Settembre 2004

Cronache dell’intolleranza

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I Santi col burka
Tonino Caputo - Carmen Samado - Franco Caimpenta
 
 

 

 

La prospettiva
è quella di
un’Europa che
finirà per pregare in arabo, e che
al posto dei
campanili avrà
i minareti che
trafiggeranno il cielo cristiano con la loro mezzaluna metallica.

 

La storia era cominciata in Francia, nell’ottobre 1989, in un collegio di Creil, dove si presentarono a lezione tre ragazze con addosso il tradizionale hijab islamico. Le autorità scolastiche chiesero a costoro di togliersi il velo durante le ore scolastiche. La polemica nacque dal fatto che, di fronte al loro rifiuto, condiviso e anzi sostenuto dalle loro famiglie, le tre ragazze vennero espulse.
L’episodio suscitò scalpore e, in gesto di solidarietà, un po’ in tutta la Francia altre ragazze di fede musulmana si presentarono a scuola con il velo. A questo punto l’episodio, in origine marginale, divenne un fatto politico che non poteva più essere ignorato: da una parte si schierarono coloro i quali, in nome della libertà di espressione religiosa, sostenevano che, se veniva proibito il velo, dovevano scomparire dalle aule tutti i simboli religiosi; dall’altra presero posizione coloro i quali, pur riconoscendo il diritto di tutti allo studio, comunque riaffermavano la propria identità culturale fondata sui princìpi cristiani e respingevano i tentativi islamici di esercitare azioni di proselitismo persino nelle scuole.

Le polemiche sono tuttora in corso e coinvolgono altre sfere, comprese quelle della distinzione fra la permeabilità delle posizioni etniche, che è un dato accettabile, e l’inalienabilità dei valori culturali di un Paese ospitante, che non possono essere stravolti dall’aggressività integralista, escludente, intollerante, di chi viene ospitato.
Conosciamo bene le vicende italiane di un musulmano, presto emulato da altri correligionari, il quale reclamava la rimozione del crocefisso dall’aula scolastica frequentata da uno dei suoi figli. Anche in questo caso polemiche a tutto spiano: se i movimenti islamici affermano che il velo non è una semplice manifestazione di moda, ma un irrinunciabile simbolo di appartenenza culturale, non si vede perché i cristiani, o comunque gli occidentali che non possono non dirsi cristiani, comunque la pensino, non debbano ritenere irrinunciabile la presenza di un crocefisso proprio là dove ciascuno di essi riceve ed elabora i princìpi in nuce della propria cultura, e dunque della propria identità.
In Italia è riconosciuta la libertà di religione e di culto. Dunque, se i musulmani sono disturbati da un’ora settimanale di lezione sulla storia delle religioni, hanno facoltà di lasciare l’aula e di dedicarsi ad attività alternative; se poi a disturbarli è l’immagine del crocefisso, è affar loro: nessun docente lo userebbe come una clava, anche perché – radici identitarie a parte – l’insegnamento dato da «quel corpo rinsecchito di un ebreo suicida» (come elegantemente venne definito Cristo dal musulmano in questione) era del tutto diverso da quello delle guerre sante, che hanno riguardato la storia euro-mediterranea solo parecchi secoli fa, e non l’età contemporanea.
Anche nel caso italiano le polemiche proseguono, a volte sotterranee, altre volte alla luce del sole, basate su contrapposte “politiche del riconoscimento”, secondo le quali da una parte vanno riconosciuti i diritti culturali delle comunità minoritarie, ma dall’altra si esige la protezione di quelle di gran lunga maggioritarie, la cui cultura è impregnata dell’insegnamento cristiano: e non ci può essere neutralità dello Stato che possa in qualche modo scalfire i valori nei quali si riconosce la gran parte dei cittadini.

