Settembre 2004

che sud fa

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Un nuovo alibi
M.B.  
 
 

 

 

 

Il Sud ha accusato ritardi sul piano economico
e sociale che smentiscono quanti vogliono
ritenere superata la questione delle aree meridionali.

 

Superati gli anni Ottanta, quelli dei decantatissimi “progetti integrati” tra regioni meridionali, finanziati dalla Cassa per il Mezzogiorno, e che non portarono al resto di niente, se non allo sperpero di altro denaro pubblico, si proclamò la fine della “questione meridionale”: il Sud – si disse – va agganciato all’Europa, pur sapendo che era rimasto ancora sganciato dall’Italia.
La “grande questione” fu diluita nelle problematiche europee, che coinvolgevano altre regioni continentali, dal Borinage allo Schleswig-Holstein e ad alcune fasce meridionali della Francia, mentre si profilava, quasi per contrappasso, una “questione settentrionale” italiana, non proprio declamata ad alta voce, ma pur sempre messa in rilievo dall’eterno piagnisteo di un Nord onnivoro, protetto da un esteso assistenzialismo e privilegiato dal conservatorismo sindacale.

Sappiamo bene com’è andata a finire: i progetti finanziati dall’Ue, fino ad “Agenda 2000”, che con gli “Obiettivi 1 e 2” si proietta fino al 2006, hanno avuto qualche successo, ma non hanno stravolto una situazione; il deficit di imprenditorialità non è stato colmato (non era possibile colmarlo nel giro di una generazione); la vecchia, rugginosa “forbice” ha continuato ad allargarsi, e il Nord ha continuato a lamentare inesistenti dissanguamenti per finanziare il vuoto a perdere del Sud, da Roma ladrona ai “terrunazz” che bivaccano nelle piazze paesane: mentre, in realtà, i dati più recenti rivelano che un terzo dei pensionati quarantenni, con introiti medi di oltre 16 mila euro annui e con doppio lavoro, sono stanziati proprio nel Nord piagnone che produce e che lavora, e che soprattutto munge lo Stato a scapito del resto del Paese.
E poiché mai, come nella storia dei rapporti tra le “due Italie”, i fatti si sono ripetuti e sovrapposti, adesso sta emergendo il nuovo alibi finalizzato al disimpegno dello Stato nei confronti delle aree del Mezzogiorno: la “questione”, si dice, “è mediterranea”!
La novità, secondo gli spiriti magni dell’economia italiota, è proprio qui: il Sud è immerso nel Mediterraneo, ha di fronte e a lato un campo sterminato di lavoro, lì sono prevedibili le sue fortune, i suoi impegni e in ultima analisi le sue ragioni di sviluppo.

Per il Sud, questa è cosa vecchia. Come ha intelligentemente notato Giuseppe Galasso, «il suo problema dai riformatori del Settecento in poi è stato, invece, proprio il distacco dal Mediterraneo e l’aggancio all’Europa: così per Genovesi e per Galanti, così per Fortunato e per Nitti, così da ultimo per Saraceno, Rossi Doria, Compagna».
Quel che abbiamo sul fronte meridionale, cioè l’Africa, e su quello orientale, vale a dire i Balcani, è ben visibile: da una parte, o Paesi che sono direttamente concorrenti col Mezzogiorno nel campo delle produzioni a prezzi stracciati, oppure Paesi con regimi autoritari, scarsamente disposti alle collaborazioni internazionali, oppure Paesi con regimi che travestono la politica con i dettami religiosi intransigenti e conservatori, oltre che devastanti per le guerre interne e interetniche che conducono senza soluzione di continuità da almeno dieci anni a questa parte.
Neanche prendiamo in considerazione la prospettiva del Vicino Oriente e del suo Mediterraneo, sul quale pure si affacciano israeliani e palestinesi, che hanno a ridosso Paesi con forti spinte integraliste, alle quali non sfugge ormai neanche quella che fu la laicissima Turchia nata dalle ceneri dell’Impero Ottomano e cresciuta con l’ideologia filo-occidentale di Kemal-Atatürk.

