Settembre 2004

come fiore d’hibiscus

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Oreste Macrì
editor di Stefano Coppola
Antonio Mangione  
 
 

 

 

 

Nell’ultima
poesia pubblicata
è racchiuso il senso di una vita divisa fra autodafé e implorazione che gli sia insegnata l’edenica perduta “grazia dei fiori
e dell’acqua”.

 

Stefano Coppola (Roma 1951-Lucca 1982), prima di Poesie scelte, edizione e studio introduttivo di Oreste Macrì, Piero Manni Editore, Lecce 1992, pp. 126, è stato un poeta inedito e ignoto. Figlio di padre salentino (Waldemaro, primario chirurgo), di Lucugnano presso Tricase di Lecce, e di madre perugina (Anna Maria Baioletti). Infanzia nei luoghi paterni, poi emigrato con la famiglia a Pisa, a Roma, a Lucca.
Determinante per la sua poesia l’anagrafe originaria: «La terra salentina, in parte di sangue e interamente d’elezione, costituisce il fondamento iconico-familiare, naturale-paesistico, di costume e artistico architettonico e pittorico, d’ogni sua immaginazione, sì da inserire subito la poesia di Coppola nella costellazione dei nostri maggiori poeti conterranei: Comi, Pierri, Bodini, Pagano, D’Andrea e Salvatore Toma in lingua; Gatti, Caputo e De Donno in vernacolo; da restringere a Bodini, Pagano e Toma nell’aspetto maudit del processo creativo-scrittorio; nel quale l’esasperato, barocco ed espressionista elemento esistenziale (distruttivo e salvifico), quanto più è liberato, tanto più tempera al confine di rottura l’elemento propriamente estetico-formale».
Solitaria e irrelata la sua esperienza di poeta, specchio di un isolamento interiore drammatico e di una dissociazione coscienziale irrisolta. A trent’anni, al culmine di un’esistenza non più sopportata, si suicida.
Del bellissimo e talvolta, non insolitamente, arduo Studio introduttivo di Macrì – nel quale un pensiero analogico e prelinguistico tenta di esaurire i messaggi formali della poesia, cogliendone al tempo stesso gli archetipi generazionali – rileverò i momenti nodali con opportune citazioni e riduzioni sintetiche.
Una singolarità metodologica della struttura complessiva di questo Studio sta nell’inconsueta elaborazione dell’informazione biobibliografica e filologico-editoriale all’interno del discorso critico-esegetico.
Si tratta di procedimento dettato dal carattere lirico-autobiografico delle 355 carte, comprensive di 232 componimenti poetici, lasciate dal poeta. Tale carattere è presente sia nei testi di più evidente configurazione versificatoria sia in quelli più propriamente extrapoetici, diaristici ed epistolari.
Gli apparati informativi e descrittivi dei testi assimilati al discorso critico-esegetico sono ripartiti in tre capitoli, di cui un primo, biografico; e altri due, filologico-editoriali.

