Settembre 2004

L’Europa utile

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Quasi un oggetto misterioso
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

Ha avuto il suo peso, in negativo, l’altra faccia
dell’Europa, la faccia politica, su cui qualche critica è più che legittima.

 

Lo confessiamo, cari lettori: dopo aver appreso i risultati delle elezioni europee di giugno ci siamo chiesti se non fosse il caso di cambiar titolo a questa rubrica. Si chiama, da oltre tre anni, “Europa utile”. Ma forse – ci siamo detti – sarebbe il caso di allungare il titolo, di chiamare il nostro appuntamento “Europa utile, ma sconosciuta”.
Alcuni dati e altri elementi delle elezioni europee di metà giugno rendono infatti legittimo il dubbio che una buona parte dei 455 milioni di cittadini dell’Unione europea, o almeno dei 350 milioni che, tra loro, hanno diritto al voto, sappia poco, forse niente di quanto l’Europa integrata abbia fatto, stia facendo e prometta di fare per migliorare le loro condizioni di vita. Diversamente non sarebbe facile capire perché soltanto il 49,1% degli elettori (pari a poco più di 159 milioni di persone) sia andato alle urne e perché nei dieci Paesi appena entrati (dal primo maggio) nell’Unione europea la percentuale dei votanti si sia fermata addirittura al 26,7 per cento. E sarebbero difficili da capire episodi come l’imprevista spettacolare affermazione, in Gran Bretagna, di un partito cosiddetto “indipendentista” addirittura schierato per l’uscita del Paese dall’Europa comunitaria; e come la mancata elezione al Parlamento europeo di Valéry Giscard d’Estaing, che è un ex presidente della Repubblica francese e anche – fatto che più avrebbe dovuto interessare agli elettori – presidente della Convenzione europea cui si deve la prima bozza di quella Costituzione dell’Unione finalmente varata, dopo due anni e mezzo di logoranti confronti, dal Consiglio europeo del 18 giugno.

E’ singolare, oltretutto, che questo sia avvenuto negli stessi giorni in cui la Commissione europea diffondeva un opuscolo in cui molti erano gli argomenti che avrebbero dovuto indurre gli elettori ad esprimere, con un voto di massa, la loro fiducia e il loro consenso verso l’Europa. In questo opuscolo, intitolato Puntare alla crescita. L’economia dell’UE, si ricordava tra l’altro che i primi dieci anni di vita del Mercato Unico (1992-2002) avevano regalato agli uomini e alle donne dell’Europa comunitaria 900 miliardi di euro di ricchezza in più, pari a 6.000 euro per ogni famiglia, avevano creato inoltre 2 milioni e 500 mila nuovi posti di lavoro e, nello stesso periodo, avevano dato a 15 milioni di persone l’opportunità di spostarsi da un Paese all’altro dell’Unione per cercare e trovare un lavoro, per studiare, per darsi una nuova residenza.
Sono dati che avrebbero dovuto far riflettere molti elettori al momento del voto. Ma a quanti erano noti tra i 455 milioni di cittadini dei 25 Paesi e tra i 350 milioni di elettori? A pochissimi, temiamo. E a pochissimi, temiamo, erano noti altri dati che erano contenuti nell’opuscolo e che avrebbero dovuto, o almeno potuto, condizionare l’andamento del voto.
Ad esempio, i seguenti. Nell’Europa dell’inizio dell’integrazione, cioè del 1958 (l’anno dei Trattati di Roma e della nascita della Comunità Economica Europea), solo un cittadino su 6,6 possedeva un’automobile, oggi è uno su due. Quarantasei anni fa sul vasto territorio occupato dai 25 Stati dell’attuale Unione c’erano 5 mila chilometri di autostrade. La rete autostradale odierna dell’Europa comunitaria si estende per 52 mila chilometri. Da allora (1958) ai giorni nostri (2004) si è moltiplicato di trenta volte il numero delle persone che, nell’Unione, viaggiano in aereo.
E c’è tanto altro, anche di più e di meglio. L’Europa disunita di quarantasei anni fa soffriva di un’agricoltura in crisi, di un’industria e di un commercio in difficoltà. Oggi è la seconda potenza economica del mondo (dopo gli Stati Uniti). Ed è impegnata per diventare la prima entro il 2010 (è l’obiettivo posto con la cosiddetta “strategia di Lisbona” varata nel marzo del 2000 da un Consiglio europeo svoltosi nella capitale portoghese). Già oggi 32 tra le 100 maggiori imprese mondiali sono dell’Unione Europea. E sono dell’Unione 39 delle maggiori banche commerciali del mondo e 27 dei marchi internazionalmente più prestigiosi.
Grazie all’Unione Doganale prima e al Mercato Unico poi gli scambi commerciali all’interno dell’Europa comunitaria e con il resto del mondo hanno beneficiato di crescite spettacolari. Già nel 1970 il volume degli scambi tra gli Stati membri dell’Europa Comunitaria si era moltiplicato di sei volte rispetto al 1958, mentre gli scambi con il resto del mondo erano triplicati.
E successivamente la tendenza alla crescita è continuata. Nel 1992 le esportazioni dall’Unione europea verso Paesi posti in altre zone del mondo rappresentavano il 6,9 per cento del PIL. Nel 2002 erano salite all’11,2 per cento. Negli ultimi anni ci sono stati (e speriamo ci saranno ancora) periodi in cui l’espansione dell’economia di molti Paesi europei e dell’Unione nel suo complesso è stata più veloce di quella degli Stati Uniti.

