Settembre 2004

grandangolo / dopo la caduta dell’Urss

Indietro
I nuovi cantieri
della democrazia
Jan Eherlich  
 
 

 

 

Il fatto stesso che si tengano ogni quattro anni
elezioni
parlamentari
rappresenta una conquista per chi ricorda i tempi
del mitico Pcus, con il suo ferreo Politburo e con
le parate sulla Piazza Rossa.

 

Il processo di democratizzazione dell’ex Impero sovietico ha ormai quindici anni alle spalle. Si tratta di un’area immensa, che si estendeva dall’Estremo Oriente al Mar Baltico e dal Circolo polare artico agli spazi geopolitici cinese, indiano, persiano, turco e arabo. In quest’area, all’Unione Sovietica sono succeduti quindici Stati indipendenti, i quali sono andati ad affiancarsi alle Repubbliche “satelliti” dell’Europa orientale, centrale e balcanica, (nelle quali, a loro volta, nuovi Stati sono nati dalla dissoluzione delle federazioni cecoslovacca e jugoslava).

Dal punto di vista dei traguardi raggiunti dai processi di democratizzazione, questi numerosi e variegati Paesi (in tutto, ventisette) possono essere raggruppati in quattro categorie. Un primo gruppo ha visto la nascita di istituzioni libere e pluraliste e di nuovi sistemi politici, con frequenti alternanze al potere. La grande instabilità che ha caratterizzato quasi tutti questi Paesi non ha impedito alle classi dirigenti di perseguire la riforma radicale del sistema economico e la creazione di istituzioni di libero scambio, e ha visto affiorare le strutture di una società civile plurale, che del resto in alcuni Paesi erano già presenti (si pensi, ad esempio, alla Chiesa cattolica in Polonia), oppure potevano vantare non lontani precedenti storici (è il caso della ricca tradizione pluralistica della Cecoslovacchia prima dell’avvento del comunismo).
Il coronamento di questo percorso è stato, per questi Paesi, l’ingresso nell’Unione europea. Un caso simile, ma con un’accelerazione ancora maggiore, era stato quello dell’ex Repubblica Democratica Tedesca, integrata a tappe forzate in Occidente fin dal 1990. Se si afferma che le istituzioni politiche di questi Paesi non sono oggi sostanzialmente differenti da quelle dell’Occidente europeo, si esagera forse un poco, ma non si è lontani dalla realtà. Ovviamente, stiamo parlando di Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia e Lituania.

Un secondo gruppo di Paesi ha invece compiuto alcuni significativi passi in avanti nel processo di democratizzazione, ma diversi fattori, di ordine geopolitico, storico, economico e sociale, non consentono di considerare compiuto il processo di democratizzazione. E’ il caso della Romania, della Bulgaria e della Croazia, ove rispettivamente l’ancora enorme peso di una forza post-comunista non del tutto riformata, l’emersione di un partito personale attorno all’ex monarca Simeone Saksocoburgovsky, e le conseguenze della guerra seguita alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, delineano uno scenario balcanico ben diverso da quello centro-europeo dei Paesi ormai ammessi nell’Unione europea. Ancora più complessa è la situazione di altri cinque Stati balcanici (Serbia-Montenegro, Albania, Macedonia, Moldavia e Bosnia-Erzegovina) nei quali per un verso il regime comunista aveva conosciuto asprezze inaudite, che hanno lasciato tracce pesantissime nella struttura culturale, oltre che socio-economica (è il caso albanese), e per un altro verso la complessa composizione etnica e la tragedia dell’ex Jugoslavia rendono tuttora problematico il consolidamento di società e di istituzioni democratiche. Se queste ultime sono formalmente presenti, il corpo sociale fatica ad adattarsi ad esse e a renderle vitali, anche come luogo di civilizzazione e di moderazione dei conflitti.
Un terzo gruppo include l’Ucraina e i tre nuovi Stati nati nel 1991 nel Caucaso: Georgia, Armenia e Azerbaigian. Di questi ultimi Stati, (collocati in un contesto delicato, segnato dal conflitto ceceno, dalla presenza di ingenti risorse petrolifere e da labili confini etnici), soltanto l’Armenia ha compiuto passi significativi verso la creazione di strutture democratiche. Negli altri due Paesi caucasici e nell’Ucraina il pendolo della storia dell’ultimo decennio ha invece visto una preoccupante oscillazione tra l’autoritarismo di gerarchi tardo-comunisti (Shevardnadze a Tblisi, Aljev a Baku, Kravciuk e poi Kutchma a Kiev) e il nazionalismo estremista dei loro oppositori, da Gamsakurdia ad Elchibey. Le regole democratiche formalmente in vigore in questi Paesi velano appena uno scenario nel quale la democratizzazione appare inceppata.
Il quarto gruppo di Stati, infine, include le cinque ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale: Uzbekistan, Kazachstan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan. In questi Paesi l’autoritarismo è più che evidente anche nelle strutture giuridico-costituzionali, e il contesto culturale è ben distante dal mondo europeo, e pertanto pone problemi diversi e più complessi. E senza dubbio analoga sembra essere la situazione in Bielorussia.

In questo articolato panorama, dove va collocata la Russia di Vladimir Putin? Il drammatico periodo apertosi con il crollo del comunismo è forse ad una svolta, nel senso di un consolidamento di strutture di potere basate non soltanto su una persona, ma su coalizioni sociali ampie, che vedono nel Presidente l’elemento catalizzatore. Ma il sistema politico appare più caucasico che balcanico, cristallizzato com’è sull’alternativa tra nazionalisti e comunisti, con una preoccupante eclissi delle forze liberali, con limiti evidenti al pluralismo sociale e politico e con un Presidente quasi onnipotente, che ha di fronte a sé un Parlamento alquanto debole. Inoltre, a Mosca come nel Caucaso, non si è ancora dato l’evento topico che segna un passaggio essenziale nei processi di democratizzazione: l’alternanza non violenta al potere, prodotta mediante elezioni. In luogo di ciò, si è avuta nel Duemila una sorta di successione dinastica (da Eltsin a Putin) e, in precedenza, il consolidamento di un Presidente mediante un colpo di Stato contro il vecchio regime, che con Gorbaciov stava conoscendo trasformazioni profonde, riforme graduali ma indirizzate verso la modernizzazione del Paese, dialogo con l’Occidente e, in ultima analisi, fine della Guerra Fredda.

Certo, il fatto stesso che si tengano ogni quattro anni elezioni parlamentari formalmente pluraliste rappresenta una conquista per chi ricorda i tempi del mitico Pcus, con il suo ferreo Politburo e con le parate sulla Piazza Rossa. Ma gli standard occidentali di democrazia, pur con tutte le loro contraddizioni, sono per la Russia ancora lontani. Il che rappresenta oggettivamente un handicap tanto per l’Europa quanto per gli stessi Stati Uniti, o quanto meno per quelle forze politiche americane aperte al progresso planetario, non isolazioniste e meno che mai ostili a un equilibrato sviluppo fra le grandi aree geo-politiche del mondo.

 

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2004