Nel primo, Notizia biografica. La libreria, successivo alla premessa progettuale, qui accennata all’inizio, in relazione alle testimonianze dell’autore sulle sue origini salentine, Macrì riprende la sua ben nota ed efficace formula della “dimora vitale” come radice primaria di poesia, sottolineando i valori di “paese” e di “casa” «sepolcrizzati per troppo amore, come a giacere con essi in eterno, quasi la culla-bara di Quevedo: “desiderata culla [...] gli incubi di mio padre / mia madre / morti [...]” (B2, 3). Motivo, questo, del Pascoli rurale-funerario e del cegliese Gatti, che si proietta specialmente nella nonna paterna quasi fidanzata, Maria Teresa Baglivo, pure essa soprattutti lucugnanese».
La contestazione studentesca del 1968-69 risulta interiorizzata come radicale rivolta trans-ideologica, «ben oltre la sfera capitalistica-industriale, teologico-dogmatica, etica e di costume delle mostruose metropoli», e stranamente coincidente con la rivolta contro la stessa natura umana segnata dal peccato originale (“urlava [...] / il Dio della mia infanzia crocifisso”, 26); da cui «il rientro nel rifugio larico come sconfitta e rimorso, disponendosi il poeta alla soluzione sacrificale autopunitiva della propria vita».
Gli appoggi ad autori italiani e stranieri (la “libreria”) – da Verga e Pirandello... a Ungaretti, Montale, Comi...; da Stendhal e Baudelaire... a Céline, Cocteau (I ragazzi terribili), Éluard, Artaud, Camus, Robbe-Grillet, Deleuze...; da Shakespeare e De Quincey (Confessioni di un oppiomane)... a Virginia Woolf, Joyce, Dos Passos...; da Goethe, Hoffmann, Schopenhauer, Nietzsche... a Thomas Mann, Kafka, Newmann (Il diavolo); da Tolstoj, Dostoevskij... a Solgenitsin, Majakovskij, Pasternak; da García Lorca e Borges a Neruda e García Márquez... – sono assunti dal Coppola al “vissuto personale”, per darsi non certo soluzioni, ma un qualche ordine.
Gli ultimi 25 giorni prima del suicidio, trascorsi in solitudine totale nella casa materna lucchese, sono il punto di saturazione di anni di lotta e di abbandono, fra epatite virale, piccolo alcolismo, droghe leggere, fumo, notti bianche e terrori, frequente microzoopsia – “gl’incubi armati / sopra di me” (42), costanti e ossessivi; ricorrente anche l’“urlo”, munchiano simbolo espressionistico di rivolta della vittima (3, 13, 15, 26); in 20, 21, 27 l’orrore del proprio corpo cadavere in decomposizione, rinviante al barocco cupio dissolvi; letterarietà incorporata anche per il motivo dei “vermi” in quel decomporsi implacato (Baudelaire, da Poe e da Hugo; gli scapigliati Boito e Tarchetti); collegabile il tutto col tema della “creazione” fonte di peccato e di male –.
Nonostante questa devastazione psicofisica, e subordinazione ad un altro da sé, «o sosia infernale-notturno», con implicazioni simbolico-parodistiche di rivolta e di riscatto dal «Male» e dalla «Città», si afferma il tentativo di recupero della «propria creatura naturale nel suo “cavaliere per il Salento”, nell’“angelo”, nel “principe divino”, nella imago del fanciullo rigenerato dalla madre eterna, fingendo di cedere, sconfitto, la propria spoglia mortale»; che è tentativo autoliberatorio, essenziale per una stessa possibilità di poesia.

Stesso circuito critico-esegetico complessivo nei due capitoli filologico-editoriali.
Nella Nota filologica la situazione oggettiva e materiale delle carte dell’autore è ricondotta a motivazioni interne, di natura letteraria, funzionali al loro allestimento editoriale. In esse non c’è traccia alcuna di intenzione redazionale, e le poche date che vi compaiono si riferiscono a singoli componimenti. Queste date, e nient’altro, hanno consentito all’editor una ripartizione delle carte in tre blocchi, e ciascuno di questi in tre sottogruppi, collocabili entro un periodo di dodici anni, dal 1968 al 1981, e con produzione più ricca a partire dal 1975. In definitiva, emerge la rappresentazione di un «canzoniere ininterrotto come di un surreale eluardiano, al punto che l’unica edizione fededegna dovrebbe costituirsi concretamente in facsimile e completa dell’intero testo».
Nei Modi della scrittura. Criterio di edizione si conclude il precedente discorso sull’interconnessione fra critica letteraria – qui riferita all’interpretazione dei modi della scrittura – e finalità editoriali.
In premessa è definito il significato “neutro” del termine componimenti, «in quanto conativamente si eguagliano tutti nel comune afflato espressivo-riflessivo», e tutti si trasformano in spettacolo, come in un retablo, o in un teatro d’anima, secondo vocazione musicale-teatrale evidenziata in sede biografica (studi e pratica di regia cinematografica, specialmente).
Questo «comune afflato» esclude la versificazione metrica, traducendosi in versificazione ritmico-epigrafica, con segmentazione libera attraverso gli accapo, presente in ogni tipo di scrittura continua, anche nelle lettere.
Si precisa così il carattere di «canzoniere ininterrotto», assimilato alla «Poésie ininterrompue» francese e inglese, «d’innovazione e fusione espressionista e surrealista sul tronco tradizionale naturalista e simbolista fino alla Beat Generation [...]».

