Settembre 2004

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Gli inferni
del Continente Nero
Mimmo Mastronardi  
 
 

 

 

E’ bastato meno di mezzo secolo per moltiplicare all’infinito gli
irriducibili inferni che si allargano dal Sahara fin quasi ai mari che preludono al sesto continente.

 

Era terra di conquista per il colonialismo europeo. Oggi è un continente che gronda sangue. Dal Corno d’Africa alle sponde del Kivu e a quelle del Tanganika, dal Golfo di Guinea alle foreste dell’Ituri e dell’Uganda, le lotte di potere e le guerre per il controllo delle ricchezze del sottosuolo continuano a dilaniare il gigante moribondo che si allarga di fronte al Sud d’Italia.
Si accende appena una fragile speranza in Congo, quando in Liberia e in Burundi ricominciano i massacri. Kinshasa fibrilla, Monrovia è investita dalla furia dei miliziani del “Lurd” (Liberians united for reconciliation and democracy), che rovesciano un numero apocalittico di colpi di mortaio.
A Bujumbura i ribelli hutu del “Fnl” (Forze nazionali di liberazione) colpiscono le città dalle colline e spediscono plotoni di bambini-soldati allo sbaraglio nei quartieri del centro. Ovunque incombe il rischio colera: le popolazioni non riescono a raggiungere neanche i cimiteri per seppellire i cadaveri che ingombrano le strade, mentre in decine di migliaia gli sfollati cercano scampo negli ospedali, nei campi sportivi, nelle chiese. Ma nessun edificio è sicuro. La morte è in agguato dietro ogni angolo. E all’angolo opposto è in agguato un’arma automatica.

La mappa dei Paesi subsahariani colpiti da terrorismi, da conflitti armati, da guerre civili e da forti tensioni è molto complessa, e coinvolge, oltre agli interessi per le materie prime, anche il campo degli odi tribali e religiosi, che finiscono per distruggere alla radice le già debolissime strutture economiche delle diverse regioni. Alcuni esempi: guerre civili, con alcuni colpi di Stato, e comunque con conflitti in corso, riguardano la Mauritania, la Guinea, la Sierra Leone, la Liberia, la Costa d’Avorio, il Togo, il Burkina Faso, il Congo, la Repubblica democratica del Congo, il Ciad, il Camerun, il Niger, il Sudan, il Ruanda, il Burundi, la Somalia. Attività terroristiche sono dispiegate in Tanzania e in Kenya. Tensioni fra Paesi interessano l’Eritrea e l’Etiopia, l’area Uganda-Ruanda-Burundi, l’area Niger-Nigeria-Camerun.
In Senegal nessun governo è riuscito a mettere fine alla ribellione indipendentista nella regione di Casamance, che trova appoggi in Gambia e rende insicuro l’intero territorio. Nella Repubblica democratica del Congo i morti sono stati due milioni e mezzo, e centinaia di migliaia i profughi: è stato definito il bilancio della prima guerra mondiale africana; le straordinarie ricchezze del suolo (diamanti, smeraldi, uranio…) suscitano gli appetiti dei Paesi confinanti, e non soltanto di questi. La sanguinosa instabilità in Mauritania rivela la fragilità di fondo di un Paese in cui beduini e afro-mauritani (discendenti dagli schiavi) si odiano con una ferocia inaudita.

In Nigeria, cioè nel Paese più popoloso dell’intero Continente Nero, le regioni del Nord hanno rimesso in circolazione la Shari’ah, la legge islamica, mentre nel sud le immense ricchezze petrolifere sono nelle mani dei militari e di una classe politica profondamente corrotta. In Sudan da oltre quarant’anni un conflitto oppone le popolazioni animiste e cristiane del sud al nord musulmano; Khartoum impedisce l’arrivo degli aiuti internazionali nelle regioni che sono in pugno alla guerriglia, che ha provocato milioni di morti. In Burundi, come nel Ruanda, popoli hutu e tutsi si affrontano dal 1962, ma ci sono anche scontri all’interno dell’etnia tutsi; i genocidi si alternano senza soluzione di continuità.
In Somalia i signori della guerra hanno praticamente cancellato ogni forma di Stato, dando origine a un’anarchia che continua a provocare stermini reciproci fra etnie militarizzate, contro le quali nulla ha potuto persino l’intervento dell’Onu. In Liberia, centro di traffici di armi e di riciclaggio di denaro sporco, oltre che di contrabbando internazionale di pietre preziose, si organizzano le formazioni mercenarie che fomentano la guerriglia in Costa d’Avorio e nelle zone diamantifere della Sierra Leone, con decine di migliaia di civili selvaggiamente massacrati, torturati, mutilati.
La lotta per la spartizione dei giacimenti di gemme e di minerali rari è all’origine di molte guerre e guerriglie. Il monopolio della commercializzazione dei diamanti, detenuto per quasi tutto il Novecento dalla De Beers, si è sfaldato con l’uscita dell’Australia e della Russia dalla “Central selling organization” di Londra, il cartello dominato dal colosso sudafricano. E i traffici clandestini hanno ripreso quota. Ad Anversa affluiscono ogni anno 3 miliardi di dollari di diamanti di contrabbando, sui quali l’Hoge Raad voor Diamant (l’istituto di controllo dell’industria diamantifera belga) ha in passato chiuso gli occhi. Tra il 1994 e il 1998 la Liberia, accreditata di una produzione annuale di 130 mila carati, ha esportato in Belgio più di 31 milioni di carati, in gran parte provenienti dalla Sierra Leone. In Angola, negli anni Novanta, i diamanti hanno consentito alla guerriglia delle formazioni dell’Unita di acquistare armi per 4 miliardi di dollari.
In Congo la corsa allo sfruttamento delle miniere ha innescato una guerra civile che ha provocato milioni di profughi e di vittime e ha spinto Angola, Zimbabwe, Namibia, Uganda, Ruanda e Burundi ad inviare truppe per accaparrarsi i tesori dell’ex Zaire. Nel Kivu e nella provincia dell’Ituri i disordini etnici sono fomentati dalla lotta per il controllo dei giacimenti di coltan (columbite-tantalite), una sabbia nera ricca di ossidi di niobio e di tantalio utilizzata nella fabbricazione dei circuiti dei computer, dei videogames, dei telefoni cellulari e nell’elettronica d’avanguardia. Aerei di compagnie-ombra, pilotati da mercenari russi e kazaki, fanno la spola tra Goma, Kisangani e Kigali, trasportando centinaia di tonnellate di coltan, che subito dopo viene esportato in diversi Paesi europei o in Sudafrica.

