Settembre 2004

 

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Un cielo di stelle fredde
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

 

Si dice ancora oggi “epoca industriale”: e si intende designare l’età della “rivoluzione industriale” che, sul finire del Settecento, operò colossali trasformazioni in campo economico, sociale, territoriale.

Quell’età travolse l’agricoltura, portando nei Paesi avanzati gli addetti a meno del dieci per cento, ed esaltò la ciminiera, che aggregò oltre il cinquanta per cento degli occupati. Sul piano sociale, quella “rivoluzione” operò la separazione – definitiva, in quei Paesi – tra casa e lavoro; e rese incompatibile il doppio ruolo della donna, lavoratrice e/o custode del focolare domestico.
Su quello territoriale, le concentrazioni delle industrie nelle città determinarono massicci spostamenti di popolazione e, specularmente, la congestione delle metropoli e lo spopolamento delle campagne. Tutto ciò, ha sostenuto il sociologo Detragiache, condusse decine di milioni di individui «ad operare il salto enorme dalle società tradizionali, caratterizzate dal sapere per esperienza, dalla ripetitività dei comportamenti, dagli usi e costumi fissi da secoli, dalle società protette dalla famiglia allargata e dalla comunità di vicinato alle società industriali».

Il salto fu lacerante. Nacque la famiglia nucleare. La società industriale crebbe fortemente individualizzata e competitiva. La solidarietà affettiva fu sostituita dalla solidarietà di interessi. La religione conobbe nuovi conflitti con la scienza. Un mondo vissuto per millenni sotto il segno tragico della penuria vedeva trasformato l’orizzonte delle paure nell’orizzonte delle speranze.
Questa trasformazione era stata incubata a lungo. Lo storico belga Henri Pirenne individuava gli antesignani della classe borghese (che di fatto opererà questa grande trasformazione) nei mercanti girovaghi, geniali avventurieri che dopo il Mille, senza identità sociale nel mondo feudale, passavano da una città all’altra, abilissimi nel commerciare, affrontando paesi, genti e mercati sconosciuti, e dunque rischiando la pelle e le sostanze.
Fu questo gruppo di esperti in traffici a rompere l’economia chiusa del feudo, a creare relazioni e comunicazioni, e metter su addirittura dei mercati; e fu questo stesso gruppo a cominciare a produrre per vendere, a sperimentare l’intrapresa
economica a ciclo completo. La rinascita delle città medioevali, quella della civiltà comunale, e, in seguito, della civiltà rinascimentale, avrebbe trovato in questi nuovi ceti gli antecedenti storici. E Max Weber avrebbe poi messo in rilievo il ruolo giocato dal mondo protestante nel generare una motivazione religiosa al durissimo impegno terrestre, indispensabile per attuare la trasformazione. Parallelamente, si trasformò la scienza. E Galileo scoprì le leggi della natura non più per contemplarla, ma per dominarla.
Dunque: etica del rischio, conseguente razionalità economica e scienza che si fa tecnica furono i fattori che, annodandosi a fine Settecento, mutarono il volto della società occidentale (con sviluppo endogeno) e di quella orientale (per induzione). Con esclusione delle “colonie”, rimaste vincolate alla loro arretratezza: problema, questo, di dimensioni enormi, e come tale consegnato dalla società industriale a quella post-industriale.

L’epoca industriale raggiunse il vertice della parabola negli anni Sessanta del secolo Ventesimo. In quel momento si manifestò, generale, il rigetto dei due sistemi sui quali si era strutturata: il grande stabilimento e la grande città. Allora si “deverticalizzò”, in nome della diffusione delle piccole e medie imprese sul territorio. In quegli anni prese il via la “rivoluzione microelettronica”: si ampliò la gamma dei prodotti, si modificarono le tecnologie produttive, crollò la tecnologia meccanica, riemerse molto sommerso (mai estinto, in realtà: il lavoro a domicilio, del resto, era stato invenzione del Medioevo).
L’uomo si riscoprì meccanismo di una “folla di solitari”, volle ritrovare la propria identità, entrò in una nuova forza centripeta, abbandonò la massa e l’inurbamento. L’occupazione industriale precipitò di circa il venti per cento. Si aprì un altro orizzonte: si sarebbe vissuti ancora grazie all’industria, non si sarebbe vissuti più nell’industria. Avanzò il terziario specializzato: e avanzarono l’informatica, gli apparati di servizio, la robotica, e infine la telematica con gli incroci delle comunicazioni. Mentiva, dunque, chi affermava che ci si stava “reindustrializzando”. Il mondo stava cambiando pelle. Ed era in vista una massiccia disoccupazione tecnologica. Questo fu l’altro problema della società post-industriale.