38 (119)

vedi come s’è fatto pallido
vedi pure che non è più lui
dispera

solitario cavaliere a cavallo
sopraggiungeva ridendo
nel labirinto delle mie intenzioni

se ne andava e appariva
in una trama di segni sconclusionata

in un uliveto di terra rossa
nell’aria tremante di caldo
pazientemente ricercava
i frammenti del mio futuro
disperso nei secoli della polvere
e dei mucchi d’ossa

s’è fermato alle cisterne assolate
cercando nello sfacelo delle pietre
i segni corrosi del passato

fra colonne di tufo solitarie
e muri di confine
s’è fermato nell’aria vuota
di fichi polverosi
di dimenticati filari di eucalipti
di aranceti inselvatichiti

afferrato da un’unghiata dolce
di malinconia
s’addentrava nelle dimore che erano
state di calce
s’era perso a volte negli angoli d’ombra
nel ronzio opaco di mosche
che nuvolavano dalle pareti

seguendo i muri che rovinavano
i muri assolati di lucertole
è giunto a dimore naufragate
nel caldo delle cicale
del caldo sopore di roseti selvatici
di scale interrotte

ha lasciato il cavallo pieno di polvere
nelle grandi stalle come chiese
o abbandonato dietro un muro
e dolcemente è penetrato
nelle stanze fresche scure

nelle stanze bianche dove svolavano
le gazze
dolcemente ha atteso un segno d’assenso

a volte s’è perduto nei giardini
ascoltando l’acqua delle fontane inaridite
sotto le pergole devastate

di notte nei giardini
appariva bianco

contro i muri bianchi di luna
nell’ombra dei limoni
sembrava smarrirsi lui stesso
per quel suo aspetto di fantasma
animava la notte recitando
sospeso al fragile filo della mia esistenza
sordo all’evidenza che mi diceva
indegno ignaro qual ero di tutta quella
rovina

le finestre incorniciate di rovi
erano aperte ai respiri della notte
guardinghi i gechi salgono sui muri
si fermano ad aspettare
i balconi si parlano sottovoce
angiolini barocchi
si rallegrano tutti
fiori rossi si inanellano fra quei riccioli

lo spazzino sordo sgrana il suo rosario
di pensieri alle stelle
nella piazza custodita da due file di
oleandri

agli occhi vuoti delle finestre
sono saliti rami di fico

s’è seduto su una cornice di pietra
ai margini di uno sterpeto di grilli
curvando il capo
e sotto quell’altalena di terrazze
ha chiuso gli occhi

l’alba lo trovava addormentato
sotto un’ala di fresco

nel panico della luce incerta
la notte abbandonava sudari
lasciando un’aria profonda
d’aliti caldi e di sangue

 

Si tratta di modi della scrittura speculari a componimenti-variazioni su temi della natura, del tempo, dell’amore, della morte..., sempre mancanti di titoli, con rare maiuscole, e rare varianti e rari versi soppressi, con un continuo scrittorio ora mutante in versi ora al contrario, con spazi interstrofici e capoversi di chiara «intenzione concreta-musicale».
Di qui la difficoltà editoriale di separarli e numerarli, e l’opinabilità, per quanto ridotta al minimo, dell’autonomia delle 53 poesie scelte, indicate con numero d’ordine, seguìto tra parentesi dal corrispondente numero d’ordine assegnato alle carte dell’autore (come nei Frammenti lirici di Rebora).
Ermeneuticamente importanti le poche date, annotate a volte con l’ora accanto al giorno. Macrì vi coglie quel «complesso esistenziale» (l’hic et nunc) ch’egli presupponeva nel sentimento poetico contemporaneo per i suoi Esemplari del 1941 (anche Contini su “Primato” poneva la filosofia esistenzialista a sostrato dell’ermetismo). Sicché nella poesia di Stefano Coppola «riscontriamo la caduta dell’essere nell’esistente e la dolorosa risalita all’essere nell’infinito circolo nicciano-heideggeriano».

