Settembre 2004

riforme mancate e scenari di declino

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I signori del fuorigioco
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

Senza costruire teoremi utopici,
si attende un salto di qualità in cui
il Paese deve
mettere in gioco un po’ della sua anima giacobina
e del suo cinismo senza morale.

 

L’Italia è ancora un Paese riformabile? Abbiamo un passato con tante anomalie irrisolte, ma non siamo mai entrati nel futuro. E di fronte all’evidenza di una cesura grave tra aspettative sociali e loro rappresentanza, politici, imprenditori e sindacalisti continuano a negare la sindrome del declino. C’è nell’aria un forte senso di scoramento, con bolle di entusiasmo subito annullate da vampate di allarmismo.
Ma ogni situazione di crisi ha in sé il dovere della speranza. Di fronte alla prolungata decelerazione nella crescita del Pil e della produttività del lavoro restiamo tutti in surplace, in attesa che qualcuno parli al Paese, rendendo visibile l’invisibile, soprattutto dopo gli esercizi di una volontà riformatrice che quando non ha prodotto gelida astrattezza, ha aperto cantieri vuoti (devolution e leggi costituzionali) o seminato con risultati scarsi (cito a caso: riforme Rai, scuola, mercato del lavoro, nuovo processo penale, nuovo diritto societario, leggi sul diritto di sciopero, sulla responsabilità civile dei magistrati, sulle privatizzazioni). Tutte leggi “piatte”, che non hanno scalfito le ragioni del disagio, accentuando la frattura tra occupati, disoccupati ed esclusi.
Chi ora è animato da buoni propositi deve assumere funzioni e ruolo di outsider, per portare l’idea delle riforme fuori dai ghetti culturali della Scapigliatura; per vincere il compassato torpore di top manager, autorità di governo, leader politici, sindacalisti a quattro stelle. Con qualche avvertimento. Gli elettori tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli hanno già bocciato i governi più esposti su questo fronte, dando all’Europa chiari segnali di continuità conservatrice. Dopo le amministrative e le europee, gli italiani si preparano al voto di legislatura del 2006 (forse anticipato al 2005) ipnotizzati da un effetto estraniante che crea scarsa voglia di futuro.

Si può dissertare a lungo sulle motivazioni di un voto. Ma si può già scommettere sulla percezione di un tessuto sociale che preferisce strangolare nella culla le ricette riformiste, giudicando più rassicurante uno schema rodato e usurato (dogmatico conformismo, secondo Sergio Romano).
Anche le veglie di contestazione sono senza voglia, seguono le logiche di un rituale mondano interrotto saltuariamente da arrabbiature a comando. Non ci sono più le grandi forze del mutamento riconducibili alla dimensione delle masse organizzate e ad una società illuminata, ben disposta verso nuove forme di omologazione. I sogni non sono più audaci come negli anni Cinquanta-Sessanta, quando in un’Italia sobria e austera la partecipazione collettiva era vissuta in modo accorato e arroccato, ma sempre orientata verso ambiziosi progetti unitari di sviluppo. Chimica, siderurgia, petrolio, trasporti animavano sanguigne polemiche nazionali, mentre la questione meridionale assumeva significativa centralità nella definizione delle politiche di sviluppo. Nascevano le Partecipazioni statali e la Cassa per il Mezzogiorno, come surrogato di un mercato familistico asfittico, nel segno di una progettualità politica in sintonia con gli umori delle piazze, delle parrocchie, delle sezioni di partito, delle cellule sindacali. Adesso prevalgono i sondaggi asettici degli analisti, le passioni calde cedono il passo alle passioni fredde, le questioni di protocollo prevaricano quelle della modernità. Le emozioni ruotano attorno a bandiere di Club (non solo calcistici), degradando malinconicamente verso ambizioni di seconda mano.
Di fronte all’onda trendy che ha invaso poteri forti e semideboli, strattonati tra tecnocrazia europea e polverizzazione territoriale, la progettualità di sistema è entrata in sofferenza, prevaricata da interessi corporativi che fabbricano egoismi recintati, etica e ideologia da collettivo (il culto esasperato delle differenze genera l’irrazionale organizzativo).