Anche dietro la guerra civile che da oltre un decennio insanguina il Burundi (sei milioni e mezzo di abitanti, uno dei Paesi più poveri del mondo) si celano inconfessabili interessi economici. Più di 300 mila morti e oltre un milione di profughi non hanno ancora scoraggiato le mafie politiche e militari implicate nel traffico clandestino dell’oro che dal Kasai e dalle altre regioni congolesi approda sulle rive del lago Tanganika. Da qui, a bordo di piroghe, raggiunge Bujumbura, dove i comptoir dei commercianti godono delle agevolazioni fiscali accordate nell’ambito di una zona franca. Trasformato in lingotti col sigillo della Banca nazionale, l’oro finisce in qualche banca svizzera, dopo tortuosi peripli negli aeroporti di Singapore, Bruxelles, Parigi, Francoforte e Amsterdam. Ma sul lago transitano anche armi e munizioni destinate ai ribelli e all’esercito regolare, cioè agli hutu, che rappresentano l’85 per cento della popolazione, esclusi dal potere politico fin dall’indipendenza dal Belgio nel 1962, e ai tutsi, meno del 15 per cento, che da sempre occupano i posti chiave nell’esercito e nell’amministrazione.

Ovunque è il regno dei baby killer. Sono i bambini analfabeti, imbottiti di anfetamine (la “kanyanga”, acquavite di mais, o il “songo”, birra di sorgo e banane, accompagnano l’eroina assunta dagli adulti), resi insensibili alla sofferenza dagli orrori di cui sono quotidianamente testimoni. Costoro maneggiano con gran disinvoltura il machete e le armi automatiche, diventando spietati strumenti di morte, mentre le squadracce militari al soldo di chi le paga meglio godono di un’impunità pressoché assoluta e consumano rappresaglie di inaudita violenza.
E ovunque è l’inferno dell’Aids, che si va diffondendo in misura esponenziale, mentre due grandi fasce sono interessate da fenomeni altrettanto letali: la desertificazione, che coinvolge vasti territori dal Mali al Burkina Faso, al Niger, al Ciad e alla Repubblica Centroafricana; e la carestia, che nell’area occidentale interessa la Liberia, la Sierra Leone e la Mauritania, mentre in quella orientale si sviluppa dalla Repubblica Centroafricana all’Uganda, all’Etiopia, al Kenya e alla Somalia. Qui i baby killer hanno non solo licenza di uccidere, ma anche di saccheggiare, insieme con i mercenari e con le bande armate che li ritengono combattenti perfetti perché ubbidiscono ciecamente agli ordini, sono agevolmente manovrabili, non hanno alternative alla fame.

In queste condizioni, è evidente che soltanto l’Africa mediterranea conosce relative condizioni di stabilità e anche di benessere. L’immagine che si profila per il resto del Continente, forse escluso il Sudafrica, con i Paesi contigui, tuttavia anche questi percorsi dalle fibrillazioni ribelliste, è quella data dalla presenza degli inglesi in Sierra Leone e dei francesi in Costa d’Avorio, con forze militari d’intervento che somigliano troppo da vicino ad una ricolonizzazione.
L’Europa meridionale, e il Sud italiano in particolare, deve fare i conti con questo stato di cose: campo di lavoro sterminato, ma conteso da gruppi politico-economici e militari per le sue ricchezze ancora quasi intatte, il Continente Nero, tranne rarissime eccezioni, non conosce democrazie, non costruisce economie, non garantisce progetti di sviluppo per reciproche collaborazioni. Le sue sono guerre atroci, ma sostanzialmente ignorate dai mass media. Unici ponti di collegamento sono le organizzazioni non governative e le missioni che vi operano in condizioni di assoluta precarietà. Eppure, negli anni Sessanta, quando si raggiunsero le indipendenze dal colonialismo europeo, una grande speranza aveva acceso questo gigantesco cuore di tenebra. E’ bastato meno di mezzo secolo per moltiplicare all’infinito gli irriducibili inferni che si allargano dal Sahara fin quasi ai mari che preludono al sesto continente.

 

   
   
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