Ritenevamo limitata a questi due ambiti (la Francia e il velo, l’Italia e il Crocefisso) la questione. E ci ingannavamo. Nell’era di Zapatero, è esplosa in Spagna una terza polemica, che ha innescato anche in terra iberica un dibattito serrato, senza esclusione di colpi, che sta alimentando il sospetto che non di casi isolati si tratti, bensi di un’azione coordinata, diffusa, radicale del mondo islamico contro quello cristiano.
Dunque: nella Spagna colpita al cuore dal terrorismo islamista, San Giacomo Zebedeo, evangelizzatore di quella Penisola e santo patrono della stessa Spagna, non è politicamente corretto, almeno nella sua veste guerresca di “Santiago matamoros”, il santo che uccide i “Moros”, vale a dire i musulmani arabi e berberi. Una statua di Santiago, che brandisce lo spadone e calpesta sotto gli zoccoli del suo cavallo islamici inturbantati in preda al terrore, dovrà essere rimossa nientemeno che dalla cattedrale di Santiago de Compostela, e sostituita da una statua dello stesso santo nella mite versione di pellegrino.
I canonici della cattedrale, fulminati dall’ideologia comunitarista, nelle segrete stanze di questa gran chiesa, meta finale di milioni di visitatori ogni anno a partire dal Medioevo, hanno preso la decisione – dicono – perché non vogliono che «persone di altre culture possano sentirsi offese». Si tratta di «evitare suscettibilità» e di «non ferire la sensibilità di altri gruppi etnici». In altri termini, dei musulmani. Il portavoce della cattedrale ha sottolineato che il ritiro della statua era stato deciso già da parecchio tempo, e in ogni caso ben prima degli attentati dell’11 marzo che hanno insanguinato Madrid; e hanno ribadito che la questione era già in discussione.
Se non che questi chiarimenti (excusatio non petita) non hanno convinto. Sono in molti a pensare che le bombe che hanno devastato i treni madrileni abbiano suggerito e poi accelerato la decisione. E le critiche piovono contro i responsabili della cattedrale. In un editoriale, il giornale El Mundo dichiara senza mezzi termini che l’iniziativa offende milioni di spagnoli che vedono in Santiago un simbolo di identità nazionale, e scrive che Oriana Fallaci si sentirebbe intimamente riconfortata nella sua idea che la Chiesa cattolica è troppo passiva nei confronti dell’offensiva integralista islamica.

Serafin Fanjul, docente di letteratura araba all’Università autonoma di Madrid, spiega che il pretesto di non ferire la sensibilità dei musulmani non convince proprio per niente: «Come ignorare che la nazione spagnola si è forgiata nella volontà collettiva di non voler essere musulmana e che la figura di Santiago ha svolto un ruolo centrale in questo processo?».
La statua policroma, opera del secolo XVIII di José Gambino, dovrebbe essere collocata nel Museo della cattedrale dove, si ritiene, ferirà meno gli animi più sensibili. La diffusione del mito di Santiago è legata ai secoli della Riconquista, il periodo di lotta dei sovrani cristiani per riprendere il controllo dei territori sotto il dominio musulmano. Durò ben cinque secoli e culminò con la caduta della città di Granada, nello stesso anno in cui Colombo approdava nelle Americhe, quel 1492 che in seguito avrebbe fatto inclinare a occidente la storia che a lungo si era fermata sulle sponde del Mediterraneo.

In questo periodo si foggiò la leggenda dell’apostolo Santiago, cioè San Giacomo, sepolto in Galizia al termine di un misterioso viaggio dalla Palestina. Fu un mito efficace nella guerra contro i musulmani: il santo apparve ai combattenti cristiani, in groppa al suo cavallo bianco, e li incitò fino alla vittoria nella battaglia di Clavijo, nel IX secolo. Fu la prima delle apparizioni guerresche e venne seguita da molte altre. Santiago si rivelava ogni volta che i cristiani si battevano contro i “Moros”: e questa fu la ragione di fondo che spinse i fedeli a riconoscergli il supremo onore di essere il patrono della Spagna.