L’ultimo, e più ampio, capitolo, Temi. Il seme e la verità. “Pietas” e rivolta. La “puella-mater”, sviluppa e approfondisce l’impostazione critico-esegetica dei primi tre, in accordo profondo del critico con l’oggetto del proprio studio, quindi in più sperimentata e radicale conoscenza del testo. E’ di nuovo in gioco la già prefigurata “dimora vitale”: paesaggio salentino e correlative transunzioni naturalistiche e umane.
A questo paesaggio si naturalizza, infatti, con reciprocità di valori, la famiglia del poeta: la madre umbra, mediata dalla figura della nonna paterna, di «ceppo ancestrale-tellurico e di costume cristiano-pagano», cui si unisce la domestica, «donna-capra come la lupamannara Gurù di Landolfi, la brutta e innocente Maria, che era la “servante, au grand coeur” di Stefano».

Radice e nutrimento di poesia la «terra d’infanzia; consustanziale il mare [...] immote per sempre le immagini lariche»: un Salento spettrale rivisitato, «come in un ritorno in vita senza tempo», dal fantasma del “solitario cavaliere a cavallo” o terza persona del poeta. In questa rivisitazione il «vissuto si riscatta dal suo tempo, si oggettiva, si separa dall’io, diventa inattingibile, inconoscibile; l’io stesso è “uno sconosciuto” [“tu mi guardi / fanciullo / piccolo bimbo / con occhi stupiti / pieni di pena / e non mi riconosci”, 8]; il passato d’infanzia è riposto “in casse profonde” coi suoi “mantelli [...] i veli e il sipario [...] le maschere e gli scenari”». Dice il poeta: “Ad ogni slancio una superficie indefinibile / racchiude una sostanza intatta / le parole si allontanano [...] come se [...] ogni cosa si rifiuti / chiudendosi dietro vetri trasparenti e istoriati” (B2, l).
Si continua in queste evocazioni salentine la lezione dei poeti della terza generazione, intesi al recupero delle dimore vitali (in essi Macrì riconosce un suo Novecento neoromanticamente rigenerato, sublime su ogni moda manieristico-puristica e sperimentale-neoavanguardistica): Etruria di Caproni, Luino di Sereni, Siena di Luzi, Ciociaria di De Libero, Parma di Bertolucci, Pistoia di Bigongiari, Salerno di Gatto, Montemurro di Sinisgalli, Langhe di Pavese, Lecce di Bodini e Pagano...; si continua, particolarmente, la «stasi sepolcrale di Bodini (case di calce, case addormentate, grotte pitagoriche, morta in Puglia, la vita colore della morte, “anime” parlate e disegnate, e verbi sepolti)», la quale «preserva le vite amate dell’uomo e della natura, maestro Alfonso Gatto nel simbolo del titolo Morto ai paesi».
Straordinarie verifiche mi pare si possano trovare nei seguenti componimenti poematici:

30 (Gli Hibiscus rosa), eluardiana litania enumerativa delle creature e delle cose di un Salento fuori del tempo, in visionario eccesso d’amore;

32 (Nell’oasi dove mia madre mi nutrì nella luce dorata), auto-analisi, poetica e poesia, di un “desiderio che non mi avrebbe abbandonato”: condizione negativa e destino, che gli s’imprime “come un marchio” e lo costringe a cercarne il senso per tutta la vita, desiderio di “quando non si desidera più”, neovaleryano “vento che sale”, “memoria antichissima che sale”;

38 (Vedi come s’è fatto pallido), vasta infravisione di un Salento remoto, generativo dei “frammenti del mio futuro”, il quale non ha riscontri più alti in altri poeti salentini, e nella stessa contemporanea poesia della Heimat (forse si può meglio rammentare un pittore di eccezionale inconscia potenza evocativa come Chagall, soprattutto per quella sua levitata iconografia del paese d’origine, assai vicina alle figurazioni di “danza”, “gioco”, “volo”, ricorrenti nel visionarismo salentino del Coppola);