L’euro, tanto vituperato (anche nel nostro Paese), per certi aspetti non del tutto senza ragione (sebbene gran parte dei problemi creatisi con l’avvento della moneta unica siano dovuti alla speculazione), ha oggi una presenza e una forza internazionali (650 miliardi in circolazione mondiale) superiori a quella del dollaro (620 miliardi). Ha messo in archivio i rischi di cataclismi valutari sofferti in passato da molte economie europee. Ha permesso la riduzione dei tassi d’interesse consentendo ai governi di spendere meno per pagare il debito pubblico e, in taluni casi, anche per attuare riduzioni fiscali. Ha reso gli investimenti più convenienti per le imprese e – grazie all’abbassamento dei mutui – ha offerto a un maggior numero di cittadini la possibilità di acquistare un appartamento.
L’elenco dei benefici che gli europei hanno avuto e continuano ad avere dall’Europa non finisce qui. L’opuscolo della Commissione contiene molti altri dati di grande interesse. E tanti altri dati ancora i nostri lettori li hanno trovati nel racconto delle imprese dell’Europa utile che facciamo su queste pagine da tre anni, documentando e analizzando quanto i programmi dell’Unione europea fanno per la difesa della nostra salute, dei nostri diritti di consumatori, per battere la disoccupazione, per diffondere forme di apprendimento lunghe tutto l’arco della vita, per proteggerci dalla pubblicità disonesta, per mettere in grado il cinema europeo di far fronte alla dominante concorrenza americana, eccetera, eccetera: un lungo, lunghissimo eccetera eccetera che porta, come risultato totale, a un’Europa utile non grande ma enorme e con un numero di successi tali da rendere non solo giusto ma doveroso l’apprezzamento.
Eppure, con il voto di giugno questo apprezzamento non c’è stato. Cerchiamo di capire perché è avvenuto. Nelle campagne elettorali di molti Paesi l’Europa è stata un titolo sulle schede e sui manifesti e niente o poco di più. I partiti infatti quasi ovunque hanno chiamato i cittadini a giudicare non le istituzioni e le politiche dell’Unione ma i singoli governi e le loro politiche nazionali e internazionali. Così in Italia (dove pure la percentuale dei partecipanti alla consultazione è stata sostenuta) si è votato pro o contro Berlusconi, in Germania (punendo il partito del cancelliere Schroeder) contro la politica fiscale, in Inghilterra (punendo il primo ministro Blair) contro i costi economici e in vite umane dell’alleanza militare con gli Stati Uniti, in Spagna (premiando il partito del leader socialista Zapatero) per ribadire il consenso al ritiro delle truppe dall’Iraq.