Così si coltivano i surrogati di una memoria che svanisce e quando non risultano vane le iniziative intraprese si producono sigilli fragilissimi, facendo prevalere confusione e grigiore. Si premia il ruolo salvifico della conservazione che impedisce di tonificare il corpo sociale e irrobustisce le derive dell’integralismo aggressivo che fanno trionfare appetiti di potere consumati tra veleni e controveleni.
La higher class, la classe dirigente, si scalda per un punto di share, mentre la gente comune recita il rosario delle incertezze, spesso accompagnato dai vespri della paura e dai notturni delle ansie allucinogene. Sul fronte politico, scomparsi i consanguinei in linea retta, si fanno ostiche prove di dialogo con gli “uneasy cousins”, i cugini difficili, germogliati dallo scisma cattolico e socialcomunista. Nelle relazioni industriali la strategia “astensionista” del governo ha sostituito quella “interventista” del vecchio Ulivo, producendo posizioni quasi neutre nei processi di negoziazione. Sul versante legislativo è in crescita esponenziale il prontuario delle norme biodegradabili, subito cestinate dalle nuove maggioranze parlamentari.
Così, tra un’investitura popolare e la gestione dei conflitti, si avverte un vuoto di mediazione (talvolta assenza di leadership) che non può essere colmato con la magia di un presenzialismo senza primazia. Si materializza anche sul fronte interno quella “politica della sedia” che l’ambasciatore Quaroni imputava ai difetti della nostra politica estera.

Questa summa di simboli gibbosi è nel DNA dell’esperienza polista, caratterizzata da caotici percorsi di continuo logoramento. Nella sua espressione di governo, tra alchimie e millimetriche sottigliezze, ha prodotto “cartelli asimmetrici” (c’era una volta la cultura della coalizione!), attuando politiche di “appeasement” per addomesticare i problemi più che risolverli, per salvaguardare la stabilità più dello sviluppo. Fedele ad una ferrea consuetudine della politica italiana: prima vincere, poi filosofare. Devotamente proiettata nella seconda fase (quella del filosofare) alla sublimazione del potere d’interdizione di partiti verso altri partiti, di sindacati verso altri sindacati. Questo malcostume, che vanta insuperabili expertise, si giustificava un tempo con una forte componente ideologica, con una base organizzata, con appoggi esterni del mondo laico, cattolico, sindacale. L’era polista ha frantumato questo entroterra, ha introdotto i valori di un liberalismo utilitario molto diverso dal liberalismo comunitario del ‘48, mentre nei meandri delle sue liturgie ha esaltato l’uso dei veti incrociati. Col risultato di impoverire lo spirito di negoziazione e il sogno di un’alternanza con chiari progetti di contendibilità.
Purtroppo non ci sono più margini di manovra per l’antica “scuola” attendista del potere, per l’arte del rinvio che ci induce ad issare bandiere di periferia. Ad un recente convegno sindacale di metalmeccanici, un operaio ripeteva spesso sottovoce: «Sono morto tante volte, ma mai come questa volta». C’erano in giro un tasso elevato di incomunicabilità e un malessere sottocutaneo che vanno presi sul serio. Da subito, senza esasperare ulteriormente un lungo e tormentato psicodramma popolare.

