoro possiamo aiutare solo chi desidera essere aiutato. Ci si può imbattere talvolta in problematiche che hanno come rilevanti aspetti di carattere diverso da quello che siamo adusi praticare professionalmente, ovvero, in questo caso, nel prendersi cura di una famiglia ci s’imbatte in problemi di ordine diverso da quelli strettamente psicologici o relazionali, quale ad esempio il problema della microcriminalità: come connettere insieme gli aspetti che i vari ordini di problemi implicano?
Sono questi i casi che il più delle volte rimangono senza soluzione, abbandonati a se stessi, o per i quali si interviene con l’inserimento del bambino presso una casa famiglia. C’è un crescendo di case famiglia per l’infanzia che sorgono da noi. Di fronte all’emergenza infanzia sono una soluzione, ma lo possono essere anche sul lungo periodo?

[Esp. - 25] Squiggle

Lo squiggle – scarabocchio – Winnicott lo utilizza per lo studio della psicologia infantile e al contempo come prezioso veicolo per favorire l’interazione nel colloquio terapeutico. La sua caratteristica attiene essenzialmente alla possibilità che il terapeuta partecipi a pieno titolo alla creazione del disegno, insieme all’utente, con propri tratti grafici. La creatività sottesa a tale metodo è veramente notevole. In un suo lavoro, Winnicott descrive: «Nel mio disegno tracciai la forma di un bambino sul pavimento domandandomi come Bob avrebbe affrontato l’angoscia arcaica associata al cadere per sempre». Egli cioè porge il suo messaggio attraverso una forma grafica e offre all’utente la possibilità di esternare commenti e fantasie su quanto osserva, e ancora, di rispondere a quanto osservato mediante delle figure che aggiunge nello stesso disegno o facendone un altro.
Winnicott valorizza quindi l’opportunità dell’interpretazione psicoanalitica delle componenti dei disegni degli utenti, comunicandola nel dialogo, all’occorrenza, o trasformandole in quesiti che molto spesso diventano a loro volta altri spunti grafici a cui l’utente è chiamato nuovamente a dire la sua con le parole o il disegno. Ecco il dialogo che cresce, da qui la conoscenza e l’opportunità dell’intervento adeguato per sostenere il soggetto per il problema apportato.
Cogliamo, mediante ciò che affiora alla superficie di un dialogo, i segni di quanto è nascosto all’interno della personalità di un soggetto. Occorre perciò vivificarlo quel dialogo mediante spunti discorsivi a cui può corrispondere un’opportuna risposta. La creatività e la fantasia rappresentano elementi di notevole trasporto emotivo. Esse vanno adeguatamente coniugate col dato reale, i racconti di eventi e ricordi, l’osservazione dei fatti, ove reale diventa persino il racconto di un sogno.
Ove può nascere il trasporto creativo nella relazione terapeutica? Allorquando sullo spunto di un racconto onirico o di una creazione fantastica, quale il disegno, si susciti un ampliamento di quel dato attuale con l’apporto di nuovi elementi fantastici.

In un sogno, un uomo è caduto in una botola. Il ricordo, di per sé, non contemplerebbe altro. Nel dialogo terapeutico questo può invece continuare ancora: “Cosa può succedere ora? Tu cosa vorresti far succedere?”. Ci potrebbe essere la salvezza: una porticina o un lume; o, dopo quel primo, esserci altri precipizi ancora, si potrebbero realizzare degli incontri o restare in solitudine.
Ad incastro va colta l’emozione che scaturisce dall’esperienza apportata: “Come stai mentre racconti questa esperienza?”. “Cosa provoca in te questo sogno, o fantasia?”. In Ggestalt-terapia tale raccordo va costantemente operato sia sulle esperienze tratte dal reale che su quelle oniriche e fantastiche. In tal modo si rende operante il cambiamento, mediante la consapevolezza di quanto avviene al ricordo-racconto-creazione di un evento.
Altrettanto produttivo, come la narrazione, può risultare l’agire creativo mediante il disegno. Da considerare che questo, soprattutto con i bambini, risulta uno dei metodi più efficaci per favorire il dialogo. Ciò perché il bambino tende costantemente a collocare ogni dato reale sul parapetto fantastico, facendolo per lo più andar oltre con macchine volanti di vario genere.
“Qui hai trovato le tue grandi paure, i tuoi terribili sogni, la tua disperazione, il tuo suicidio e l’idea che se il diavolo venisse quando sei sveglio, tu saresti indifeso”. Disse: Vado a vedere, papà? Gli risposi: “Sì, ma non rimanere a lungo”. Disse: “Sì, per favore”.

luciano provenzano

 

   
   
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