Settembre 2004

Europa a 25

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Più larga
uguale più grande?
D.M.B.  
 
 

 

 

Quest’Europa dei pentimenti ipocriti e dell’opulenza diffusa, prima di giudicare
l’America,
dovrebbe rimettere ordine ed
equilibrio in casa propria.

 

Il primo maggio è la data che ha visto il Vecchio Continente compiere un salto decisivo verso una più compiuta integrazione europea. Ma il paradosso della novità sembra essere questo: che, mentre l’Unione europea si fa geograficamente più ampia, l’unità politica degli europei appare più che mai problematica.
Accenniamo soltanto ad alcuni problemi irrisolti. Il più visibile è rappresentato dalle polemiche, indecisioni e ambiguità del Trattato costituzionale, faticosamente elaborato dalla Convenzione presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, e in seguito non approvato (per non dire più esplicitamente “bocciato”) da diversi Stati membri. Com’è stato notato, discende e discenderà da qui una sequela di scompensi che rischieranno di paralizzare, chissà per quanto tempo ancora, il funzionamento dell’Unione allargata.

La spada di Damocle del veto, dell’assenza cioè del voto a maggioranza, resterà sospesa sulle prossime roventi decisioni comunitarie. Che, fra tante altre, sono queste: associazione della Turchia collegata al rapporto europeo con l’Islam moderato (con alcune clamorose eccezioni che non possono non preoccupare); la questione serba collegata a quella sempre esplosiva del Kosovo; i fantasmi della Bosnia-Erzegovina, della Macedonia e dell’Albania, che ancora oggi vanno vagando per le zone grigie del Vecchio Continente.
Insomma: l’allargamento dell’Unione, privo di una valida copertura costituzionale, di sicure regole decisionali, di chiare strategie sui Balcani e sull’Islam, di programmi per una stretta collaborazione militare, e privo inoltre di una condivisa disciplina contabile nei confronti dei parametri di Maastricht, si sta – almeno fino a questo momento – rivelando come un allargamento puramente retorico sul piano formale e del tutto inadeguato su quello operativo. Su tutto questo, inoltre, incombe l’ombra del massimo problema: il rapporto con gli Stati Uniti.

Dopo le gravi complicazioni internazionali, prodotte dalla politica della Casa Bianca nel Medio Oriente, si percepisce nell’aria una convergenza tra forze conservatrici e progressiste europee. A prescindere dal rozzo e populistico antiamericanismo delle estreme destre e sinistre presenti in molti Stati membri dell’Ue, sarà sufficiente accennare in merito all’alleanza di fatto, ideologica e politica, che si è saldata fra zapaterismo iberico e neogollismo francese di Chirac.
Nel momento in cui da più parti si sottolinea la necessità, giustificata, di riequilibrare il sistema occidentale con una compresenza europea più incisiva e più autorevole a fianco degli Stati Uniti, la socialista Madrid e la neogollista Parigi che cosa propongono? L’idea e l’immagine di un’Europa antagonista piuttosto che partner dell’America. Occidente contro Occidente: vale a dire un sistema occidentale spaccato anziché bilanciato e ricostruito, sia pure criticamente, dall’interno.

Ma la realtà della situazione europea è ben lontana dal consentire margini di gioco e di scelta, nei confronti dell’America, tra una credibile opzione antagonistica e una di credibile e autentica partnership. Lo è meno che mai, sul piano politico e militare, dopo l’allargamento imperfetto del primo maggio 2004. Circa metà della nuova Europa, quella che è arrivata “dal freddo”, che è passata quasi senza soluzione di continuità dai lager di Adolf Hitler ai gulag di Stalin, è decisamente filoamericana e vede una garanzia alla propria sicurezza soltanto ed esclusivamente sotto lo scudo della Nato. Non ha, per esperienza, alcuna fiducia nella capacità d’intervento dell’Onu e non prende sul serio le embrionali iniziative di una difesa incentrata sull’asse franco-tedesco.
Il reale rapporto di forza tra Europa e America è, senza ombra di dubbio, di uno contro dieci. A questo si aggiunga il lamento autopunitivo degli europei più ricchi, che hanno posseduto imperi coloniali, che hanno condotto guerre d’aggressione, e che oggi sperano di distanziarsi dagli americani e di ingraziarsi i terroristi islamici, obbedendo ai diktat dei manovratori dei kamikaze e stracciandosi le vesti sui peccati trascorsi. L’Europa che ha perduto la percezione dell’amico e del nemico, l’Europa che piace agli antieuropei di destra e di sinistra, «l’Europa della contrizione, del pentimento, della perpetua autocritica», come dice Alain Finkelkraut, non ha le carte in regola né per opporsi all’America unilateralista né per ricongiungersi su una piattaforma di parità con un’America convertita al multilateralismo.