Il “Santiago Pellegrino” è stato subito ribattezzato “Santiago Zapatero”. E questa trasformazione del nome del santo, fratello di san Giovanni, la dice lunga sullo sconfinamento delle polemiche in territorio politico. E’ questo lo spirito dei tempi? Ha scritto Lorenzo Mondo di essere rimasto «decisamente interdetto per la vestizione di capitan Santiago Matamoros, la sua riduzione in abiti dimessi». E ha aggiunto: «Capisco l’onestà dell’ispirazione apprezzata da osservatori di riconosciuto equilibrio, meno la congruenza e l’opportunità del bersaglio; si è quel che si è (si deve esserlo) senza condizioni, anche se è legittimo rintuzzare l’impudenza di chi, non avendo mai fatto in casa propria esperienza di libertà, pretende di abusare della nostra». E ha citato gli esempi del nostro Paese, dove qualcuno ha intimato di epurare la Divina Commedia che colloca Maometto all’Inferno, mentre altri hanno minacciato di far saltare la cattedrale di Bologna a causa «di un affresco giudicato sacrilego».
Paolo Mieli cita anche Alberto Indelicato, il quale si è chiesto se i promotori di questa iniziativa «siano stati informati degli appelli del Papa perché l’Europa riconosca nella Costituzione le sue origini cristiane e se sappiano che egli ha anche proclamato la santità di Marco d’Aviano, che a Vienne, nel 1689, infiammò i popoli europei alla resistenza contro l’invasione islamica ottomana, dopo che già da secoli è stato proclamato santo il francescano Giovanni da Capistrano, che nel 1456 aveva contribuito alla liberazione di Belgrado dall’assedio islamico». Insomma, sotto accusa è il relativismo etico dei comunitaristi cristiani (alcune alte gerarchie incluse), che attuano una strategia di lunga durata, volta ad accogliere e convertire le masse arabe e berbere, turche e medio-orientali che affrontano i rischi del mare per sbarcare nel continente europeo, mentre in realtà stanno realizzando una strategia difensiva, e in alcuni casi anche di ritirata di fronte all’integralismo islamista.
E poiché sono i numeri a dare ragione, visti i cali demografici europei e le vertiginose crescite di quelli musulmani, la prospettiva – secondo i pessimisti – è quella di un’Europa che finirà per pregare in arabo, e che al posto dei campanili che svettano accanto alle chiese e alle cattedrali avrà i minareti che trafiggeranno il cielo cristiano con la loro mezzaluna metallica, situati accanto alle moschee dell’Islam dell’Eurabia.

Un interrogativo che si pongono anche gli intellettuali arabi e di fede musulmana è questo: come mai l’universo islamico è così ostinatamente refrattario all’idea stessa di democrazia e di tolleranza? E come mai, al di là dei suoi confini, oltre che nel mondo europeo, anche in quello asiatico il valore della disciplina è bilanciato da quello di alcune libertà politiche? Risponde un Premio Nobel, Amartya Sen, nel suo libro La democrazia degli altri: «Una delle più antiche e ferme difese della tolleranza, del pluralismo e del dovere (da parte dello Stato) di proteggere le minoranze, può essere letta nelle iscrizioni di Ashoka, il celebre imperatore della dinastia Maurya, vissuto nel III secolo a.C.». Non basta. In Giappone, nei primi anni del VII secolo, il buddhista principe Shotoku, che governava come reggente di sua madre, l’imperatrice Suiko, introdusse una Costituzione relativamente liberale, nota come “Costituzione dei diciassette articoli”. Essa poneva l’accento proprio nello stesso spirito della “Magna Charta” (emanata in Inghilterra sei secoli dopo, nel 1215) sul fatto che «le decisioni importanti non devono essere prese da una sola persona e devono, invece, essere discusse da molte persone». Inoltre suggeriva: «Non dobbiamo provare rancore quando qualcuno non è d’accordo con noi perché tutti gli uomini hanno un cuore e ogni cuore ha le sue inclinazioni; ciò che per noi è sbagliato, per altri è giusto, e ciò che per noi è giusto, per altri è sbagliato». Tutti gli studiosi sono unanimi nel concordare con Nakamura Hajim che considera questa carta del 604 «il primo passo compiuto dal Giappone nel graduale sviluppo della democrazia».
Amartya Sen ricorda fra l’altro che alla fine del XVI secolo il grande imperatore moghul Akbar, con la sua fiducia nel pluralismo e nella funzione costruttiva delle discussioni pubbliche, proclamava in India la necessità della tolleranza e si impegnava a favorire il dialogo tra genti di fede diversa (compresi indù, musulmani, cristiani, parsi, janisti e persino atei), al tempo in cui in Europa c’era ancora una severa Inquisizione.
Questo è il dramma che vivono gli intellettuali musulmani moderati: essi sono consapevoli del fatto che un minimo di liberalismo dovrebbe partire come dato di fatto dall’esistenza di una pluralità di valori che, per quanto irriducibili, sono solo potenzialmente e non sanguinosamente in conflitto tra loro. Questo dato di fatto della vita morale dell’uomo non conduce necessariamente alla disgregazione sociale. Al contrario, se correttamente elaborato da un punto di vista sia filosofico sia politico, esso fonda la “società aperta”.
Le società contemporanee possono essere multietniche, e ciò dà origine a problemi che non possono essere trascurati, dai diritti umani a quelli civili; ma non possono essere multiculturali, pena la distruzione della tradizione occidentale. Lo tengano bene a mente coloro i quali staccano i Crocefissi o mettono il burka ai Santi.

 

   
   
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