Settembre 2004

Amazzoni dimenticate

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Brigantesse
di terra e di mare
Ada Provenzano - Carmen Valentini - Mirella Micheli
 
 

 

 

Erano bellezze
selvagge in
pantaloni, oppure annoiate
prostitute che
si imbarcavano per guadagnare
un po’ di ducati durante le lunghe
navigazioni
negli oceani?

 

Di loro ricordiamo i corpi tozzi e i visi tondi, le pose sgherre accanto ai loro uomini; avevano lo schioppo in pugno e lo sguardo atteggiato ad un’inesistente ferocia: erano pur sempre delle donne, e spesso madri, e soltanto per amore erano finite alla macchia, a condividere i rischi che i loro amanti facevano correre spesso a centinaia (in alcuni casi a migliaia) di fuorbanditi che infestavano il Sud, dagli Abruzzi alla Calabria, ovunque monti e macchie e paludi offrissero rifugi sicuri e rapidi scampi.
Vogliamo dire delle brigantesse che presero parte a quella sorta di rivoluzione sociale post-unitaria, filoborbonica, ma soprattutto anti-sabauda, che tinse di rosso tante contrade meridionali. Altere, sicuramente, e fedeli fino al sacrificio supremo. Il che non assicurò loro alcun segno di pietà da parte di chi combatteva il brigantaggio: ne sono testimonianza orrenda le foto scattate per documentare i successi dell’esercito, e in particolare dei bersaglieri e della cavalleria, tenuto sotto scacco per anni da rivoltosi che conoscevano bene il territorio e che attuavano una guerriglia diffusa, da mordi e fuggi, con multipli colpi di mano, e persino con il controllo di città e aree regionali.
Quelle foto ritraevano non soltanto gli uomini, ma anche le donne già fucilate, comunque sedute, con gli occhi sbarrati, con le armi al fianco, con le mani sul grembo. Nient’altro, perché nulla possedevano al momento della cattura, se non i vestiti che indossavano, la bisaccia con pochi viveri e l’orcio di pelle con l’acqua potabile. Raramente possedevano un cavallo. Frequentemente dividevano la vita tra partecipazione alle imprese dei loro uomini, e ritorni ai propri tuguri, da persone insospettate, eccezion fatta per le più note brigantesse, il cui coraggio e la cui spregiudicatezza sconcertavano i rudi piemontesi e lombardi che avevano la ventura di scontrarsi con costoro.

Fu, per numero di partecipanti al brigantaggio e per l’alto tributo pagato, un fenomeno unico in Europa. E non se ne è scritto molto, se non da specialisti di questo settore particolare della nostra storia: anche perché scarsi sono i documenti emersi, e negletta è stata la loro vicenda umana. Politicamente analfabete, quasi tutte analfabete tout court, furono essenzialmente vittime di amori sbagliati, comunque spericolati, preludi di tragedie con esito scontato: il piombo dei plotoni d’esecuzione ne fece giustizia sommaria, assai più di quanto, nel Paese di Cesare Beccaria, le prigioni ne facessero esempio di recupero alla vita civile e sociale.
Destini segnati in partenza, incrociati con quelli dei grandi e piccoli briganti che sommarono ideali e grassazioni, strategie d’attacco alle regie truppe e sotterranee trattative col “nemico” al tempo del generale ripiegamento. E destini giocati tutti in avventure terragne, con le antropologie differenziate da terra a terra: gli elementi più feroci provenivano dal Molise, i più abili dalla Capitanata, i più tenaci dall’Irpinia e dalle Calabrie, i più determinati dalla Basilicata, i più divisi dagli Abruzzi e dal Basso Lazio. Una nebulosa con numeri variabili, in costante fermento, sempre imprevedibile nelle tattiche guerrigliere, e di frequente manovrata dal baronismo conservatore del Sud. In ogni caso, fenomeno collettivo, con radicamenti profondi nella società, il che rese più arduo il compito dell’estirpazione, che si compì dopo tradimenti, cacce all’uomo, bagni di sangue, lasciando un Paese estenuato.