Quest’Europa dei pentimenti ipocriti e dell’opulenza diffusa, prima di giudicare l’America che quasi da un secolo, pur commettendo errori, versa un suo tributo di sangue alla libertà, dovrebbe rimettere ordine ed equilibrio in casa propria. Allargarsi non basta. Per ridimensionare la bilancia delle relazioni internazionali dovrebbe riunirsi dopo essersi allargata, darsi un quantum continentale di sicurezza difensiva, farsi temere dai terroristi che vorrebbero trasformarla nell’emisfero malato dell’Occidente. Il resto non è che resa, travestita con buoni sentimenti.
Fra l’altro, solo ora si sta prendendo coscienza che l’allargamento verso l’Est è destinato a cambiare gli equilibri interni e la stessa natura dell’Ue. Il fatto è che l’integrazione è stata trattata, quasi fino alla dirittura d’arrivo, più in termini contabili che con una chiara visione d’insieme delle sue implicazioni.
In un primo tempo, i governi euro-occidentali avevano concepito questo allargamento come un’iniziativa imposta soprattutto da una situazione di emergenza. C’era da colmare un vuoto di potere, aggravato dal collasso delle economie locali, che altrimenti avrebbe generato (questo si temeva) un pericoloso focolaio di conflitti intestini e di instabilità al centro del Vecchio Continente.
Successivamente, quando le cose si normalizzarono e la Germania (non più preoccupata per la propria sicurezza a ridosso delle frontiere tedesche) smise di premere il pedale sull’acceleratore e venne anteposta la tesi dell’ “approfondimento” a quella dell’allargamento, subentrò una sorta di tiro alla fune tra Bruxelles e i governi centro-orientali sia sulle modalità sia sulle sequenze del processo di ricongiungimento. Bruxelles intendeva, a buon diritto, verificare come progredisse ad Est un effettivo sistema democratico, insieme con il libero mercato; gli altri, impazienti di bruciare le tappe, anche perché sospinti dal rischio di incorrere, a causa delle drastiche riforme che avrebbero dovuto attuare, in un’ondata di impopolarità pregiudizievole per le loro nuove e ancor fragili istituzioni politiche.
In realtà, non è che a Bruxelles non si fosse consapevoli del notevole impegno chiesto ai nuovi Paesi perché si allineassero alle normative Ue. Tuttavia si credeva che bastasse a ripagarli il diritto di accedere in un vicino futuro ai sussidi comunitari in favore dell’agricoltura e delle aree più deboli.
Sennonché, pur confidando nell’acquisizione di tali vantaggi, i Paesi che, affrancati dal giogo di Mosca, stavano percorrendo faticosamente le tappe di avvicinamento alle sponde dell’altra Europa, nutrivano aspettative più consistenti e ambiziose. Ai loro occhi, l’integrazione avrebbe dovuto realizzarsi sulla base di un’osmosi, di un processo interattivo, in modo che essi potessero esprimere le loro istanze e concorrere su un piano di parità alla definizione di una comune identità europea. Era in particolare la Polonia a coltivare simili propositi, anche perché aveva un peso politico ed economico (circa la metà della popolazione e del Pil dei Paesi ex comunisti dell’Est nel loro insieme) per far sentire la propria voce. Del resto, non è che l’Ungheria o la Repubblica Ceca si accontentassero di venire ammesse in Eurolandia dalla porta di servizio o si rassegnassero ad esser considerate alla stregua di parenti poveri.
Nelle capitali occidentali si è finito così per non tenere in debito conto il fatto che le nazioni centro-orientali, entrando nell’Ue, intendevano legittimamente essere soggetti attivi e compartecipi del processo di costruzione di una nuova e più grande Europa; ossia di un’opera solidale da realizzarsi in base a un reciproco rapporto di idee e di energie, di culture e di orientamenti. Tutt’altro, quindi, che un mutamento di scenario unidirezionale, circoscritto in una dilatazione a cerchi concentrici dell’Europa dei Quindici, delle sue logiche e delle sue geometrie.
Si è osservato, in seguito al pronunciamento di numerosi Paesi mitteleuropei a favore della “guerra preventiva” contro l’Iraq decisa da Washington, che essi costituirebbero una sorta di testa di ponte degli Stati Uniti nel cuore dell’Europa, a scapito della compattezza e dell’autonomia dell’Ue.
Ma certe loro propensioni filoamericane e il loro fervore atlantista si spiegano col fatto (per lo più non percepito all’Ovest) che la Russia è per i governi dell’Est un Paese vicino troppo potente e pur sempre imprevedibile. D’altra parte, non avrebbe potuto essere più improvvida quanto rozza e controproducente, durante la crisi irachena, la sortita di Chirac, secondo cui i nuovi venuti nell’Ue avrebbero dovuto «stare sugli attenti».

Quel che è certo è che oggi, ad adesione avvenuta, non solo sono venuti al pettine determinati nodi di ordine politico, ma sono emersi anche alcuni problemi che hanno a che vedere sia con aspetti sociologici e con risvolti psicologici sia con prospettive e linee di tendenza la cui complessità o incidenza non era stata valutata appieno. Noi ne abbiamo messo in rilievo alcuni.
Ma tutti insieme ci suggeriscono che essere diventata territorialmente più larga non significa essere diventata più grande: quest’Europa ha bisogno di una fase di assestamento da realizzare su un piano di trasparenza e di chiarezza ineludibili; e ha bisogno di istituzioni decisionali forti e autorevoli. O tutto si ridurrà ad una mera zona di libero scambio, cioè ad un’Europa dimezzata, o, se si vuole, ad una non-Europa: quella che non avrebbero mai immaginato gli spiriti fondatori dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale.

 

   
   
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