Settembre 2004

riforme poteri interessi

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La linea d’ombra
tra odio e felicità
Aldo Bello  
 
 

La sola direzione sociale concreta in cui la politica italiana ha dispiegato il proprio comando è stata quella dell’inarrestabile creazione di nuovi interessi.

 

Sostiene una scuola di pensiero: la ragione per cui nel nostro Paese è tanto difficile fare riforme radicali sta nella concezione collettivistica della società che sia la Destra sia la Sinistra possiedono, e per la quale insieme restano invischiate in una sorta di paralizzante convergenza con gli interessi organizzati, a scapito degli interessi dei singoli.
Un’altra scuola ribatte che la chiave del problema delle (quasi senza eccezione) mancate riforme non va cercata nell’ideologia collettivistica della politica, ma piuttosto nei limiti con cui da sempre essa si è abituata ad agire in Italia. Cioè: la “sostanziale timidezza/insicurezza sociale” della politica e delle sue leadership è la vera responsabile del basso tasso di riformismo italiano.
I due atteggiamenti intellettuali saranno pure paradossalmente contraddittori, ma sta di fatto che l’uno e l’altro proiettano fino a noi uno stato di cose che ha costituito il philum carsico e resistentissimo della nostra storia. Il Risorgimento e la nascita dello Stato unitario sancirono tacitamente due punti fermi, solo apparentemente incompatibili: l’onnipotenza dell’iniziativa politica, ma anche la sua ferrea subordinazione agli interessi sociali diffusi. La politica costruì il nostro Stato da sola, nella generale indifferenza della società; ma per questa sua eccentrica audacia il prezzo da pagare fu l’impegno a non intromettersi più di tanto negli equilibri, appunto, della società, a non alterarne il bilanciamento dei vari poteri, eccezion fatta per quelli della Chiesa, ritenuti tout court «interessi di uno straniero nemico».

Deriva da questa impronta originaria l’identità nello stesso tempo bifronte e confluente della politica italiana. Un’identità che ricorda abbastanza da vicino l’espressione morotea, che a suo tempo ci sembrò spregiudicata e tuttavia realistica, delle “convergenze parallele”. Ovviamente, sin dall’epoca post-risorgimentale la politica ha generato ideologie di interventi sugli equilibri sociali. Ma tali ideologie (di Destra o di Sinistra) sono state essenzialmente all’origine di sterili massimalismi e inconcludenti Aventini; oppure, se hanno ispirato partiti al potere, hanno generato stupefacenti smemoramenti.
E’ accaduto così che, avendo rinunciato di fatto a colpire gli interessi costituiti, la sola direzione sociale concreta in cui la politica italiana ha dispiegato il proprio comando è stata quella dell’inarrestabile creazione di nuovi interessi. Dunque, è vero che nel nostro Paese c’è stato un (debole) riformismo, ma esso non è stato mai indirizzato a spostare gli equilibri tra i poteri costituiti, quanto piuttosto ad aggiungere, sommandoli agli antichi, nuovi poteri e interessi paralleli. Come è stato acutamente notato, il riformismo all’italiana è stato quasi sempre un riformismo per aggiunta, per sovrapposizione, mai per spostamento o per sottrazione. Nel corso della nostra storia nessun privilegio sociale, professionale, di casta, di gruppo, di organizzazione, è stato realmente penalizzato, e men che mai annullato ope legis; nessun assetto è stato mai effettivamente riformato. In generale, ci si è limitati ad allungare la lista dei privilegiati, o per lo meno dei beneficati, per questi ultimi riferendoci in modo particolare ai nuovi strati popolari e piccolo-borghesi entrati in scena dopo il 1945, con l’avvento del regime democratico.

Va da sé che, per questi motivi, la creazione di nuovi interessi e di nuovi privilegiati si sia verificata in special modo sotto il cono d’ombra dello Stato e con il concorso determinante delle finanze pubbliche. E a nostro avviso lo statalismo (ancora oggi invocato nel nome delle Partecipazioni Statali, che furono polo di corruzione o di occulti finanziamenti, o di un redivivo ministero del Mezzogiorno, che fu in buona parte polo di clientelismo improduttivo) da una parte è ritenuto come vocazione originaria delle culture riformistiche italiane, e dall’altra parte è considerato come l’esito inevitabile dei confini che la sfera politica si è sempre obbligata a non valicare, consapevole di una rappresentatività sociale (e, di conseguenza, di una legittimazione) fragile, e in un certo senso revocabile ad opera di una società, qual è la nostra, che tradizionalmente trascura la rilevanza della politica, di cui non coglie il senso, della quale si fida poco, che non ha mai amato, e che difficilmente è disposta ad amare nel futuro.
In questa situazione potrà mai esserci spazio in Italia per un progetto radicalmente riformatore? E i vecchi e nuovi poteri, con i loro interessi e privilegi, saranno mai propensi ad assistere, inerti, al proprio dissolvimento?

