Settembre 2004

Che italia fa

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Tre nodi gordiani
Daniele Puppo  
 
 

 

 

 

Qualche segnale
di ripresa c’è,
e riguarda gli
investimenti delle grandi imprese
e un certo spirito
di riscossa delle piccole e medie aziende.

 

Il punto debole dell’Italia si chiama competitività. Un punto che si traduce, nei fatti e nei numeri, in un progressivo arretramento dei prodotti nazionali e delle quote collocate sui mercati internazionali. Leggiamo le cifre dal 1995 al 2003: a prezzi costanti, si è passati da una quota sul commercio mondiale del 4,5 per cento ad una del 3,9 per cento nel 1998, per finire al 3 per cento del 2003. Con l’ulteriore complicazione del concentramento delle nostre esportazioni in settori maturi (quelli del cuoio e delle calzature, del mobile e del tessile), che nel complesso rappresentano poco più di un decimo degli scambi mondiali. Siamo invece assenti proprio dove la domanda internazionale si espande a macchia d’olio e più rapidamente, vale a dire nella produzione di beni tecnologicamente avanzati.

Ma quali sono gli handicap sui quali agire? In primo luogo, la scarsa produttività; poi, la ridotta dimensione delle imprese, che limita la produttività e frena la ricerca e l’innovazione, e di conseguenza la possibilità di conquistare quote di mercato; infine, l’impatto del prezzo del petrolio. Non a caso, il Governatore della Banca d’Italia ha sostenuto che sullo sviluppo della domanda attesa influisce la perdita di competitività legata allo scarso incremento della produttività e dell’aumento di costi di produzione: non è la prima volta che viene puntato l’indice sulla produttività, quella che un giorno era un punto a favore per il nostro Paese. Essa ha continuato ad arretrare, soprattutto nel settore industriale, sul versante della competitività. Il suo aumento negli anni Novanta del secolo scorso e ancora più nettamente nella seconda metà del decennio «si è situato al di sotto dei ritmi osservati nelle altre maggiori economie industriali».
Anche qui, ad osservare i numeri, si scorge un crinale: la produttività del lavoro è diminuita negli ultimi due anni, mentre nel quinquennio 1991-1995 la produttività totale dei fattori era cresciuta dello 0,9 per cento all’anno; nella seconda metà del decennio cominciava a scendere allo 0,5 per cento, mentre negli ultimi tre anni la variazione era negativa per 0,7 per cento in media ogni anno. Le cause? Scarsi investimenti in nuove tecnologie, basso grado di esposizione alla concorrenza internazionale, dimensione ridotta delle imprese.
Siamo cambiati anche su un altro punto, e sempre in peggio. Si è accentuata la tendenza alla riduzione della dimensione delle imprese, già in atto alla fine degli anni Settanta, e il divario rispetto ai principali Paesi industrializzati si è ulteriormente ampliato. Il numero medio degli addetti delle aziende italiane, sia nell’industria sia nei servizi, risulta (in un dato del 2001) inferiore a quattro: al netto di due milioni e 400 mila imprese con un solo dipendente, la dimensione media è di 8 addetti, contro i 13 della Francia e i 15 della Germania e del Regno Unito.
Le conseguenze del nanismo imprenditoriale sono diverse: limitano l’aumento della produttività, la ricerca, lo sviluppo di prodotti innovativi e tecnologicamente avanzati, la conquista di nuovi mercati. La bassa crescita e la ridotta competitività hanno messo in affanno anche le imprese medio-grandi e la fotografia realistica di questo affanno in un numero: nel 2003 le ore di Cassa integrazione sono state pari al lavoro prestato da 130 mila lavoratori a tempo pieno.
A latere, l’impatto dell’euro forte: negli ultimi due anni ha inciso l’apprezzamento del cambio. L’adesione alla moneta unica ha permesso di abbassare i tassi di interesse e ha contribuito alla stabilità del sistema finanziario; ciò, tuttavia, ha fatto venir meno la pratica diffusa di correggere le inefficienze e le difficoltà competitive della nostra produzione con gli aggiustamenti di cambio. Ora servono altre correzioni. Una sinossi delle cifre italiane ci offre un panorama abbastanza completo della situazione. Il tasso medio annuo di sviluppo del nostro Paese negli ultimi cinque anni è stato pari al 2,4 per cento: lo stesso della Germania, e nettamente al di sotto della media europea. L’incremento medio della produzione industriale nello stesso periodo ha registrato un calo del 5 per cento. Il calo delle esportazioni italiane nel 2002 è stato del 3,4 per cento; nel 2003 è stato del 3,9 per cento. La produttività del lavoro tra il 1995 e il 2003 è scesa dello 0,7 per cento (è diminuita negli ultimi due anni). La dimensione media delle imprese italiane è pari a 8 unità. La variazione della produttività totale dei fattori nell’ultimo triennio registra un saldo negativo dello 0,7 per cento. La quota italiana sull’export mondiale nel 2003 è stata del 3 per cento, con un calo di un punto e mezzo rispetto al 1995.
Tutto nero? Non proprio. Qualche segnale di ripresa c’è, e riguarda gli investimenti delle grandi imprese e un certo spirito di riscossa delle piccole e medie aziende. Le prospettive dello sviluppo sono legate all’esperienza di un cosiddetto “nucleo redditizio” di 3.700 società, da prendere come esempio: si tratta di imprese prevalentemente familiari, ben capitalizzate, attive nei settori tradizionali e in nicchie di mercato. La loro crescita, gli elevati investimenti nel settore della ricerca, l’espansione in segmenti contigui di attività, una maggiore penetrazione nei mercati internazionali possono dare un contributo importante al rafforzamento delle prospettive di sviluppo del nostro sistema economico, anche insegnando come crescere e aggregarsi.

 

   
   
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