Come si è giunti al crepuscolo dell’anima nazionale? Ad accettare un fronte così vasto di ripiegamento morale e umano? Forse è colpa del logorio prodotto dalle faide di potere senza fine. Forse è colpa della globalizzazione, che ci rende tutti confusi apprendisti in un mondo dominato dalle pratiche di delegittimazione delle istituzioni, dalle politiche di potenza espresse da monarchie feudali e repubblicane. Forse... Intanto viene scoperchiato il vaso di Pandora, con i malanni del degrado che creano nuovi panorami di scarsità, inaspriscono i conflitti sociali e frantumano gli obiettivi politici.
L’economia perde fette consistenti di mercato (la quota italiana nel commercio internazionale si è ridotta del 25%) e sente addosso il fiato di aree economiche europee meno ricche e più dinamiche, mentre si allarga la fascia del proletariato informatico e del lavoro non protetto (cococo, telelavoratori, interinali, lavoratori a progetto, occasionali, ecc.: circa un quarto del mercato in attesa di giustizia ed equità).
L’Istat denuncia un calo dell’occupazione nella grande impresa, conferma l’impoverimento del ceto medio (gli ex benestanti con reddito fisso) e ribadisce un dato ormai decennale; in Italia esistono due milioni di famiglie povere, per circa sei milioni di cittadini. Mentre il welfare continua a preoccuparsi poco delle vecchie e nuove povertà, preferendo assecondare le autotutele di nicchia. Mentre gli industriali investono nelle utilities (elettricità, telefonia, ecc.), settori di fatto amministrati e soggetti a tariffe, preferendo trattare con ministri e authorities piuttosto che esporsi ai rischi del mercato aperto.

Il viaggio dal nuovo paternalismo ad una moderna economia sociale di mercato è ancora lontano dall’approdo a posizioni di equilibrio condivise, capaci di colmare lo iato delle diseconomie, le frustrazioni del cambiamento che colpiscono gli eredi del ceto medio degli anni Settanta. C’è sempre chi guarda alla tradizione di Bismark e chi a quella di Beveridge, chi si sente folgorato dalla Reaganeconomics americana e dall’esperienza inglese della Thatcher e chi è affascinato dal culto dello Stato sociale della sinistra franco-tedesca. Questo strabismo umorale ereditato dai grandi vecchi del passato attraversa tutto il corpo sociale e tiene in vita un corposo nucleo di interessi conflittuali rappresentato da lobbies imprenditoriali (meno Stato in economia, meno aiuti in cambio di meno imposte) e lobbies di lavoratori autonomi e del pubblico impiego (più Stato, anche in economia, più forza e tutela dell’ordine costituito).
Quasi una radiografia delle regioni del Nord e di quelle del Sud. Nel mezzo di questa disputa freudiana, che identifica ancora lo statalismo con il meridionalismo, che annulla il fascino dell’impegno collettivo rendendo precaria l’adattabilità del sistema al dinamismo dei mercati, resta difficile semplificare e razionalizzare gli schemi di lavoro. Così come resta difficile proporre new entry o registrare ricambi negli assetti di controllo delle imprese, chiedere (e ottenere) lo scalpo di top manager e politici da bacheca o intimare il pentimento ai fautori del business feudale e dei poteri minimi di apparato. In breve, resta difficile fare una sintesi politica diversa dalla politica della lesina.
Lo shopping delle soluzioni imposte dal vento della globalizzazione offre esempi di letteratura poco edificanti: dalle crisi della grande impresa con obbligo di risanamento (Fiat, Alitalia) alla crisi “contemplativa” (Cirio, Parmalat), dallo spezzatino di scarso profitto attuato con le cessioni del gruppo Iri alla delocalizzazione portata avanti dalla piccola e media impresa, con trasferimento all’estero di filiere importanti dell’attività produttiva (ora vanno di moda i Paesi dell’Asia e dell’Est europeo). I giornali offrono testimonianza quotidiana della deindustrializzazione del sistema-Paese, dell’affannato modo di procedere di un capitalismo ibernato e senza capitali (un terzo del Made in Italy è già di proprietà estera).
E’ entrato in sofferenza il modello pubblico-privato che ha prodotto il miracolo economico del dopoguerra, sostituito da una fiera strapaesana animata da rissosi particolarismi. Ancora non c’è il lupo fuori dalla porta, ma le termiti lavorano da tempo dall’interno.
Senza costruire teoremi utopici, si attende un salto di qualità in cui il Paese deve mettere in gioco un po’ della sua anima giacobina, del suo cinismo senza morale. Il concreto futuribile chiede passi felpati verso la razionalizzazione dell’esistente. Per ridurre le ritualità che esaltano i conflitti e abbassare il tasso d’incomunicabilità tra distretti industriali, apparati istituzionali e soggetti sociali. Per recuperare il senso di unità di una comunità sgranata.

