Settembre 2004

Avanzando nel passato

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La stangata
Flavio Albini  
 
 

 

 

 

Ha pesato
l’andamento dei conti, sullo sfondo di un debito che non cala e di uno dei profili
demografici più sfavorevoli
del pianeta.

 

Retroscena. Parecchi avevano previsto che sarebbe accaduto, eppure tutti sono stati presi in contropiede. Quando Standard & Poor’s (S&P’s) ha annunciato il voto sulla solvibilità di quel debitore da 1.400 miliardi che è l’Italia, il problema non è stato chiarire perché lo ha fatto, ma perché lo ha fatto in quel preciso momento, nel pieno del lavoro del governo su tre fronti: l’attuazione della manovra sui conti del 2004; il piano di tagli alle tasse e alla spesa pubblica 2005-2007; il varo della riforma delle pensioni da far scattare nel 2008. Ancora un paio di settimane, e il quadro sarebbe stato più chiaro.
Ma S&P’s non ha atteso, e gli italiani hanno subito pensato che sia stato un puro e semplice problema di concorrenza. Nel 1993 fu l’altra grande agenzia di rating, Moody’s, a declassare per prima l’Italia (il 25 febbraio) e guidare così il mercato. S&P’s si adeguò il 2 marzo successivo, ma la sua presa di posizione non ebbe alcun impatto. Ora la terza attrice, Fitch, aveva iniziato a lanciare segnali in direzione di Roma. E S&P’s ha deciso che non era il caso di farsi anticipare.

Ma di concreto c’è dell’altro. Sostiene Konrad Reuss, capo dei rating degli Stati europei per l’agenzia londinese: «La decisione non si spiega con nessun evento specifico». Ma quella che definisce «una tessera del nostro mosaico» c’è, ed è la rinuncia del commissario europeo Mario Monti a prendere la guida dell’economia del nostro e suo Paese. Reuss minimizza, sostenendo che «è stato soltanto un pezzo del puzzle», indicativo tuttavia di come il partito della spesa pubblica e assistenziale sia più forte a Roma: il che avrebbe convinto Monti a fare un deciso passo indietro. Anche se Ecofin non aveva estratto per noi il cartellino giallo. Anche se Moody’s non ci aveva declassato.

Cronologia. 1 luglio 1991. Moody’s. Anche la prima bocciatura di questa società giunse nel mese di luglio: l’Italia di allora (a Palazzo Chigi sedeva Giulio Andreotti, mentre il ministero del Tesoro era retto da Guido Carli) perse la tripla A, cioè il livello più alto di giudizio ottenuto nel 1986. L’indicazione passò ad Aa1, mentre oggi la valutazione della stessa agenzia è Aa2.
13 agosto 1992. Moody’s. Ulteriore downgrading dell’Italia, passata da Aa1 ad Aa3. Sui mercati e sulla lira si abbatte un terremoto. Alla poltrona di premier è giunto da soli due mesi Giuliano Amato, mentre al Tesoro siede Piero Barucci. Tra le motivazioni, le difficoltà dell’Italia nel processo di convergenza monetaria in Europa.
2 marzo 1993. Standard & Poor’s. Il giudizio di questa società passa da AA+ ad AA. Il ministro del Tesoro è sempre Barucci. Neanche il premier è cambiato. Oltre ai conti pubblici, il richiamo è esteso a Tangentopoli: «L’ondata di indagini sul fenomeno della corruzione di questi ultimi mesi ha coinvolto personaggi di alto livello della leadership politica».

6 maggio 1998. Standard & Poor’s. Fino a questa data, S&P’s consegna due giudizi ai Paesi europei: uno sul debito in valuta estera (per l’Italia AA), l’altro su quello in valuta locale (per noi AAA). Il ministro del Tesoro del governo Prodi è Carlo Azeglio Ciampi. Il 5 maggio l’agenzia fa convergere i due giudizi, affidando al nostro Paese soltanto AA. Motivazione, la perdita di flessibilità nella politica monetaria.
7 luglio 2004. Standard & Poor’s. Mercoledì infausto: il verdetto giunge alle tre di pomeriggio, quando quasi nessuno se lo aspetta. Più attenta ai tempi del mercato che alle alchimie della politica, S&P’s declassa la Repubblica italiana sul piano dell’affidabilità nel pagare i debiti. Senza aspettare, dopo un anno e mezzo di avvertimenti, altre decisioni o esitazioni nel governo e in Parlamento. Il giudizio sul nostro Paese da parte della prima agenzia di rating al mondo è il più basso da quando, nel 1988, il Tesoro la chiamò per avere valutazioni indipendenti a beneficio di chi acquistava titoli di Stato.
Il livello, certamente, resta lontano da quello delle obbligazioni ad alto rischio. Ma col voto AAmeno sulle cedole a lungo termine, l’Italia è un gradino sotto quella AA assegnatale (al ribasso) nel 1993, nel pieno dell’emergenza politico-finanziaria dell’epoca. Quest’ultimo rating è al livello del Giappone, il Paese zavorrato dallo stock debito più pesante del mondo. Nella zona euro, solamente la Grecia è oggetto di un giudizio inferiore. Insieme con il rating dello Stato, scende anche quello delle Poste italiane (il Tesoro ne è azionista al 70 per cento) e quello di vari enti locali: Emilia Romagna, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Val d’Aosta, fra le regioni, e Bologna, Milano, Brescia, Venezia e Firenze, fra i comuni. E si tratta della prima frustata a un Paese europeo da quando esiste la moneta unica.

Commenti. Ha pesato l’andamento dei conti, sullo sfondo di un debito che non cala e di «uno dei profili demografici più sfavorevoli del pianeta»: ovvero, di una spesa per le pensioni che sarà onerosa anche in futuro. Gli oneri previdenziali salgono (0,2 per cento del Pil, ma giunti al 14,4 per cento solo nel 2003). E scivola fuori linea il deficit: anche con la manovra correttiva dei tagli per 7,5 miliardi di euro, il disavanzo crescerà quest’anno del 3,1 per cento e lì resterà «nel medio termine». E pur con le nuove privatizzazioni, il debito scenderà dal 106,2 per cento al 105,6 per cento, per restare su questo livello per il resto del decennio.
Si aggiungono le incertezze della politica (di maggioranza, ma anche di opposizione) e i tagli delle tasse con raffronto con i tagli delle spese: previsto che il deficit schizzerà al 4 per cento nel 2005-2006. Serve dunque un colpo d’ala. Servono decisioni, e non mediazioni. O sarà crollo.

 

   
   
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