Altra storia, di elementi individuali, quella svoltasi sui mari sotto il segno folgorante della pirateria femminile. Donne armate di pistole e sciabole che andavano all’arrembaggio, comandando una ciurma bucaniera? Sembra che ne siano esistite una decina, a seconda della definizione che si vuol dare al termine “pirata”, che deriva dal greco peiraino, “attacco”, e il The Shorter Oxford Dictionary definisce “one who robs and plunders on the sea etc.; a sea robber... one who roves about in quest of plunder; one who with violence, a marauder, despoiler”. Il pirata è dunque chi corre il mare per commettere ruberie e saccheggi, colui il quale vagabonda in cerca di qualcosa da arraffare, commettendo violenze.
Ma questa definizione tralascia importanti verità, tra le quali il fatto che i pirati abbiano spesso preso di mira bastimenti stranieri, come d’altronde avviene in guerra. La pirateria, inoltre, è iniziativa che ha alle spalle altri soggetti facenti parte di un’organizzazione commerciale o territoriale abbastanza complessa.
E’ stata la scrittrice britannica Jo Stanley a porsi le domande e a tentare di dare delle risposte documentate ai quesiti sull’argomento: le piratesse facevano parte dell’universo di banditi fanfaroni, di reietti solitari; erano bellezze selvagge in pantaloni, oppure annoiate prostitute che si imbarcavano per guadagnare un po’ di ducati durante le lunghe navigazioni negli oceani? Si trattava di spiriti liberi, oppure di madri sifilitiche, che per di più soffrivano il mal di mare? Tremavano alla sola idea della battaglia, oppure erano audaci spadaccine?
Nel suo Bold in her breeches. Women pirates across the ages, Jo Stanley cerca di distruggere l’immagine stereotipata, radicata nella cultura occidentale, della pirateria quale attività prettamente maschile. I pochi personaggi femminili che nella nostra letteratura solcano i mari si possono infatti contare sulle dita e aleggiano nel mito: tra questi, i più noti sono Ann Bonny e Mary Read, che vissero nei Caraibi intorno al 1720. Secondo l’autrice, le donne pirata sono ciò che rimane delle dee pagane e del matriarcato, e sono assimilabili alle amazzoni. A differenza delle muse, non ispirano, non sono creature dolci e melanconiche, non hanno alcun desiderio al di là della sete di potere e, in questa accezione, non possono che essere distrutte nell’immaginario maschile in quanto contendono all’uomo il potere, proprio perché distruttive quanto lui e impegnate in un’attività più virile rispetto a molte altre. In qualche modo, la figura della donna pirata valica i confini tra uomo e donna, si fa carico di entrambi i ruoli. Non è detto che sia sempre in prima linea, pur svolgendo un ruolo attivo.
Dopo la battaglia di Evesham del 1265, ad esempio, i seguaci dello sconfitto Simon de Monfort si avventurarono per mare insieme con le loro famiglie e vissero di pirateria, fino a che il sovrano fece seguire alle persecuzioni e alle confische un atto di clemenza. E’ difficile dubitare che in tali condizioni le donne non continuassero a cucinare, a lavare i panni e a badare ai figli, pur vivendo su una nave anziché tra le mura domestiche.

Nel XIX secolo diverse centinaia di donne cinesi solcarono i mari in quanto mogli e madri di pirati. La francese Fanny Loviot, catturata dai pirati cinesi nel 1858, testimoniò nella propria biografia come sui vascelli le donne aiutassero gli uomini, specialmente nel carico delle mercanzie, oltre che nel loro scarico nei centri pirateschi costieri. E Ann Bonny e Mary Read, le piratesse più conosciute dai lettori britannici (vissero nel XVIII secolo, epoca nel corso della quale la pirateria è meglio documentata), presero parte anche ai combattimenti. Le altre bucaniere di cui siamo a conoscenza appartennero a famiglie reali, regnarono su un territorio più o meno vasto e spesso si sposarono allo scopo di consolidare il più possibile il proprio potere.
Vissero in un’epoca in cui molto probabilmente le razzie erano pratica abbastanza comune. Tra queste regine guerriere la Stanley ricorda Artemisia, che scorrazzava nel Mare Egeo attorno al 480 a.C.; la principessa irlandese Granuaile (nel XVI secolo); l’estremo-orientale Cheng I Sao (inizio del XIX secolo); la danese Alfhild (V secolo); le cinesi Lo Hon-Cho e Lai Choi San, vissute tra gli anni Venti-Trenta del XX secolo.