Dunque, il nuovo parte dal vecchio, dalla necessità di “fare sistema”, ora invocata a più voci. Parola d’ordine ineccepibile, che deve tener conto di un’elevata propensione all’ostruzionismo. Come coniugare crescita e rigore? Che risposte dare alle nuove sfide del capitalismo flessibile? Come si gestisce l’approccio ad una modernità laica, illuminista e cosmopolita nell’era del mercato globale e delle democrazie postnazionali?
Questi interrogativi “politici” sottintendono altri interrogativi “tecnici”. Perché gli industriali non investono, dipende dalle difficoltà dei conti economici o dalle banche che non concedono credito? Perché il salvadanaio delle fondazioni bancarie non partecipa al circuito dello sviluppo? Il rilancio industriale dev’essere fondato sul business o eterodiretto dalla politica? La rinnovata voglia di concertazione è compatibile con una labile rappresentanza sindacale, con il deficit del bilancio pubblico, con i programmi di risanamento aziendale? Il federalismo fin qui immaginato (disegni elaborati in sede politico-parlamentare e votati a colpi di maggioranza, rimuovendo ogni istanza di Assemblea costituente) è funzionale alla creazione di un sistema integrato?
Potremmo continuare, ma al fondo di ogni interrogativo troviamo un coriaceo intruglio edipico del nostro formicaio di umanità (con arroganze e timidezze estreme) e una serie di paradossi istituzionali che qualificano altrettanti punti di debolezza strutturale. L’imagination au pouvoir può attendere.
Se i consumi non riescono a dare nuovo dinamismo alla domanda interna (per l’impoverimento di un ceto medio che ha dato disdetta al contratto sociale che garantiva le sue certezze) bisogna stimolare la ripresa attivando il rilancio degli investimenti. Ecco un primo paradosso. Questa necessità si scontra con il risparmio parcheggiato in Bot e conti correnti oppure investito nell’acquisto di abitazioni da affittare con canoni elevati.
Sappiamo che il Governo dà priorità ai temi della crescita e della competitività. Ma un isolato “effetto annuncio” non basta, continua a dominare il pessimismo (confermato dal declassamento del rating sul debito pubblico operato da Standard & Poor’s), mancano prospettive di lungo periodo, molte aziende, anche con profitti soddisfacenti, risultano sottocapitalizzate.