50 (Guardare mia madre), scherzo neocrepuscolare di rara felicità autoliberatoria su di un passato desiderato e vissuto per assurdo (“pensare alla Puglia / ai begli uliveti / alle distese di luna / al barone morto / ai baroni sopravvissuti // andare da mia nonna a dirle che è / giovane ed io non sono suo nipote / a dirle che la cavallina bianca è / morta / andare in camera mia a piangere tutti / i morti che ci saranno // [...]’’).

Sradicato dalla terra salentina, emigrante in esilio, il poeta s’appella «alla madre naturale-civile che lo rigeneri, identificata con la Mater salentina, coi simboli del vestiario usato, animalini, fiori, bambini, un eterno dorato nella memoria incalzata dal desiderio del ritorno».
Si è al limite regressivo pascoliano-crepuscolare, precario e fragilissimo di fronte all’insorgere di una rimbaudiana coscienza negativa (“Una rigida lama m’ha spaccato in due – il mio lucifero e il mio angelo che non potranno più riunirsi –”, 53; e si veda la lettera di Rimbaud a P. Demeny del 15 maggio 1871: «Car JE est un autre»).
L’ossessione coscienziale, radicalistico-nichilistica, attraversa l’intero canzoniere, ne costituisce la tragica modernità, tra sentimento di colpa per un involontario peccato originale e sentimento di violenza e di caos della società e della storia (altra cosa il «terrorismo neoavanguardistico gregario e trasformistico, con le dovute eccezioni e palinodie»). Macrì, per questa coscienza che dirompe e frantuma spesso la forma musicale-coreografica del poema, richiama inoltre archetipi della crisi vociana: Rebora, Jahier, Serra, Michelstaedter, Boine, con il loro appello alla vita, contro e oltre limiti e convenzioni della letteratura.

Ma decisiva è pure la difficile risalita alla verità dallo «sfacelo di tutte le certezze» (“piano inclinato / curvatura profonda imbuto dove si raccoglie il cielo / giù – dove divengo pietra e ho paura / dove risalire è un attimo e un tempo interminabile [...]”, 43), agli impossibili positivi della “felicità” e della “bellezza”, o «positivi con paradosso ontologico garantiti dalla stessa impossibilità di realizzarli». Anche la nozione di Dio passa al vaglio della coscienza, che abolisce ogni teologia del Dio rivelato, per una fede da reinventare attraverso la non-fede.
S’insiste su questa centralità del “seme” dell’“anima”, o “seme d’una bellezza” e di “inattese visioni”, «dal di dentro della catastrofe, dell’“uragano” dei sensi e dei sentimenti perduti»; ne è frutto «l’archetipo del fanciullo regale liberato e liberatore da tutti i negativi infernali, sociali, familiari», simile al «divino fanciullo di Sandro Penna, che a sua volta risale all’onofriano nell’“infanzia eterna del suo Regno”».
Essenziale questo «afflato cosmico-seminale», distruttivo e insieme teso alla rigenerazione, per capire il metaforismo della parola di Coppola: il materico-semantico naturale e umano e relativa reciprocità animistica, arieggianti «il facile canto surreale e umor nero del movimento punk (“scuote l’ira del vento / coll’urto schiumante dell’acqua / e il fragore tetro lo scoglio / nero grido di pianto / e di rabbia bagnato dallo / scroscio di rabbia / e di pianto del cielo [...]”)»; ed essenziale per capire il già osservato «sviluppo poematico ametrico e aritmico, quindi fonosimbolico-allitterativo per investimento musicale della materia verbale consenziente con la corporea-animica», soprattutto se si considera che «l’intento è un incantamento o nenia alla imago della mater-puella» (“Tagliate le mie vene / e del sangue / fatene fiori / per la mia bambina [...] rubate [...] tutti i colori / dei miei occhi / e fatene fiori [...] che sorrida / con le mie ossa / fatene coralli [...] fate delle mie dita / farfalle [...] del mio tempo fate / ignari pesciolini azzurri / e se un’anima di me trovate / fatene per lei / vi prego un aquilone”, A2, 59).

