Settembre 2004

La biblioteca di Casole

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Racconti
di pietra e di vento
Antonio Errico  
 
 

 

 

Accade che un racconto diventi
lo specchio del tempo di una terra: del tempo com’è stato,
com’è diventato, come diventerà,
forse, un giorno.

 

Scolpita nella pietra del campanile dello Zimbalo, a Lecce, c’è una frase che dice: se non sei pietra accetta ciò che io, pietra, ti dico.
Anche le pietre, allora, possono avere voci, parole. Anche i tronchi contorti degli ulivi e i tramonti, anche il morso misterioso della tarantola e le ombre dei morti che tornano ai piedi di un faro, lì, a finibusterrae.
Può avere voce ogni cosa che appartiene alla terra: che sia terra madre, oppure soltanto tragico approdo, transito incerto, precaria dimora.
Ma le voci della terra sono come le voci di un uomo: hanno la consistenza lieve di un fiato, di un vapore. Si spengono, si sperdono se qualcuno non le stringe nelle sillabe di un verso, non le raggruma nelle macchie di un colore, non le annoda nell’armonia festosa o lamentosa di un canto, se un’emozione, un’intelligenza, una conoscenza non trasmutano la natura in cultura.
Sono voci segrete che si nascondono come le lucertole nei muri di campagna, nei millenni custoditi nelle grotte di Badisco, nelle leggende che vivono dentro le torri di scolta a strapiombo sul mare, nel crepitìo delle candele nella penombra delle chiese, nelle cariatidi, fra le distese assolate di grano appena falciato.
Le poesie di Vittorio Bodini, Girolamo Comi, Vittorio Pagano, Antonio Verri, Salvatore Toma, Nicola De Donno, Vittore Fiore, sono l’attraversamento di un paese al baluginare dell’alba, o nella calura del pomeriggio, o al chiarore della luna. Sono un vivere le storie, un passaggio nella Storia, la scoperta che la vita pulsa nelle parole. Sono l’esperienza di una poesia che rivela l’anima di una geografia, che delinea i tratti di un paesaggio mentale, che descrive una condizione esistenziale vissuta al confine tra una terra e due mari.

Bisogna avere radici profonde come quelle degli ulivi per raccontare questa terra.
Bisogna aver imparato ad ascoltare il mormorio senza tempo che corre per le strade di Otranto, stratificato nelle tombe di Vaste, pronunciato con gli occhi di pietra degli angeli che ci sorvegliano dai frontoni di strabilianti cattedrali.
Bisogna aver ascoltato lamenti di prefiche, preghiere sussurrate dietro gli usci chiusi, canti di carrettieri che ritornano al tramonto, nenie antiche di madri avvolte in scialli scuri.
Bisogna aver imparato a decifrare secoli di destini solo guardando snodarsi processioni dentro sere rischiarate da candele protette dal vento con la carta oleata.
Bisogna saper interrogare gli affreschi screpolati delle cripte bizantine, le edicole votive ai crocicchi delle strade, i volti dei vecchi sul limitare delle case, statue vive del tempo, discendenti di tutte le genti passate per queste contrade.
Bisogna aver imparato a capire i silenzi atterriti dei contadini quando la grandine devasta i vigneti, e aver visto vagoni pieni di valigie di cartone legate con lo spago andare verso Nord.
Ci vuole tutto questo per raccontare il Salento. Ci vuole anche di più.
Ci vuole una memoria lunga, la capacità di trasformare in racconti leggeri come le nuvole dei nostri cieli la storia oscura e dura di questo popolo di formiche.
Tutto questo ci vuole. E non basta nemmeno.
Perché ogni memoria possibile del tempo, ogni conoscenza che si può avere, la capacità di percorrere i sentieri della civiltà di oggi e di ieri, non bastano per raccontare la storia e la cultura, i simboli e i valori, i linguaggi e i paesaggi, le felicità e i dolori di questa terra.
Poi, il passato e il presente, i miti e gli eventi, bisogna ricostruirli parola su parola, con la stessa sapienza e la stessa maestria di chi costruiva furnieddhri, le volte alte delle case contadine, con cui il monaco Pantaleone meno di mille anni fa costruì il suo mosaico favoloso.

Bisogna dare alla narrazione, al passo delle frasi, alle storie, la leggerezza dell’increspatura e la profondità che ha il mare, la levità fantasiosa di Giuseppe Desa, il frate asino, il Santo dei voli.
Ci sono narratori che hanno saputo narrare il Salento con tutta la verità e con tutta la fantasia di cui solo la letteratura può essere capace. Per esempio: Fernando Manno, Giovanni Bernardini, Vittorio Bodini, Luigi Corvaglia, Maria Corti, Rina Durante, Martino Abatelillo, Aldo De Jaco, Piero Manni, Michele Saponaro, Antonio Verri, Salvatore Bruno.
Per loro la letteratura è stata niente di più o di meno di quello che per un bambino è la sua casa. Ma non la casa in cui vive ogni giorno, quella del tempo concreto, presente.
La letteratura per loro è stata la casa della memoria.

Accade, a volte, che un racconto rassomigli straordinariamente ad una terra. Che nelle sue parole si senta l’odore di basilico, si vedano colori di gerani, si accendano riflessi di orizzonte.
Accade che i segni d’inchiostro diventino voci di uomini e donne, preghiere di vecchi e filastrocche di bambini (filastrocche di vecchi e preghiere di bambini), che i miti si materializzino in figure di ricordo, o che una frase stringa dentro un sibilo di vento, distese di grano e sapore di melagrane.
Accade che un racconto diventi lo specchio del tempo di una terra: del tempo com’è stato, com’è diventato, come forse diventerà, un giorno.
Accade quando il racconto ha la profondità e le trasparenze di una memoria che confina col presente che da quella memoria si sviluppa e cresce.
Probabilmente non è più possibile pensare una Puglia – più intimamente per noi ora e qui un Salento – senza associare questo pensiero a quella mappa dell’esperienza di esistere che è “Finibusterre” di Luigi Corvaglia o a quella metamorfosi di memoria in mito che è “L’ora di tutti” di Maria Corti.

Non è più possibile, probabilmente, pensare questa penisola di confine senza un riferimento a quella sintesi iperbolica ed essenziale che di essa hanno fatto Vittorio Bodini, Girolamo Comi, Vittorio Pagano.
Sarebbe un po’ come pensare una Puglia senza Federico II, Otranto senza cattedrale, Lecce senza Santa Croce. E’ possibile?
Ci sono racconti che sono fatti con la stessa terra delle zolle, impastati con la stessa farina del pane fatto in casa, che hanno la stessa luce sfibrata di un tramonto che si adagia sulla fronda degli ulivi.
Ci sono racconti che non sono racconti: che sono, invece, dolmen, menhir, mosaici, campanili, silenzi, sussurri, ombre, vicoli, i volti, le voci, la luce della controra sulle case di calce del villaggio vivente nella memoria.

Ci sono racconti che non sono racconti. Sono stagioni che portano storie, storie che riportano stagioni. Fantasie leggere come leggende, verità più dure di scogliere. Ci sono racconti che sono la vita che passa dentro i giorni.

 

   
   
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