Ci sono poi i paradossi amministrativi. Anni di deregulation, di accorpamenti ministeriali, di mobilità nel pubblico impiego, di trasferimento di compiti agli enti periferici hanno prodotto un aumento delle funzioni dell’Amministrazione centrale (un quarto dei procedimenti amministrativi – concessioni, autorizzazioni, ecc. dipende dal ministero dell’Economia e delle Finanze). A questo primato di furberie goliardiche va aggiunta la crescita esponenziale dei procedimenti regionali, provinciali, locali e il forte incremento del contenzioso tra Stato, regioni e autonomie minori, che concorre non poco a rallentare l’attività amministrativa. Non ci sono indici valutativi ufficiali del grado di disaffezione degli imprenditori rapportato alla complessità della macchina amministrativa. Il fenomeno tuttavia esiste ed è stato segnalato più volte dall’Autorità garante della concorrenza. Investe tematiche di cultura, costume e potere minuto di una classe dirigente che in prima battuta preferisce sempre mandare in scena se stessa.
Ecco un altro nodo centrale del sistema-Paese. Se si confronta la nostra classe dirigente con quella di altri Paesi europei (nel contesto Ue è inevitabile) si nota la diversità di background per parlamentari, leader, politici, pubblici funzionari. Da noi le esperienze professionali sono casuali ed estemporanee, manca un sentimento di responsabilità generale, una visione strategica dell’istituzione in cui si opera. Le formalità di accesso alla Pubblica Amministrazione e le palestre formative dei partiti hanno scarsa attinenza con l’attitudine a risolvere i problemi, con il valore sacro della neutralità delle istituzioni, con i princìpi d’intransigenza civile connaturati alla responsabilità d’ufficio. Con queste “approssimazioni di sistema” si fabbricano carriere costruite in coni d’ombra, obbedienti spesso a finalità eterodirette, talvolta determinanti nell’allontanarci dall’Europa (c’è un ruolo di rappresentanza istituzionale che va salvaguardato).
Ancora, l’evoluzione recente della galassia politica ha trasformato i vecchi partiti-organizzazione in partiti-movimento. Hanno guadagnato in snellezza e sui costi di esercizio, ma hanno perduto in qualità, essendo dominati dai boss del consenso organizzato che assumono importanza decisiva in un tempo caratterizzato da una forte volatilità del consenso.
Noi non abbiamo la tradizione Oxford-Cambridge della Gran Bretagna né le grandes écoles della Francia. Sono venuti meno anche i “professionisti della politica” che, allenati con una lunga pratica di governo, garantivano timonieri navigati alla macchina amministrativa.
L’esigenza di un’oculata politica delle risorse umane esiste anche nel mondo delle imprese dove si devono recuperare le ragioni dell’efficienza e della professionalità rispetto alla visione miope della riduzione dei costi.
Questa complessa realtà magmatica, trasversale ad ogni punto della rete-sistema, rallenta oggettivamente il processo riformatore e procura linfa al “complesso delle forme” e alla tentazione delle nicchie. Aspettando Godot, imprese, sindacati, università, Pubblica amministrazione cercano conforto nelle rendite di posizione, mentre l’eccessiva volatilità di una politica senza egemonia obbliga i cittadini a difendersi dai calembour, dalle amnesie istituzionali, dalle inefficienze quotidiane.

Si può spezzare questo circolo vizioso? Rifiutandoci di credere nell’abdicazione collettiva, pensiamo che si possano ancora trovare buone levatrici. Quando un Paese è alle prese con i problemi della stagnazione e dello sviluppo spuntano le ricette keynesiane. Non a caso si nota un nuovo attivismo dello Stato imprenditore attraverso la Fintecna (finanziaria che ha in cassaforte l’attivo della liquidazione Iri) e la nuova Cassa Depositi e Prestiti, che assolve ormai funzioni di merchant bank pubblica. Con un interrogativo doveroso: la pesante situazione del debito pubblico permette ancora di tenere in vita uno Stato imprenditore?
Il neo-trasversalismo dei movimentisti di ogni bandiera deve dimostrare di avere convinzioni e risorse autonome per creare nuove emozioni e nuove mobilitazioni, tenendo conto che nella società moderna l’immagine comportamentale prevale sull’assetto normativo. Per ampliare la percezione collettiva di uno stato di necessità, il bisogno di un senso comune di massa con fede riformista. Per trovare nella forza delle cose la determinazione a fare riforme per fare sistema. Non è necessaria una seconda riforma gregoriana del calendario giuliano. Basta l’impiego ragionato di tecnologie, organizzazione, formazione, management pubblico e privato.
Dunque, la riformabilità del sistema non può essere affidata agli umori elettorali, ai tavoli triangolari, alle verifiche-lifting, alle cure dei Dpef. E’ un problema politico e pre-politico di lungo corso, per l’esaurimento della borghesia industriale e la nostalgia di una rappresentanza (politica e sindacale) che in passato ha creato solidi blocchi sociali.
Le tematiche dell’economia-mondo obbligano a coniugare il locale con il globale, al servizio di un progetto politico impegnato a dare nuove motivazioni all’eroe borghese. Incominciando magari con due segnali precisi di buona volontà: la riforma della Finanziaria per porla al riparo dai nefasti riti lobbistici e predatori e la riforma della contabilità pubblica, Stato, regioni, province, comuni. Cambiando regole per cambiare costume. Restituendo a ciascuno di noi uno spicchio di Italian dream che non poggi solo su chiacchiere eleganti, segnale esplicito di una visione iconoclasta della vita individuale e collettiva.

 

   
   
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