Settembre 2004

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Pianeta Cina
Peter Hobsbown  
 
 

 

 

E’ un abbaglio: è vero che l’Europa è invasa dai
prodotti cinesi,
ma è altamente improbabile che la Cina diventi terra di conquista per il “made in Europe”.

 

Se l’Est asiatico (il “Far East”, secondo una definizione in voga da qualche tempo a questa parte) produce ed esporta in Europa beni tipici del made in Italy a costi di gran lunga inferiori rispetto a quelli praticati dagli italiani, (e magari con alcuni marchi contraffatti), il problema economico è evidente: per le nostre imprese la competizione diventa impossibile, mentre il declino appare inevitabile.
America, Cina, Europa, e immediati dintorni: l’irruzione di Pechino sui mercati mondiali ha complicato le cose molto più di quanto fece l’ingresso di Tokyo, dapprima, e quello delle “Tigri asiatiche” in una seconda fase.
America-Cina, intanto: i due Paesi sviluppano la loro politica economica in base a una doppia logica, nel senso che proteggono le loro produzioni nazionali, mentre si proiettano con forte aggressività sui mercati esterni. La posizione dell’Europa è asimmetrica e autolesiva per molti versi. Secondo un’analisi recente, il “suicidio europeo” ha una motivazione ideologica, nello stesso tempo mercatista e welfarista. Da un lato l’Europa si apre totalmente ai prodotti stranieri, senza prevedere forme di protezione dei propri prodotti sul mercato interno. E in questo si sublima l’assoluto dell’ideologia mercatista: il libero mercato insieme come mezzo e come fine. Dall’altro lato il continente europeo si mette quasi fuori gioco, imponendo alle proprie produzioni il costo di regole welfariste cogenti e perfezioniste. E’ come la tela di Penelope: di giorno l’Europa predica e si autopredica la competizione, mentre di notte tesse una coltre che soffoca le imprese e il lavoro.

Fenomeno già previsto, allorché (era il 1995) si scrisse che la povertà stava arrivando in Occidente, area nella quale si combinavano salari orientali e costi occidentali. Salari livellati dalla competizione salariale internazionale, costi elevati per conservare le strutture del welfare europeo. Una “cascata di fenomeni destabilizzanti”: una profezia, confortata da verifiche non solo economiche, ma anche politiche, condotte sul campo.
L’esempio forse più clamoroso e concreto, quello del marchio europeo clonato dai cinesi. In Europa il marchio C E (con le due lettere staccate) è posto a garanzia dei prodotti fabbricati nel rispetto di tutte le leggi, da quelle del lavoro a quelle sanitarie e ambientali, fino alla tutela dei minori. I cinesi hanno applicato un marchio identico, CE, (con le due lettere non staccate), che indica sui loro prodotti “China Export”. Una malizia furfantesca, che trae in inganno i consumatori di mezzo mondo.
La svolta si ebbe al G7 di Bercy, presso Parigi. Intorno al tavolo c’erano i ministri economici dei sette maggiori Paesi industriali. Nel documento conclusivo, l’Italia propose di sostituire l’espressione tradizionale di sostegno al “free trade” (commercio libero), argomentando che l’assolutismo del libero commercio doveva essere in qualche misura moderato. All’inizio, tutti d’accordo. Il problema era l’espressione “fair trade”, che negli Stati Uniti significa dazi e quote: troppo protezionistica. Così passò la formula “rules based trade”, commercio basato sulle regole. Il che, in sostanza, è ciò che diceva Adam Smith: il commercio è rispetto di regole, oppure non è. Era il 22 febbraio 2003. Quel giorno, in un documento ufficiale del G7, la curva ideologica del mercatismo cominciò a flettere.