Cos’è accaduto in Italia? Innanzitutto, il (consueto) ritardo nel processo di industrializzazione. Ma, ha scritto Giovanni Amedeo, «quel che deve essere sottolineato è non tanto una sfasatura cronologica in sé, quanto il portato di questa sfasatura». In altri termini: noi tirammo su le ciminiere quando altrove esse avevano già determinato, oltre all’arricchimento dei ceti imprenditoriali più attivi, anche una lotta politica, all’interno della quale si era formato il moderno socialismo. Questa antinomia (quel socialismo nacque come reazione all’industrialismo) in Italia non fu vista nella sua specifica configurazione; noi importammo simultaneamente socialismo e industrialismo, e ciò determinò una sorta di fede sia nell’uno che nell’altro. Confusione che non fu senza conseguenze. Neppure uomini di mente acutissima, quali Gramsci e Gobetti, seppero superare l’equivoco. E quando si cominciò a veder chiaro, nel 1940, era ormai troppo tardi.
L’inghippo veniva da lontano. Nell’Ottocento, solo qualche critica al nuovo razionalismo: veniva dagli Scapigliati. Per il resto, industrialismo e socialismo venivano parallelamente esaltati. Ada Negri evitò la retorica, anche perché sinceramente turbata dallo squallore delle fabbriche suburbane; ma Mario Rapisardi riuscì a vedere le macchine animate da uno spirito umano e da una volontà di lotta ai tiranni: potenza delle suggestioni!
Marinetti e i Futuristi si schierarono apertamente dalla parte della macchina. D’Annunzio, maestro di doppiezza, esaltò gli aeroplani, la torpediniera, i nuovi ordigni di guerra, e contemporaneamente la natura raccolta, le voci antiche, il “divino” silenzio dell’uomo che forma la materia con le proprie mani. Pirandello espresse un giudizio netto di fronte allo spettacolo della natura saccheggiata dall’uomo (nella novella “Il fumo”) e fu il primo, in Italia, a cogliere l’inarrestabile decadenza dell’arte (ne “I giganti della montagna”). Poi venne il primo sterminio mondiale, e gli scrittori abbandonarono i territori dell’idillio. Qualche trasalimento lo ebbe il Tozzi (in “La scuola d’anatomia”).
Ma non si era ancora alla cultura del pensare. Giocava un ruolo «una ripulsa istintiva, anche se motivata», che tuttavia non dava il bandolo della matassa, mentre avanzava l’era tecnologica. Un segnale si avrà soltanto con Pea, nel terzo racconto della “Trilogia di Moscardino”. Giuda, un rivoluzionario, dice al protagonista: «Ho voluto che tu mi vedessi con la barba che portavo quando tradii Gesù, ricordatelo: avevo l’ambizione del trono d’Israele. Adesso sono per le macchine, per le scienze: sono moderno come il tuo padrone». Poi venne Svevo, e nacque la coscienza dei nuovi rapporti. L’uomo, scrisse, «inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa».

Il resto può interessare relativamente. Ci interessa questa anticipazione sveviana; che, riferita ai nostri giorni, e anche al nostro Paese, può riassumersi nell’arco parabolico che Silvio Bertocci fa passare dall’utopia telematica alla disperazione cibernetica. Dice Bertocci: la società attuale ha contraddizioni troppo vistose perché si possa giustificare l’ottimismo di coloro i quali prefigurano un “universo telematico” (cioè di combinazioni nell’applicazione dell’informatica e delle telecomunicazioni) come un’imminente e favolosa età dell’oro in cui tutti i problemi avrebbero una soluzione, liberando l’uomo dai bisogni e dai condizionamenti. Le utopie, si sa, sono ricorrenti nella storia, in particolare in epoche di profonde crisi della coscienza collettiva.
Che cosa succede, in realtà? «Se è vero che le prime generazioni di robot e di calcolatori sono ormai diventate oggetto d’antiquariato […], confermando la rapidità dei processi di trasformazione ma anche di obsolescenza, è altrettanto vero che la prospettiva telematica risponde all’esigenza di reideologizzare il concetto di pragmatismo che, dopo aver fatto tabula rasa di molte ideologie all’insegna della razionalizzazione, ha prodotto un diffuso pessimismo culturale e persino moderne forme di luddismo che si esplicitano nella contestazione, tramite consistenti movimenti ecologisti e pacifisti, delle macchine che producono beni di consumo distruggendo l’ambiente, e nella richiesta di distruzione delle più perfette e sofisticate macchine da guerra costruite dall’uomo in virtù dello sviluppo tecnologico». Cioè: di fronte alla crisi di coscienza collettiva e al dilagante pessimismo culturale, i profeti dell’era telematica «hanno avvertito la necessità di ammantare con prefigurazioni mitologiche lo stesso progresso scientifico e tecnico».
Si sublima l’universo telematico. Ma nessuno ci dice che, in realtà, questo universo è portato ad escludere gradualmente le forze produttive, e proprio a partire dal momento in cui queste – deverticalizzate e diffuse nel territorio – hanno ritrovato una nuova dimensione umana.
In sostanza: quasi tutta la letteratura che da decenni si occupa della rivoluzione scientifico-tecnologica (dei calcolatori, degli elaboratori elettronici, della cibernetica, dell’energetica, della biochimica, dei satelliti per comunicazioni, delle materie prime) non ha saputo (o potuto, o voluto) elaborare una teoria complessiva e soddisfacente «del cambiamento determinato dalle innovazioni tecnologiche da raccordare o in parallelo con le teorie del mutamento sociale […]. Si direbbe che tutti i teorici e gli assertori senza condizioni dell’utopia telematica considerino le componenti umane e sociali delle forze produttive quasi alla stregua di un elemento marginale».
Siamo forse alla “post-civiltà” ipotizzata da Herman Kahn, secondo il quale tecnologia, scienza e conquiste un giorno saranno concentrate in poche mani, quelle di élites tecnocratico-manageriali, militari, burocratiche, vale a dire di un’oligarchia specializzata e impegnata esclusivamente a raggiungere la pacificazione delle masse? E’ la “trasformazione universale”, preliminare alla nascita di un’armoniosa “società del benessere”, creata dalla tecnologia cibernetica e fondata sulla regolamentazione e sul controllo dell’uomo e della vita dell’uomo, profetizzata da Zbigniew Brzezinski? Con un ferreo sistema sociale al posto del sistema-uomo? Con i Paesi-guida e con i Paesi-neocolonie? E con un cielo di orwelliane stelle fredde?

 

   
   
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