Certi esiti di «delirio materico-animistico», specifici della «frantumazione cosmica del secondo Novecento», sono sincronizzati con il «surreale-informale di Bigongiari e Zanzotto», in comunanza di «mistero ontologico» permanente «dietro l’apparente sperimentalismo delle neoavanguardie», non escluso il «Bodini di Metamor nel proprio àmbito dell’ermetismo meridionale» [dita [...] ossa (A2, 77), occhi [...] bocca (A2, 87), cellule morte [...] gusci di lumache / morte (A2, 98), vorrei [...] possedere [...] grandi mani / su cui scorra la terra (A2, 82), essere tutto occhi (A2, 86), lago / discreto di lacrime (A2, 89), un mare di vermi / di mani e d’unghie / spezzate (A2, 90), a scaglie della mia pelle [...] nudo [...] il mio corpo è un simulacro fragile svuotato (A2, 99), la mia anima di stoffa [...] sottovetro / difesa dai tarli [...] s’ingiallì la seta / e l’anima s’accartocciò / come una foglia (A2, 113)].
In quest’ultimo paragrafo si procede per riprese continue della struttura dualistica interna, immanente e assiologica, del canzoniere (negativo esistenziale e storico e positivo della rinascita impossibile). Ne citerò, in parte riassumendole e reinterpretandole, le ultime variazioni.

«Esplicitamente alla fine del poema informale, ma lungo la sua traiettoria di sfaldamento e catastrofe in relitti, l’antica spossata madre terra, incarnazione naturale dell’archetipo materno, dalla sua rugosa crisalide rinasce corporalmente nella “bambina” sempre emergente in tutto il canzoniere coppoliano dalla morte e dal nulla: “il tuo corpo leggiero in un vestito di fiori [...] nell’acquamarina della notte / e le piume gialle morbide silenziose / le delicate piume rosa della tua pelle”» (è il tratto della «pietas larica-filiale» che, rispetto alla poesia europea maudite ed esistenziale, fa la differenza di quella italiana, e in particolare di quella meridionale di Bodini e Pagano, Pierri e Cattafi).
Nell’ultima poesia pubblicata (C1b2, 7) è racchiuso il senso di una vita divisa, come una “bilancia metafisica”, fra ricorrente autodafé (“sangue d’un peccato che non ho commesso”) – che direi di razionalistica spietatezza autoanalitica, ma, pur a questo suo modo, rinviante ad un remoto condizionamento antropologico-culturale di salentina matrice cattolico-barocca – e implorazione che gli sia insegnata l’edenica perduta “grazia dei fiori e dell’acqua”, fra “il mio lucifero e il mio angelo che non potranno più riunirsi”.
Condizione, questa, di radicale contraddizione, la quale, benché comporti la condanna della “creazione” e il “rifiuto della storia”, paradossalmente «cerca di salvare “le creature del Signore” nella loro singolarità, ognuna per sé, puri enti» (affrancate dall’impostura del biblico-cristiano Signore della creazione), con un ritorno di «mistero ontologico» (che connoterei in assoluto senso naturalistico), di «aspirazione alla “grazia essenziale della cosa in sé”», e di «rendimento di “grazie per questa bilancia”», della quale il poeta – non senza metafisica ironia – dubita di esser degno.
Il libro si chiude con questa poesia a versetti, d’informale esemplarità, testamentariamente rappresentativa di una moderna coscienza dissociata, tanto più irrisolta quanto più esigente e alimentata di primarie verità impossibili; e lascia intravedere una nuova frontiera di poesia, un attingimento della parola “creatura” e della parola “cosa” oltre ogni contaminazione conoscitiva, storicamente attivo rivelandosi ancora il mito otto-novecentesco dell’eterno ritorno.

 

   
   
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