E’ bene fissare alcune date storiche. 1989: caduta del Muro di Berlino. Cioè, il big bang che diede il via a una nuova era d’integrazione commerciale del mondo, sostenuta dalle nuove tecnologie informatiche. Il commercio internazionale, i pc e le telecomunicazioni c’erano anche prima, ma fu il 1989 che integrò il mondo sul piano politico e aprì i forzieri delle tecnologie militari, facendo decollare Internet. In un decennio l’accelerazione fu impressionante. E nel 1999, al summit della Wto di Seattle, si aprì il vaso di Pandora del libero commercio mondiale, con la promessa di ricchezza per tutti. Così, almeno, la vedevano i mercatisti. Altri invece temevano che il vaso di Pandora si sarebbe presto trasformato in una lampada di Aladino: sfregandola, sarebbe comparso il fantasma della povertà.
La verità, a ben vedere, stava nel mezzo: si trattava di combinare l’integrazione mondiale del mercato con gli strumenti e con la tempistica necessari per evitare squilibri troppo violenti. In altri termini: la platea dei chierici clintoniani a Seattle sposò senza riserve la tesi del vaso di Pandora. Alcuni ex comunisti o laburisti passarono tranquillamente dal dogma di Mosca o del Labour al dogma mercatista, che è l’estremizzazione della dottrina liberale del libero mercato. Non riflettendo sul fatto che se Marx fosse vivo ignorerebbe tutti i fenomeni marginali che piacciono tanto a certi progressisti, e si occuperebbe in profondità, invece, del più colossale fenomeno di migrazione industriale mai avvenuto nella storia, quello dai Paesi occidentali verso la Cina, senza precedenti per intensità e per quantità.
E’ bene dire una volta per tutte che il 55 per cento delle imprese che producono beni di consumo ordinari in Cina sono in realtà occidentali; che il 90-92 per cento delle imprese che lì producono tecnologie avanzate sono occidentali. “Occidentali” significa americane ed europee. Ma l’Europa non fa ciò che l’America, patria del liberismo, sta facendo da tempo, con successo: ovvero, proteggere il mercato interno e la sua produzione nazionale non soltanto con dazi doganali, ma anche con strumenti indiretti, come controlli alimentari, sanitari, ambientali e di tutela sociale sui prodotti in arrivo.

Eppure, in prospettiva, ci sono due illusioni destinate a cadere. La prima è che la Cina possa diventare un grande mercato per i prodotti europei. E’ un abbaglio. E’ vero che l’Europa è invasa dai prodotti cinesi, ma è altamente improbabile che la Cina diventi terra di conquista per il “made in Europe”. Se i prodotti cinesi sono buoni e a buon mercato per gli europei, a maggior ragione lo saranno anche per i cinesi. Ai prodotti europei in Cina saranno riservate tutt’al più aree di nicchia o aree marginali. La seconda illusione è che l’Europa conservi il monopolio della tecnologia, riservando alla Cina produzioni di massa a bassa intensità tecnologica. La realtà è che la potenza scientifica della Cina sta salendo vertiginosamente.
E intanto, noi abbiamo la vita complicata da una serie di norme e di lacci inestricabili. Ad esempio, l’imprenditore italiano ha l’articolo 18, mentre il suo competitore cinese non ha alcun vincolo. Le nostre imprese devono rispettare la legge 626 sull’ambiente, mentre quelle cinesi e dell’intero Far East inquinano senza alcun limite. Da noi si producono rubinetti di qualità, conformi a costosissimi standard europei, mentre in Cina si fabbricano e si esportano rubinetti fatti con materiale di risulta, con uranio impoverito. Se da noi il costo è cento e in Cina è meno di dieci, puoi fare riforme fiscali estreme, aliquota zero sugli utili, ma se gli utili non ci sono più a che serve? E ancora: nel mondo ormai ci sono soltanto due monete, l’euro e il dollaro. E la debolezza del dollaro americano, al quale sono legate le valute asiatiche, fa sì che l’aggressività dei prodotti del Far East nell’area dell’euro sia ancora molto forte. Anche sui cambi si dovrà riflettere in sede europea.

In ultima analisi, si può dire che la Cina di oggi è come il Giappone di trent’anni fa. In poco tempo la sua capacità tecnologica crescerà in maniera esponenziale, poiché questo gigantesco Paese non solo dispone di una manodopera straordinaria per quantità e per qualità, ma anche di un’intensità scientifica e culturale impressionanti. Tra qualche anno soltanto potrebbe non esserci più neppure un solo televisore prodotto in Europa.
Dunque, il fenomeno Cina va visto in un contesto universale. Oggi si parla di declino dell’economia italiana. Ma passare dal miracolo al declino in pochi anni non è normale, per un declino di solito ci vogliono alcuni decenni. Invece, dopo Seattle, c’è stata una fortissima accelerazione, che è il risultato di un’aggressione commerciale senza regole. Porre questo problema e agire, richiede una certa dose di visione e di coraggio politico. L’Italia in particolare deve investire moltissimo in competizione. Ma i tempi sono drammaticamente stretti e l’azione deve essere duplice: da un lato, investire per competere; dall’altro, regolare la competizione. Solo così si potrà evitare che l’Italia, e la stessa Europa, vadano incontro ad una incosciente eutanasia.