Ad est del Sud persiste l’eterno problema balcanico, dove i sogni di una Grande Serbia confliggono con quelli della Macedonia, della Bosnia, dell’Albania, con le reciproche pulizie etniche tutt’altro che cessate, con gli espansionismi mai messi da parte, con i corti circuiti provocati dai muri culturali e religiosi tra musulmani e ortodossi.
Sì, il campo del lavoro è sterminato: ma soltanto per le organizzazioni internazionali che dovrebbero intervenire con decisione e con autorevolezza, per portarvi ordine, sicurezza, ripristino di istituzioni democratiche: compito che non spetta agli imprenditori, ai produttori e agli esportatori del Mezzogiorno.
I quali incontrano serie difficoltà, come dire, geometricamente variabili, nel senso che ogni Paese presenta aspetti diversi anche per uno stesso problema. Chi alimenta le ipotesi di una “antropologia mediterranea” unica, uniforme, percepibile in uno scacchiere che è stato uno dei poli planetari di civiltà e di cultura, in realtà dà corpo all’alibi di cui abbiamo parlato: il “lago Mediterraneo” fu un unicum soltanto al tempo dell’Impero romano, quando leggi, lingua e civiltà furono veicoli di unità, e seppero coniugare arte e giurisprudenza, commerci e relazioni umane. Poi, fu già sfacelo, e in seguito vicenda di colonialismi, e infine di dittature, di lotte tribali, di interessi contrapposti (interni ed esterni) per il possesso delle materie prime. «Un caleidoscopio di realtà e di storie diverse», sottolinea Galasso. Realisticamente. Nel senso che non offre alcuna possibilità di superare stratificazioni storiche di radici profonde che non consentono sconti a nessuno, e meno che mai al Sud d’Italia, ma «esigono un respiro altrettanto complesso della storia che le affronta».

Questione europea, o questione mediterranea? O la vecchia, ma non superata, questione meridionale? Sostiene lo storico: lo spessore della storia è uno zoccolo duro che esige sia scalpellini pazienti che innovatori fantasiosi e rivoluzionari per essere modificato. Se il secolo nuovo non se ne rende conto, è meglio restare saldamente ancorati al secolo passato. Con buona pace dei creatori di alibi come lapalissiane catene di Sant’Antonio.

Che una “questione meridionale” sopravviva nella pienezza dei suoi problemi è fatto di evidenza solare. L’economia meridionale rivela la sua problematicità non soltanto in linea endogena, ma anche al confronto con quanto si è verificato, ad esempio, in Paesi come la Grecia o l’Irlanda: anche qui la congiuntura internazionale, e in particolare quella europea, ha fatto pesare i propri effetti, ma le aree depresse di questi Stati o ne hanno risentito in misura marginale, o non ne hanno risentito affatto. Risultato: lo sviluppo di quelle aree ha registrato progressi notevoli, mentre da noi il Sud ha accusato ritardi sul piano economico e sociale che smentiscono quanti vogliono ritenere superata, appunto, la questione delle aree meridionali.
Si ponga attenzione alle cifre del Prodotto interno lordo, che sono i migliori – i più chiari – indicatori della situazione complessiva italiana: secondo i calcoli di Svimez, per il 1981-2003 è stato registrato un tasso medio d’incremento dell’1,8 per cento per il Centro-Nord e dell’1,6 per cento per il Sud. Che cosa significa? Vuol dire che il Mezzogiorno ha avuto un proprio sviluppo, che ha espresso una quota di imprenditorialità al passo con i tempi, che ha conquistato mercati interni ed esteri; ma anche, e soprattutto, che è venuta meno una visione strategica sul futuro del Sud e sulle scelte concrete conseguenti: il sistema-Paese non ha attuato alcuna aggressiva e pacifica rivoluzione, volta a conquistare tempi, spazi e impulsi tali da ridurre se non del tutto, almeno in buona parte, i divari che hanno contraddistinto la storia dell’economia italiana e meridionale. Significa che, al di là di pure e semplici operazioni di maquillage, è reale il rischio dell’arretramento competitivo dell’intera Italia, che non sa, o non vuole, recuperare oltre un terzo del proprio territorio al rilancio socio-economico.

L’Italia vuol essere un Paese moderno, e per questo vanta un sesto o un settimo posto tra i Paesi più industrializzati del mondo occidentale. Ma non ha saputo, o voluto, darsi un meridionalismo moderno: allora è lecito chiedersi quale Italia occupa quel posto, perché la scelta conservatrice e non pacificamente e aggressivamente rivoluzionaria; e che senso ha parlare di “obiettivi di coesione” quando della politica industriale pare si siano dimenticati tutti quanti, quando di criteri di priorità degli interventi neppure si parla più, quando sono tramontate nella palude della più squallida affabulazione le promesse di nuove Californie e di splendenti Silicon Valley, quando gli istituti di credito meridionali sono passati nella proprietà di quelli centro-settentrionali, quando la politica dell’ambiente, che nel Sud ha un’enorme rilevanza, è negletta, quando il turismo è fortemente vincolato alla sola stagione estiva (nessuno ha imparato la lezione della Liguria sul tempo libero della terza età nelle altre stagioni?), quando alla fola del Sud da agganciare all’Europa succede quella del Sud da agganciare al Mediterraneo... Quando proporranno di agganciarlo alla Cina?

 

   
   
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