Ha avuto il suo peso – in negativo, s’intende – anche quella che potremmo definire l’altra faccia dell’Europa, la faccia politica, su cui qualche critica è più che legittima (a proposito, ad esempio, della sua difficoltà ad assumere posizioni concordi sulle crisi internazionali), ma della quale, stranamente, sia la maggior parte dei mezzi di comunicazione che molti uomini politici tacciono o minimizzano i meriti, primo tra tutti quello di garantire, da quasi sessant’anni, una pace e una collaborazione solide tra Paesi che – come la Francia e la Germania – per secoli avevano cercato la soluzione dei loro problemi in guerre di sterminio.
Alla diffidenza, solo parzialmente motivata, verso l’Europa politica si è aggiunta in quasi tutti i dieci Paesi ammessi nell’Unione il primo maggio la paura di dover pagare con pesanti sacrifici economici la coabitazione con i Paesi che già in precedenza facevano parte dell’Europa comunitaria. Questa paura era sostanzialmente infondata. Qualche sacrificio è già stato pagato dai nuovi membri prima dell’ammissione nell’Unione e altri dovranno essere accettati nei prossimi anni: con il compenso, tuttavia, di una crescita del PIL di almeno l’1% all’anno e la creazione, entro il 2010, di 300 mila nuovi posti di lavoro. In definitiva, messi a confronto numeri in rosso e numeri in nero, si è trattato e si tratta di un discreto affare, con più vantaggi che svantaggi.
Ma quanti tra gli elettori dei dieci Paesi lo sapevano? E allargando il discorso alla totalità dei 455 milioni di cittadini e 350 milioni di elettori dell’intera Unione europea, quanti, tra loro, sapevano e sanno che accanto a un’Europa politica che funziona così così c’è un’Europa utile che funziona bene, anzi ottimamente, e che, dunque, messi a confronto i numeri in rosso e i numeri in nero, i vantaggi offerti ai cittadini dall’Unione europea sono in maggioranza, in nettissima, schiacciante maggioranza rispetto agli svantaggi?
Pochissimi, dato che gli opuscoli della Commissione europea arrivano a qualche migliaio di addetti ai lavori e dato che i dati contenuti in queste pubblicazioni solo in minima parte e raramente sono riportati e messi in risalto dai mezzi di comunicazione.

Questa, secondo noi, è la causa principale dell’astensionismo di giugno, anche se non sono da trascurare i contributi che al diffuso disinteresse per le elezioni europee hanno dato gli stravolgimenti, a fini di politica interna, del significato del voto e anche le prevenzioni contro gli insuccessi, o presunti tali, dell’Europa politica. Ma se così fosse – e i motivi per crederlo, come si è visto, non mancano – il danno sarebbe riparabile. Basterebbe un’adeguata, diffusa informazione sull’Europa utile. Se ci fosse, nel 2009, quando si voterà di nuovo per il Parlamento europeo, potrebbe finalmente arrivare la corale manifestazione di apprezzamento e di fiducia mancata quest’anno.
E’, lo sappiamo, più facile a dirsi che a farsi. Ma proprio per questo occorre impegnarsi al massimo perché la comunicazione su quanto l’Europa utile ha fatto, fa e farà raggiunga la gente. Tra le vie maestre per il conseguimento dell’obiettivo (stabilito dalla “strategia di Lisbona”) del primato mondiale dell’economia europea è stata indicata la diffusione della conoscenza. Questa è anche la via maestra da seguire per far sì che l’Europa utile cessi di essere, per i cittadini, un oggetto misterioso o quasi.
Con pubblicazioni a più larga diffusione e più accessibili nel linguaggio, non stancandosi di ottenere il coinvolgimento dei mezzi di comunicazione, anche della scuola, con iniziative promozionali, impiegando – soprattutto a beneficio dei giovani – le nuove tecnologie, la conoscenza di quanto l’Europa utile ha fatto o sta facendo deve arrivare all’attenzione e al giudizio della totalità o della grandissima maggioranza dei 455 milioni di uomini e di donne che risiedono nell’Unione europea: per creare finalmente un diffuso rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni comunitarie; forse per rendere perfino possibili sollecitazioni popolari che aiutino o addirittura impongano colpi di acceleratore agli ancora lenti ritmi di marcia dell’Europa politica.

 

   
   
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