Soffermiamoci, a ragion veduta, su Artemisia, regina di Alicarnasso, la prima donna pirata, nel senso di guerriera che solca i mari, di cui si abbia notizia. Erodoto racconta che cinquant’anni dopo la morte di Ciro, Artemisia combatte a fianco del re persiano Serse (regnò dal 486 al 465 a.C.) nella guerra contro i greci. Cretese da parte di madre (sembra che a metà del V secolo a.C. le donne di Creta godessero di maggiore indipendenza rispetto alle donne ateniesi) e figlia di Lidgamo di Alicarnasso, Artemisia non è appendice del padre né del defunto marito a cui succede non per mancanza di discendenza maschile (è madre di un figlio adulto), quanto per una scelta personale, motivata da puro spirito d’avventura, oltre che da un coraggio virile.
Unica tra tutti i comandanti delle forze persiane, Artemisia consiglia a Serse di non salpare poiché, memori della sconfitta recentemente subita in Eubea (agosto del 480), i persiani dovrebbero aver imparato a non confrontarsi con la potenza navale dei greci. Il consiglio viene elargito con apparente umiltà: «Risparmia le tue navi. Nelle cose di mare i greci ci sono superiori quanto gli uomini sono superiori alle donne». Ma all’inizio del discorso Artemisia aveva dichiarato che il diritto di parlare con franchezza le derivava dal coraggio e dalle capacità dimostrate durante la battaglia nell’Eubea.

L’intervento di questa donna lascia stupefatti gli altri membri del consiglio di Serse. Coloro che le sono amici temono la sua rovina per parole tanto audaci, gli invidiosi sperano ardentemente che perda il favore del re. Stupito dalla perspicacia di Artemisia, Serse non segue tuttavia il suo consiglio, convinto che la disfatta nell’Eubea fosse da imputare alla propria assenza sul luogo della battaglia, causa del rilassamento dell’esercito. Il gran re persiano affronta dunque i greci a Salamina (480 a.C.), dove Artemisia viene braccata dal comandante ateniese Aminia di Pallene, «che la cercava ovunque... poiché offendeva gli ateniesi che una donna avesse preso le armi contro di loro e i capitani delle navi avevano ricevuto ordini speciali al suo riguardo, insieme all’offerta di diecimila dracme come ricompensa per chiunque l’avesse catturata viva».
Per sottrarsi alla caccia di Aminia, Artemisia si astiene dall’attaccare la trireme nemica, e si lancia contro una nave degli alleati, con Damasitimo, re di Calinna, a bordo. I greci, credendo di avere a che fare con una nave alleata, desistono dall’inseguimento. Seduto sul trono installato su un’altura, Serse osserva la battaglia, grato ad Artemisia per avere affondato una nave, che mai avrebbe pensato appartenere a un alleato.
Erodoto è particolarmente indulgente con Artemisia, la cui astuzia è interpretata non come un vile tradimento, bensì come espressione di una raffinata tattica militare. A questo giudizio benevolo contribuirono senza dubbio un po’ di patriottismo (Erodoto e Artemisia provengono da quello stesso lembo di terra che si protende nelle acque meridionali dell’Egeo), nonché gli aneddoti dei reduci della battaglia di Salamina, che lo storico doveva avere ascoltato da bambino.

Finita l’epoca della pirateria a vela, oggi gli scorridori del mare agiscono lungo le coste orientali dell’Africa e in quel groviglio di terre che ruotano intorno alla Malesia. Non si tratta dei discendenti dei grandi bucanieri che avevano taverne, donne e rifugi sicuri nei Caraibi, né dei discendenti del salgariano Sandokan, re della pelatissima isola di Mompracem. Sono grassatori che solcano i mari, forniti di strumenti elettronici, di imbarcazioni velocissime e di armi sofisticate. Depredano vascelli, merci e passeggeri, e svaniscono tra i meandri delle foreste equatoriali. Tra di loro, ma soltanto in Estremo Oriente, non difettano le donne, ricettatrici stanziali di quanto viene depredato in aree impenetrabili del territorio che in alcuni casi è stato addirittura scarsamente esplorato e che non è sotto il controllo di corrottissime forze pubbliche. Gli episodi di assalti e abbordaggi sono oggetto pressoché quotidiano della cronaca. Cinesi, malesi, indonesiani, elementi provenienti dalla Malacca e dal Borneo sono attivi ormai da decenni.
Le presenze femminili sono state documentate solamente da alcuni anni a questa parte, con la scoperta dei capannoni-depositi meno protetti. Si favoleggia della presenza di piratesse anche a bordo delle imbarcazioni assalitrici. Alle sciabole di una volta son succedute le armi automatiche; all’artiglieria, i lanciarazzi. La storia si ripete, con altri mezzi.

 

   
   
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