E’ noto che l’Italia ha il terzo debito pubblico del mondo, senza essere il terzo Paese industriale del mondo. Sicché si predica il rigore, com’è giusto, e si parla di sacrifici. Solo che ogni italiano è disposto ad accettarli, a condizione che si tratti dei sacrifici degli altri. E questo è un altro aspetto identificativo della nostra antropologia politica: il rapporto con lo Stato è in via permanente conflittuale, non conosce autentici snodi, non dà luogo a radicali rivoluzioni culturali.
Nel senso che la nostra storia continua a trascinarsi fra le derive di due parti in reciproco sospetto: i cittadini percepiscono lo Stato come accanito impositore di tasse, imposte, accise e balzelli, non finalizzati a un generale e risolutivo progetto di equilibrato sviluppo economico e sociale, da una parte; dall’altra lo stesso Stato si è proposto come un gran contenitore dal quale i gruppi protetti e le clientele possono prelevare finanziamenti, ricevere contributi a fondo perduto, ottenere esenzioni e sanatorie d’ogni tipo. In questo modo, il decantatissimo mercato, anziché strumento di produzione e di diffusione della ricchezza, diventa una trappola di ingiustizie.
Così è lecito chiedersi come mai il mettersi in moto della grande locomotiva americana getti una luce inquietante sulla stagnazione che è nello stesso tempo italiana ed europea. E come mai gli Stati Uniti, che pure sono gravati da spese ingenti, sperimentino comunque una crescita che al sistema Italia e al sistema Europa è negata. E la risposta, per quanto complessa, è tuttavia chiarificatrice. Più che al bilancio degli Stati, è necessario guardare alle radici della filosofia politica. Se gli Usa riescono, nonostante tutto, a tenere il passo, mentre noi annaspiamo, è innanzitutto perché si tratta di una società economicamente sana: sebbene anche quello americano sia a tutti gli effetti un Welfare State, ciò non giunge a scalfire le idee madri sulle quali è incardinata la società americana. Lì il Welfare è un portato della storia, mentre il laissez-faire resta la regola, il principio ispiratore. Il che non significa che gli americani non credano nella solidarietà. Anzi, ci credono più di noi: chi conosce bene questo Paese sa che esso si basa su una “giving culture”, su una cultura del dare che sa prendersi cura dei meno fortunati, senza fare ricorso, salvo casi eccezionali, allo strumento della coercizione.

Ma la cultura del dare non è la cultura del dividere, che invece imperversa in Italia e in buona parte dell’Europa. Non a caso scriveva G.K. Chesterton, scrittore cristiano e poi cattolico: dare non è dividere. Il dividere si basa sull’idea che non ci sia alcuna proprietà personale, che ci si limiti a spartirci, come avvoltoi che si avventano su una carcassa, ciò che misteriosamente fa la sua comparsa sulla nostra tavola. Viceversa, il dare qualcosa a un’altra persona è possibile proprio perché si ammette il principio della proprietà, del possesso legittimamente conseguito: dunque, il donare è l’altra faccia del possedere.
L’America è una nazione di proprietari, e di proprietari che sanno donare. Stanno qui la sua essenza e il suo senso storico. Anche se non è scritto nella sua Costituzione, l’America è una repubblica fondata sulla proprietà. Il che si riverbera sul sociale: là dove domina l’ammirazione per chi sa fare di più e di meglio, non c’è posto per l’odio sociale. Dove aiutare chi è rimasto indietro è ritenuto un dovere personale, non si concepisce l’obbligo gravoso del dividere, livellando verso il basso. Dove la crescita e lo sviluppo seguono naturalmente la vocazione dell’uomo al lavoro, si tende (come recita la Dichiarazione d’indipendenza) al raggiungimento della felicità, propria e di chi sta vicino.
La distanza che separa l’America dall’Italia e dall’Europa, prima che politica, è dunque culturale: ed è una distanza abissale, che deve essere ridotta al minimo, se si vuol garantire ai nostri figli un futuro migliore di quello che è alle viste. Certo: sono necessarie riforme, occorre più mercato, si devono realizzare infrastrutture di cui il mercato ha bisogno per poter operare a pieno regime. Ma serve pure una riscoperta sincera e disinteressata di quei valori, cristiani e liberali (il rispetto della proprietà e i contratti, il sentimento del lavoro, l’entusiasmo e non l’invidia per il successo altrui, e per gli esiti propositivi della libera iniziativa, che soli possono assicurare a noi un avvenire di prosperità. Colpire, penalizzare, livellare con l’ossessione del pauperismo confessionale (di tutte le confessioni politiche) chi, lavorando bene e senza soluzione di continuità, è costretto a portare su di sé i pesi di tutti gli altri, e a pagare per gli appetiti voraci di lobbies e di organizzazioni ormai rappresentative in buona parte del parassitismo nazionale, significa ricalcare la linea d’ombra che divide – lacera – il Paese e lo ridicolizza al cospetto delle democrazie occidentali. Il gioco è durato troppo a lungo. E questo sistema non regge più.

 

   
   
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