Quante imprese italiane sono state “scottate” dal Dragone pekinese? L’aggressività gialla non conosce limiti. Un’impresa nostrana produceva caffettiere a 14 euro di costo e le rivendeva a 18 euro. Un giorno, però, gli uomini del suo marketing scoprirono che il mercato italiano era invaso da caffettiere contraffatte cinesi col marchio CE (“China Export”), con prezzo vendita di appena 6 euro e con guadagno elevato, dal momento che le caffettiere clonate erano prodotte a un costo unitario di fabbrica di 2,5 euro. Non solo: le caffettiere contraffatte registravano persino alcune migliorie rispetto agli originali. Risultato: l’impresa italiana fu costretta, per non chiudere, a trasferire in Cina il 5 per cento della produzione, in attesa di tempi e di soluzioni migliori.
Caso dei rubinetti, delle valvole e delle pentole di Lumezzane, nel Bresciano: materiale copiato dalla Cina, ma prodotto in questo Paese con materiali di risulta, compreso l’uranio impoverito. Poiché la gente non lo sa, e guarda solo alla convenienza del prezzo, la vendita di rubinetti italiani di qualità crolla del 46 per cento, e quella delle pentole del 64 per cento. Una batteria da cucina di lusso prodotta in Italia non può costare meno di 500 euro, quella cinese sfiora i 25 euro!
Altro caso. Un’azienda tessile torinese, per reggere la competizione internazionale, contro i giganti dell’abbigliamento sportivo, decide di trasferire in Cina la produzione, con benefici immediati e con forte rilancio dell’export. Ma dopo l’11 settembre il trader di Hong Kong incaricato della mediazione incomincia a bloccare tutto: acquisti, spedizioni, pagamenti. I traders di Hong Kong sono notoriamente degli strozzini e, appena possono, dei ricattatori. Dunque: per poter riprendere l’attività, il trader in questione reclama il 30 per cento della società italiana, a prezzi stracciati.
E non a caso la voce più consistente delle esportazioni italiane in Cina è quella dei macchinari (58,4 per cento delle nostre esportazioni in quel Paese): proprio di questi i cinesi si servono per clonare a costi più bassi i prodotti del made in Italy, che fino a pochi anni fa facevano la fortuna della nostra imprenditoria in diversi settori: tessile, abbigliamento, calzature, e prodotti manifatturieri vari, dalle caffettiere – appunto – alle piastrelle e alla pelletteria. E per l’immediato futuro si prevede che il livello tecnologico della produzione cinese migliorerà sensibilmente.
Già oggi quella che è considerata la fabbrica collettiva numero uno al mondo sforna il 26 per cento delle lavatrici del pianeta, il 50 per cento delle macchine fotografiche, il 40 per cento dei forni a microonde. E’ un’escalation che non conosce precedenti nella storia della Cina: entrata nella Wto dopo 15 anni di anticamera, la Cina ha visto la quota del suo commercio mondiale salire dallo 0,7 per cento del 1986 al 7 per cento attuale. Ora, con circa 280 miliardi di dollari di export, la Cina è al sesto posto nella graduatoria mondiale dei Paesi esportatori. La Gran Bretagna aveva impiegato 58 anni per raggiungere un analogo risultato; gli Stati Uniti, 47 anni; il Giappone, 43. E la composizione sociale cinese prelude ad altri grandi balzi.
Gli imprenditori privati nel 1988 erano appena 100 mila. Oggi sono due milioni e mezzo. La classe media è stimata in 400 milioni di persone, i benestanti sfiorano i 200 milioni: che è come dire la metà della popolazione europea e due terzi di quella americana. A fronte di queste prospettive, non meraviglia che quello cinese sia un polo di attrazione per gli investimenti esteri: ammontavano a 52,7 miliardi di dollari nel 2002, saliranno a 100 miliardi nel non lontano 2005.
La potenza produttiva della Cina aumenterà grazie alla politica promossa all’interno, che favorisce la migrazione dalle aree agricole verso le fasce costiere, dove sono concentrati gli insediamenti industriali.
Il divario di reddito pro-capite tra interno e costa è di nove a uno: difficile resistere al richiamo del guadagno e del benessere. Prevedibili, dunque, nuove fabbriche, nuove attività, sviluppo tecnologico, concorrenza accanita con produzioni a basso costo, e nuove aree di crisi nell’Estremo Oriente e in Occidente. Tutti i progetti di rilancio delle economie occidentali e di quella giapponese e delle vecchie Tigri asiatiche non possono prescindere da questa situazione e da questi dati.

 

   
   
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